LE RIPERCUSSIONI DELL’INSUFFICIENZA FILOSOFICA SUL DISCORSO POLITICO: RISPOSTA A LUIGI GRANELLI
Anche le ultime nostre considerazioni sul “dialogo” – che lo stesso Del Noce ammette essere utile e necessario per abbattere il nuovo avversario di oggi, e il cui riconoscimento, invero, costituisce una novità nel campo della strumentazione della politica culturale del partito cattolico – vengono a fornire, ci pare, una ulteriore verifica della nostra affermazione circa la necessità di problematizzare sino in fondo, e non già di continuare a riaffermare apoditticamente, la asserita sufficienza della posizione “platonico-cristiana”.
Dobbiamo ora aggiungere, peso, che l’insufficienza di una mera riaffermazione della pretesa compiutezza a validità di questa tradizionale posizione di pensiero non viene rivelata soltanto da ciò che il Convegno di Lucca ha detto sul terreno della politica culturale e del «dialogo», e che senza dubbio interessa più direttamente il mondo cattolico in generale; i limiti di quella posizione teorica emergono infatti anche sul terreno propriamente politico, e dunque in quel discorso che specificamente si rivolge al partito cattolico e che riguarda l’azione politica della Democrazia cristiana, quale dovrebbe svolgersi oggi, “nel tempo nuovo della cristianità”. Di fatto – anticipando un poco ciò che ci proveremo a dimostrare -, proprio quella insufficienza di fondo, già rivelatasi sul piano teorico e culturale, viene necessariamente a determinare, sul piano politico, una impostazione che, rebus sic stantibus, ribadisce e rende insuperabile, nonché del tutto involutiva, la crisi della Democrazia cristiana in guanto partito cattolico. Tutto ciò è appunto desumibile, e risulta anzi con particolare trasparenza, da un attenta lettura dell’intervento di Luigi Granelli, secondo noi il migliore – lo ripetiamo – tra quelli che sono stati pronunciati a Lucca da «uomini di partito».
Desideriamo tuttavia avvertire subito che non abbiamo prescelto il discorso di questo dirigente politico democristiano unicamente, e neppure essenzialmente, perché vi si mette in luce la gravità della crisi del partito cattolico. La ragione è piuttosto un’altra. Al di là delle necessarie sfumature e delle «mediazioni» di chi, fra i democristiani, ha le cure della condotta del Governo o ha le preoccupazioni della gestione complessiva del partito, Granelli ha pronunciato un discorso nel quale, quanto meno, è presente – anche se sottesa e implicita – una sostanziale consapevolezza dei problemi reali, che travagliano la Democrazia cristiana, e del punto cui oggi è effettivamente pervenuto il partito cattolico. In realtà Granelli (al pari del resto, pensiamo noi, dei suoi amici appartenenti a quella corrente del partito democristiano, denominata “sinistra di base” , la quale meno ha risentito sia dei limiti integralistici dei fanfaniani sia delle “ansie sociali” dei sindacalisti) è abbastanza consapevole che oggi sono sul tappeto tre decisive questioni, cui la Democrazia cristiana, oramai, è chiamata a rispondere.
Il primo di questi tre problemi – davvero capitale, poiché, se non viene risolto, il partito cattolico non può nemmeno continuare a sussistere – sta nel garantire e nell’affermare effettualmente, sul terreno ideale e politico, l’autonomia del partito stesso, la quale si è presentata sempre, e si presenta oggi ancora, sotto un duplice aspetto: come indipendenza dalla Chiesa cattolica e dalla sua Gerarchia (la Curia romana e l’Episcopato), e come indipendenza da quelle forze che sono espressione diretta e omogenea del modo spontaneo di comportarsi e di evolversi del sistema economico e sociale in atto1.
La definizione e l’esposizione del secondo problema comportano un più lungo e più complesso discorso. Granelli appare consapevole che il modo sturziano di concepire e di attuare quella duplice indipendenza – e cioè il rapporto d’equilibrio tra le due suddette autonomie egualmente imprescindibili, sul quale la genialità politica del prete di Caltagirone seppe costruire e portare a storici successi il Partito popolare italiano – è un modo definitivamente esaurito, superato e del tutto irripetibile. Pertanto, politicamente importa assai poco, oggi, che il tipo di soluzione ideato da Luigi Sturzo abbia senza dubbio costituito il punto storicamente più alto e compiuto nella elaborazione della prassi di autonomia di un partito cattolico2.
