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By noviia agency5 Marzo 2024In Luigi

UN’ORA PRIMA DEL VOTO CREDEVAMO D’AVER PERSO

Luigi Granelli, corrente di  «Base», lineare esponente della migliore sinistra democristiana, chiarisce alcuni passaggi delicati del XIII congresso democristiano e le prospettive dopo l’elezione di Zaccagnini.

Come si spiega che la sconfitta di Zaccagnini sembrava sicura e poi la situazione si è rovesciata?

«Tutti erano convinti che avrebbe vinto Forlani. Questo dipende dalla tradizionale concezione di quei democristiani che dovendo votare a scrutinio segreto e avendo quasi il 50 per cento, ritenevano possibile, promettendo qua e là, raggiungere la maggioranza.  Ma non avevano capito che questo era un congresso drammatizzato su scelte politiche e morali ».

Eppure voi dello schieramento Zaccagnini non volevate lo scrutinio segreto, ma quello palese. Avevate paura?

«Avevamo capito qual era la segreta speranza degli altri quando chiedevano lo scrutinio segreto.  Inoltre nella nostra difesa dello scrutinio palese c’era del romanticismo moralistico: se perdiamo, perdiamo in piedi, chi pugnala Zaccagnini, lo faccia alla luce. In realtà, il successo fondamentale noi l’avevamo ottenuto alcuni mesi fa quando, in contrasto con altri, volemmo appunto un congresso cosi drammatizzato, che evitasse le solite mediazioni, su decisioni politiche chiare ».

Adesso