Di fatto – ci sembra di poter aggiungere -, il connotato fondamentale (e la ragione del successo) dell’operazione sturziana fu di riuscire a comprendere, a padroneggiare e a egemonizzare le diverse spinte eversive di carattere antistatale e antiborghese, nonché la carica integralistica delle masse cattoliche “intransigenti”, attraverso un’assunzione radicalmente critica di quelle formule classiche della ideologia borghese, che avevano presieduto alla formazione dello Stato risorgimentale: un’assunzione che trasponeva e allargava tali formule, riformandole, e insomma democratizzandole, in chiave di sociologia cristiana. Così, facendosi reale avanguardia politica delle «plebi cristiane», e incorporandosene quindi le pur anacronistiche, tumultuose e confuse tensioni antiborghesi (ma appunto in un quadro ammodernato e reso omogeneo allo «spirito dei tempi»), il Partito popolare veniva a garantirsi un solido fondamento per realizzare la sua autonomia dal sistema; in ciò decisivamente favorito, peraltro, dalla circostanza di poter svolgere la sua tipica azione di graduale e metodica «correzione degli abusi del capitalismo» attraverso gli strumenti propri di un partito all’opposizione, quale precisamente era nato e non poteva non nascere. Per converso, e contemporaneamente, poiché Sturzo realizzava tutto ciò nel quadro del riconoscimento esplicito dello Stato unitario e sulla base dell’accettazione – sia pur profondamente revisionata in senso riformista e democratico – della tavola di valori della classe borghese, egli veniva anche a fondare l’autonomia del partito cattolico dalla Chiesa e dalla sua Gerarchia: veniva a conferire al Partito popolare, cioè, una specifica dimensione laica.
Ma questo complesso sistema, costruito da Luigi Sturzo, non era ripristinabile o ricomponibile dopo la seconda guerra mondiale. All’indomani del conflitto, il partito cattolico italiano si trovava infatti a essere, storicamente, uno dei due decisivi e necessari sostegni – assieme al partito comunista – del nuovo organismo statuale postfascistico, ed era quindi divenuto una forza al potere, con primarie responsabilità nella gestione della cosa pubblica, del sistema sociale e dello Stato. In altri termini era ormai costretto a essere, ed era obbligato a rimanere, partito di governo venendo a perdere così tutti i caratteri di partito di opposizione, che avevano appunto contrassegnato quel popolarismo sturziano, di cui Alcide De Gasperi era tuttavia l’erede e il continuatore.
In questa sua nuova collocazione, in questo suo nuovo ruolo, il partito cattolico è stato allora portato, di necessità, ad attenuare la propria critica revisionistica e riformistica al sistema, la propria azione spregiudicata di «correzione degli abusi del capitalismo» . Ma proprio in conseguenza di tutto ciò, venivano a risultare profondamente scossi i suoi legami e compromessa la sua egemonia nei confronti di quelle «plebi cristiane» , delle quali non poteva comunque non continuare a essere la espressione politica organizzata; di maniera che, per ristabilire quei legami e per riaffermare quell’egemonia, al partito che era stato di Sturzo non rimaneva invero altra strada, se non quella di accentuare e di esaltare il proprio momento cattolico. Di fatto, diveniva questo l’unico espediente per mistificare come intatta, di fronte alla base cattolica, alle masse «intransigenti», quella vocazione di radicale riformismo, che era certo inerente alla stessa forma politica del partito, ma che ormai poteva continuare a essere avvertita come ancora impregiudicata e genuina, dall’insieme dell’elettorato di estrazione popolare e integralistica, solo attraverso la riesumazione del nome (già murriano, e non a caso) di Democrazia cristiana.
In tal modo, De Gasperi veniva a restituire al suo partito in una qualche misura, sia pure cioè veramente al margine, la necessaria autonomia ideale rispetto al sistema. Ma per potergli garantire anche l’altra e non meno indispensabile autonomia, quella dalla Chiesa cattolica, egli aveva l’assoluto bisogno di creare per la Democrazia cristiana una copertura laica: non tale, però, da minacciare la primaria posizione di potere e il ruolo egemonico del partito cattolico nella gestione ben calibrata del sistema e dello Stato. La questione primaria, dunque, veniva a essere quella di una copertura laica; non certo rappresentata però dal partito proletario (che sarebbe stato evidentemente troppo pericoloso per De Gasperi), ma da altre forze politiche, più agevolmente governabili: quelle appunto che, sotto la pretestuosa parola d’ordine della «difesa della libertà contro il totalitarismo comunista», De Gasperi riuscì a raccogliere attorno alla Democrazia cristiana, in accorto dosaggio, e cioè il partito liberale e soprattutto quello socialdemocratico. Questi partiti infatti, mentre non destavano preoccupazioni sul piano della concorrenza per l’egemonia, potevano invece costituire, in quanto forze laiche, i partners ideali della Democrazia cristiana, dato che la mettevano al riparo da troppo pesanti pressioni delle Gerarchie ecclesiastiche (e del1’Azione Cattolica), e al tempo stesso le consentivano di essere, come voleva De Gasperi, un «partito di centro che guarda a sinistra».
Ecco – molto sommariamente – su quali terreni e con quali mezzi il nuovo leader del partito cattolico riuscì a risolvere il problema della duplice autonomia dalla Chiesa e dal sistema; ecco in qual modo De Gasperi è pervenuto a riannodare i legami e a ristabilire la direzione politica del suo partito nei confronti delle «plebi cristiane», assicurandosi al tempo stesso, attraverso la formula centrista, quella funzione, a un tempo mediatrice ed egemonica, che ha caratterizzato il periodo della sua gestione del partito e dello Stato.
Siamo giunti così a poter affrontare l’ultimo di quei tre problemi di cui sopra si è detto. Senza dubbio, Granelli è consapevole, in definitiva, che anche la soluzione degasperiana è entrata in una crisi irreversibile e senza sbocco. Infatti (vorremmo allora osservare da parte nostra a questo riguardo), sotto una crescente pressione democratica – che avanzava in generale nel paese, che veniva resa inarrestabile da un partito comunista all’opposizione, e che era anche favorita dall’opera di «correzione degli abusi del capitalismo», svolta, sia pure in modo cauto e troppo spesso esitante, dagli stessi governi centristi – il nostro sistema economico-sociale ha potuto a mano a mano svilupparsi e divenire più «maturo» .
In altre parole, lasciatasi alle spalle le forme iniziali e più prevaricanti del privilegio borghese, la società italiana è capitalisticamente progredita, si è ammodernata e industrializzata, fino a imboccare, anche se in modi squilibrati e distorti (ma con tempi e ritmi abbastanza rapidi), la strada di un processo di tipo opulentistico. Ora, in primo luogo, un simile sviluppo economico e sociale ha fatto precisamente saltare, in breve volger di anni, quell’equilibrio centrista, che si è visto esser così conveniente alla Democrazia cristiana; ma in secondo luogo, e proprio per tutto questo, il «modello» degasperiano ha dovuto conoscere la sua consunzione definitiva, malgrado fosse certamente il più idoneo per un partito cattolico costretto a passare dall’opposizione al governo.
In realtà, l’oggettivo procedere del sistema capitalistico italiano e dell’intiero paese verso le forme dell’opulentismo ha messo nella massima evidenza che il sistema stesso, da solo, può via via compiere una correzione automatica delle sue più arcaiche e stridenti «ingiustizie sociali»; e invece, proprio sul fatto che esse fossero irriducibili in modo spontaneo, la Democrazia cristiana, sia all’opposizione che al governo, aveva fondato e fondava quella prassi di graduale e riformistica «correzione degli abusi del capitalismo» , che è intrinseca – come si è visto – alla sua stessa forma politica, e che le è indispensabile per caratterizzarsi come espressione del mondo cattolico. La società opulenta – è ormai facile, ci sembra, il riconoscerlo – costituisce insomma, di per sé, la spontanea e realizzata critica pratica di questo classico compito (sturziano e degasperiano) del partito cattolico in quanto tale: il processo opulentistico, cioè, determina oggettivamente lo svuotamento di ogni rilevanza politica e ideale di quell’opera di progrediente correzione degli abusi del capitalismo, in chiave di sociologia cristiana, sulla quale poggiava l’autonomia dal sistema tanto del Partito popolare di Sturzo, che agiva all’opposizione, quanto della Democrazia cristiana di De Gasperi, che era stata invece storicamente obbligata a divenire partito di governo.
La conseguenza ultima, presente ormai sotto gli occhi di tutti, è che la espansione generalizzata della spinta democratica e lo sviluppo democraticistico del processo di strutturazione della società opulenta hanno non soltanto ulteriormente affievolito, ma hanno quasi spento del tutto, nel partito cattolico, la residua carica dell’originario radicalismo sturziano e quella soggettiva volontà revisionistica e riformatrice, verso il sistema capitalistico, che era ancora avvertibile nella linea degasperiana. Così, oggi si assiste allo squallido spettacolo di una Democrazia cristiana che, giorno per giorno, si decompone e si snatura in quanto partito cattolico; che viene cioè a coincidere, quasi inavvertitamente, con quelle forze e con quelle formazioni politiche che sono immediatamente omogenee all’andamento evolutivo del sistema e che ne accompagnano e ne garantiscono il trend spontaneo. Oggi insomma non si può non constatare che è divenuto impossibile individuare una distinzione reale, una differenza qualitativa, tra gli ideali e la prassi politica della Democrazia cristiana e quelli della socialdemocrazia.
Ma proprio per questa sua sempre più effettiva, visibile perdita di autonomia dal sistema capitalistico, il partito cattolico, oggi, viene anche a perdere, progressivamente e irreversibilmente, ogni sua autonomia dalla Chiesa. Quanto più infatti la Democrazia cristiana si identifica, nel concreto, con le forze che sono espressione diretta delle esigenze spontanee del sistema, tanto più – nel comprensibile tentativo di ritrovare una sua qualche specificità di partito – è portata, come di rimbalzo, a mettere in risalto il formale involucro cattolico della sua odierna sostanza socialdemocratica. Essa si sente in dovere, cioé, di accentuare le proprie «responsabilità di portatrice e testimone dei valori cristiani» nel campo politico, ed è indotta a insistere di continuo, con enfasi retorica, sui «supremi motivi ispiratori» della sua empirica condotta quotidiana. Ne risulta ovviamente che il partito cattolico, mentre perde fatalmente la forma medesima della sua indipendenza dalla Chiesa, trascina poi e coinvolge quest’ultima nella propria compromissione, sempre più pesante, con il sistema.
Consapevole, in ultima analisi, di questo aggrovigliato intreccio di problemi, Granelli, nel suo discorso al Convegno di Lucca, compie naturalmente ogni sforzo per rinvenire un terreno sul quale rifondare e garantire, nella presente fase storica, l’autonomia della Democrazia cristiana dal sistema capitalistico a dalla Chiesa. A più riprese, infatti, egli sottolinea la necessità urgente, imprescindibile, che il suo partito sappia distinguersi radicalmente dallo «strumentalismo» ; che riesca a non lasciarsi irretire o assorbire «disinvoltamente» dal pragmatismo materialistico della socialdemocrazia e dalle sue prospettive di effimero progresso; che eviti di acconciarsi opportunisticamente al mortificante ruolo di mero garante del gioco dei meccanismi capitalistici, e che esca insomma da ogni empirica identificazione della politica con la mera prassi amministrativa, con la piatta e subalterna routine del riformismo settoriale e corporativo. Non gli sfugge, anzi, che a simili scadimenti si accompagna necessariamente il progressivo distacco del partito e dei suoi uomini da ogni preciso ideale e da ogni impegno concreto al perseguimento di effettivi valori etici.
Cosi pure, Granelli tenta di recuperare la Democrazia cristiana e una posizione di corretta autonomia nei confronti della Chiesa: non a caso, egli mette in guardia – e giustamente – dalla tentazione di servirsi in modo strumentale di determinate affermazioni del Concilio Vaticano II, al fine di dedurne semplicisticamente, da parte del partito, coperture e avalli per una politica a contenuto «giustizialista». Non vi è dunque né vi può essere ritorno alcuno al «trionfalismo» della cosiddetta «era costantiniana»: sia pure sotto segno progressista e non più moderato.
Da questa denuncia, da questo riconoscimento della necessità di ritrovare una collocazione di autonomia per il partito cattolico, non può non muovere – e muove di fatto – il tentativo di ridefinirne in termini positivi la specifica dimensione propriamente politica. Ma proprio qui il discorso di Granelli, invece di divenire piú robusto e puntuale, scade di colpo e si fa del tutto inadeguato rispetto a quegli obiettivi e a quelle esigenze di cui pur si era dimostrato avvertito e preoccupato.
Innanzitutto Granelli riprende – anche se in modo inconsapevole – alcuni temi e aspetti tipici dell’impostazione sturziana. Ma egli torna quindi, in sostanza, a dare credito a ciò di cui aveva prima visto a criticato i limiti storici a ideali.
Certo, Granelli sostiene, con sincerità e con vigore, la necessità che la Democrazia cristiana arrivi a essere un partito laico e non più corrivo a indulgenze confessionalistiche; un partito aperto e non più corporativamente chiuso; un partito disponibile al dialogo e al confronto e non più, in una qualsiasi forma e sotto qualsiasi segno, integralista; un partito, infine, riformatore e trasformatore della società e dello Stato e non più conservatore e moderato. La conclusione infatti è che il partito democratico cristiano deve essere a base programmatica e non più ideologica (1’ideologia essendo intesa però, come Granelli precisa, secondo la superficiale accezione di schema prefabbricato, astratto, «ottocentesco»), e deve essere quindi una formazione politica capace di rifarsi a un sistema di valori e di affermarli nell’ordine temporale, in netto contrasto, per ciò stesso, con ogni «pragmatismo più o meno storicizzato».
Certo, dunque, si tratta – ci sembra di poterlo dedurre – di un partito che, in qualche modo, giudica il processo storico in atto e il sistema sociale dato, e non si accontenta più di accompagnarli soltanto nel loro spontaneo andamento evolutivo. Lungi dal limitarsi a scegliere empiricamente delle convenienze, delle opportunità, delle semplici prassi, esso vuole insomma restituire all’azione politica tutta la necessaria capacità d’iniziativa e la forza di aprire delle prospettive, di definire degli orientamenti ideali, di indicare alla comunità nazionale quelle finalità che scaturiscono da veri e propri giudizi di valore.
Solo che, pur ammessa e sottolineata la positività di intenzioni siffatte, Granelli riesce forse a dire e a proporre qualcosa di più, e di meglio, di quanto era già stato sostenuto da Sturzo, e che è dunque, oramai, storicamente superato, nonché, per ciò stesso, senza dubbio insufficiente in linea di principio? In verità, pare proprio di no; e se ne può avere la prova definitiva considerando ed esaminando il modo in cui Granelli affronta e risolve il problema dell’unità politica dei cattolici, questa vexata quaestio, divenuta il vero «pomo della discordia» all’interno del mondo cattolico italiano e del suo partito. Ora, di tale problema (che misura la gravità e definisce la peculiarità della crisi in cui versa la Democrazia cristiana) Granelli fornisce appunto una soluzione sturziana, per il fatto stesso che, a suo giudizio, il superamento dell’antica (e attuale) querelle può senz’altro venir conseguito sulla base di una unità concepita come quella di tutti i cattolici che possano e vogliano riconoscersi e ritrovarsi in un chiaro programma politico.
Il programma, dunque, viene prima dell’unità. È esso, anzi, che la consente, la genera e la garantisce come unità non confessionale ma politica; e Granelli infatti è convinto – non senza ragioni – che soltanto agendo in tal modo è possibile demistificare e liquidare il falso obiettivo dell’unità metapolitica di tutti i cattolici, in quanto credenti, nell’ambito di un solo partito. Ma allora – giova ribadirlo – in che cosa si distingue e che cosa innova una simile impostazione rispetto alla soluzione sturziana, a quella unità dei «liberi e forti», la quale appunto poteva e doveva divenire l’unità di tutti quei cattolici che sapessero e volessero essere, precisamente, e forti e liberi?
Così in definitiva, Granelli non finisce forse per riproporre, esattamente come Sturzo, una sorta di vaglio politico dei cattolici italiani, che – ovviamente in modo del tutto inaccettabile per le Gerarchie ecclesiastiche – venga laicamente discriminando fra di essi i «migliori» e i «più veri», e insomma l’élite della comunità cristiana del nostro paese? Di fatto, in questo accompagnarsi e intrecciarsi di una visione intimamente aristocratica dell’unità dei cattolici con il tentativo di conferire al partito un’impronta chiaramente laica, riaffiora senza dubbio quell’«animus» del popolarismo sturziano, che era profondamente inviso a Papa Pio XI e al cardinal Gasparri: lo spirito modernistico, appunto, e insomma la recondita tendenza a operare uno scavalcamento surrettizio della Gerarchia, più che a stabilire con essa un rapporto di tranquilla e corretta indipendenza.
Vi è pertanto una prima spiegazione dell’inadeguatezza (di cui sopra si è detto) del discorso che Granelli si sforza di condurre in merito alla questione del ritrovamento e del recupero di una effettiva autonomia della Democrazia cristiana dalla Chiesa e dal sistema capitalistico. In effetti, il tentativo di recupero si risolve non in uno sforzo di rinnovamento ma di astratto e impossibile ripristino, dal momento che altro non è se non un’inconscia ripresa della tematica sturziana, ossia di un’impostazione che ha storicamente palesato il suo limite intrinseco.
E tuttavia, proprio perché Sturzo ha comunque costituito a costituisce il punto piú alto nell’elaborazione di una strategia il più possibile autonoma (e di una teoria generale) del partito cattolico, Granelli, oggettivamente collocandosi sul terreno sturziano, ha realmente intravisto la strada giusta. Egli compie invero un massimo sforzo per far uscire la Democrazia cristiana dalla sua tradizionale equivocità e ambivalenza, e per determinare chiaramente i requisiti e i titoli distintivi della sua autonomia, sì da consentirle di non incappare nell’integralismo per evitar di cadere nello «strumentalismo» , e viceversa.
Anzi, a vantaggio e a merito dei «politici» rispetto ai «filosofi» del Convegno di Lucca, va detto che un «uomo di partito» , come Granelli, oggettivamente rivela una percezione della drammatica situazione cui è giunta la Democrazia cristiana, che invece un «uomo di cultura», come Del Noce, non dimostra certo di avere. La complessiva e conclusiva consapevolezza, che si rispecchia nell’intervento di Granelli, è infatti che oggi il partito cattolico non si trova dinanzi a una crisi simile ad altre, pur serie, che esso ha dovuto affrontare nell’ultimo ventennio (quelle, per esempio, del 1947 e del 1953, oppure quella del 1961), ma è giunto invece alla sua crisi definitiva, alla crisi cioè della sua stessa forma politica.
In realtà, la Democrazia cristiana attraversa attualmente una fase della sua storia di partito che non si caratterizza semplicemente per 1’esistenza di un nuovo avversario e per la conseguente necessità di adeguare opportunamente le diverse tattiche e gli strumenti della lotta politica; al contrario – e stanno appunto qui gli accenti di effettiva novità dell’intervento di Granelli -, il partito cattolico, come tale, è ormai giunto alle soglie della sua dissoluzione, in quanto – lo si è già detto più volte – non ha più la capacità di distinguersi, sul piano ideale come sul piano pratico, né dalle forze omogenee al sistema capitalistico, né dalla Chiesa cattolica. Ove dunque non sappia fuoruscire positivamente da questa che è la sua crisi decisiva, la Democrazia cristiana rischia sul serio di finire come autonoma formazione politica.
Ma anche riconosciuto e concesso tutto ciò, rimane pur sempre il quesito politico centrale: come giungere a questo partito programmatico, suggerito da Granelli? Come avvalersi, cioè, della stessa intuizione sturziana, naturalmente per riviverla in modo nuovo e superarne così l’ormai incompatibile limite? Infine, come preparare e avvicinare la prospettiva di un processo di fuoruscita dalla forma del partito cattolico verso quella di un partito in quanto tale, accettabile perciò dai cattolici, ma anche finalmente affrancato da quella inevitabile ambiguità, che è insita in ogni formazione politica “cristiana”?
Qui si tocca precisamente il punto in cui le già dimostrate insufficienze della “cultura cattolica” – intesa e ribadita invece come sostanzialmente adeguata da Augusto Del Noce – vengono a influenzare, in modo pesantemente negativo, quel tanto di consapevolezza cui i migliori politici democristiani sono pur giunti in merito alla questione della crisi di fondo del loro partito.
Senza dubbio, per Granelli programma politico non vuol dire, né deve significare, mera razionalizzazione del sistema dato ed empirica amministrazione della realtà politica e sociale, ma rielaborazione e costruzione, invece, di una nuova tavola di valori. Come riuscire però in tale impresa, necessaria e improrogabile, se la Democrazia cristiana vuol dare ancora un senso alla sua esistenza come partito cattolico? In effetti, data l’affermazione acritica della sufficienza della posizione “platonico-cristiana”, e data quindi la relatività e la subalternità dell’ordine di natura, della dimensione naturale, quei valori, con cui Granelli aspira a innervare il programma, non possono – come tali – essere dedotti da un’autonoma teoria politica, ma, evidentemente, solo dalla dimensione dell’assoluto, a dunque (poiché oltretutto la figura teoretica di fondo è e rimane appunto il “pensiero cristiano”) dal confessionalismo religioso. È chiaro allora però che, proprio nel momento in cui cerca di passare dall’affermazione dell’esigenza di un partito a base programmatica alla definizione del programma stesso, e quando tenta di passare dalla proclamazione della necessità politica di fondare un sistema di nuovi valori alla determinazione di essi, Granelli finisce con l’impacciarsi in un discorso quanto mai stentato a confuso, in cui si realizza a si esprime quella medesima, lamentevole «confusione tra sacro e profano, tra religione e politica», dalla quale aveva pur messo in guardia.
Così entro un simile quadro, alcune stracche genericità correnti (la «libertà e giustizia sociale» , l’«ideale democratico», la «partecipazione», la «diffusione pluralistica e generalizzata del potere» , le «riforme» più o meno di «struttura», a così via), in cui, a veder bene, si riflette confusamente un modo «religioso» di intendere la vita politica, si intrecciano, con commistione singolare, a espliciti richiami e ad aperte esortazioni per un’assunzione di compiti, che appartengono invece, propriamente, all’attività confessionale dei cattolici in quanto credenti, in quanto membri della Chiesa. Del resto, la prova culminante di una tale confusione tra dimensioni diverse sta proprio nel fatto che, sulla decisiva questione dell’unità dei cattolici, Granelli finisce addirittura per scivolare, magari inavvertitamente, nella stessa posizione di Del Noce, il quale però la esprime almeno con rigorosa coerenza. Per Del Noce, infatti, la democrazia è di per sé negativa se non è cristiana; e la unità dei cattolici, quindi, diviene precisamente quell’a priori che fonda e garantisce la verità e la positività della democrazia medesima: il che, in ultima analisi, non è se non l’omogeneo prolungamento e la necessaria conseguenza della convinzione di partenza del pensiero «platonico-cristiano», per cui l’uomo appunto è pienamente tale soltanto se è religiosamente e misticamente assorbito nell’assoluto della grazia.
Non vogliamo peraltro misconoscere l’interna e sottesa verità che esiste anche in questa posizione nettamente integralistica, e che può riassumersi nella giusta affermazione che la democrazia non è la politica, che questa cioè non si risolve in quella, e che insomma la dimensione democratica è soltanto il terreno e il modo attraverso cui immediatamente e spontaneamente si esprime e si organizza la vita di una libera società civile.
La dialettica e il momento della democrazia, quindi, sono soltanto un aspetto della realtà politica: come tali, essi non possono di per sé, anche se sviluppati ed estesi al massimo, risolvere i problemi politici: quelli di ogni tempo, ma quindi anche (e vorremmo dire soprattutto) quelli dell’età dell’opulenza. Per risolverli, è necessario che si determini e si esplichi l’iniziativa dell’innovazione politica: è indispensabile cioè che si affermi una forza dirigente, capace di interpretare in modo mediato e riflesso (e dunque sulla base di una continua scelta critica) le spinte e le esigenze complessive che storicamente affiorano nel quadro della società civile. C’è bisogno insomma del partito, il quale costituisce appunto il momento aristocratico e autoritativo, il momento dell’egemonia, rispetto a quello democratico. Quest’ultimo allora – è ormai chiaro – acquista tutta la sua rilevanza politica solo quando è visto e vissuto come distinto dal primo, anche se in relazione con esso.
Vogliamo dire, in altre parole, che l’egemonia e l’autorità possono certo trasformarsi in secco dominio, in esclusivismo totalitario, ove manchi la democrazia, giacché è proprio questa che obbliga il partito – la politica – alla ricerca della verifica e perciò del consenso. Ma è comunque solo nell’ambito di un preciso rapporto di distinzione e di compresenza, che la democrazia, in quanto può fornire e fornisce un’irrinunciabile e fondamentale garanzia di libertà, diviene necessaria dimensione della politica. L’una pertanto non è 1’altra e, contemporaneamente, l’una ha bisogno dell’altra.
Anche però ammessa e chiarita l’interna verità di quella singolare operazione, intorno al ruolo dell’unità dei cattolici, che, come abbiamo visto, Del Noce ha impostato sul piano teorico e Granelli ha sostanzialmente subìto (cercando poi di proseguirla sul terreno politico), sta pur sempre di fatto che si perviene così a una inammissibile contaminazione fra religione e politica. Granelli invero, pur sinceramente impegnandosi a individuare il momento specificamente politico e a ritrovare, per così esprimerci, la dimensione partito, torna a proporre ancora una volta, e proprio quale fondamento di questa peculiare dimensione, l’unità dei cattolici. Né importa molto, allora, che in un primo tempo si ipotizzi che questi vadano innanzitutto raccolti attorno a un «programma democratico»; sta di fatto che una simile ipotesi è meramente illusoria e che pertanto Granelli finisce per identificare il partito con la «cristianità», ricadendo così, in contrasto con le sue intenzioni di politico (ma in oggettiva concordanza con la linea teorica sostenuta da Del Noce), nell’antico errore di far assurgere la dimensione religiosa a valore politico qualificante. Egli smarrisce dunque, in itinere, ciò che andava cercando e voleva trovare, ossia una nuova e più piena laicità del suo partito.
Ci si poteva tuttavia attendere dal Convegno di Lucca un diverso risultato politico? Evidentemente no, a nostro parere; a proprio per le deficienze di fondo, più volte qui sottolineate, della posizione culturale che ne ha ispirato e informato i lavori.
A ben vedere, all’origine del Convegno di Lucca sta un atto di presunzione: il singolare appello, precisamente, che cinque «intellettuali cattolici» hanno ritenuto di poter rivolgere, nel gennaio di quest’anno, alla Democrazia cristiana e, più in generale, al mondo della cristianità italiana, nella convinzione che, di fronte all’aperta, indiscutibile insufficienza della «politica cattolica», la «cultura cattolica» avesse qualcosa di risolutivo da dire, e potesse e dovesse dimostrare, quindi, la sua vitalità, il suo vigore, la sua capacità di rinnovamento critico.
In effetti, gli intellettuali si compiacciono spesso di ritenere che tutta la responsabilità della crisi che oggi travaglia la Democrazia cristiana (nonché, nel suo complesso, il movimento sociale e politico dei cattolici) vada senz’altro imputata all’«inettitudine» e ai «limiti», se non proprio al «tradimento», del personale politico. Questo avrebbe appunto deformato e corrotto la propria tradizione ideale, e di conseguenza una revitalizzazione del partito democratico cristiano, in Italia, potrebbe venir garantita solo dal ribadimento (o dal «rilancio», come oggi si dice) del «primato della cultura», e naturalmente di quella rappresentata dagli «intellettuali cattolici». Come è chiaro, una simile presunzione si spinge dunque sino a rivendicar per questi ultimi un ruolo di supplenza dei politici.
A Lucca è emerso invece, con assoluta evidenza, che mortale, al contrario, è proprio l’acritica sicurezza sulla pretesa sufficienza del «pensiero cristiano». Gli uomini politici, infatti, sono stati ridotti a una pratica afasia – oppure, quando hanno parlato, sono scaduti in un balbettio nebuloso e contraddittorio – appunto perché erano (e sono) condizionati da quel tipo di cultura, che, come si è visto, è senza dubbio alla radice dell’odierna crisi del partito cattolico in quanto tale.
In realtà i politici, per il loro quotidiano contatto con i vivi problemi del paese, avvertono pienamente l’esigenza di fondare e di promuovere valori politici nuovi, adeguati alla necessità dei tempi. Anzi – e abbiamo cercato di dimostrarlo pubblicando il discorso di Granelli – essi hanno persino tentato di cominciare un discorso in tal senso e di portarlo avanti. Costretti però a compiere la loro ricerca nel quadro delle tradizionali categorie del «pensiero cristiano» – di cui gli intellettuali cattolici, con astratta fiducia, si ostinano a riconfermare la piena validità -, non possono non lasciarla sospesa a mezz’aria; e quando poi si provano a continuarla, finiscono inevitabilmente per improvvisarsi, in qualche modo, filosofi, teologi, moralisti.
In ultima analisi, sono dunque i «politici», gli uomini di partito, che si vedono obbligati a supplire alla inadeguatezza culturale dei «filosofi», degli intellettuali. Ed è questa, ci sembra, la prova definitiva e innegabile, che la crisi del partito cattolico dipende, in linea primaria ed essenziale, dalla insufficienza ormai irrimediabile del «pensiero cristiano», della cultura cattolica in quanto tale.
Note al testo
1) Diremmo, anzi, che la consapevolezza della decisività di tale problema è quella che emerge più chiaramente da tutto l’intervento di Granelli: la lettura, nelle pagine che precedono, del testo del suo discorso, crediamo renderà abbastanza agevole convenire in questo giudizio.
2) Granelli ha modo di far avvertire questa sue persuasione attraverso una certa insofferenza per la reiterata, atemporale esaltazione della esemplarità della soluzione sturziana, cui il De Rosa continua a indulgere, e nella quale ha fatto consistere, in definitive, il nocciolo “politico” delle sue relazione al Convegno di Lucca.
“Ragioni e portata della crisi del partito cattolico”
La Rivista Trimestrale diretta da Franco Rodano e Claudio Napoleoni
n.21, primavera 1967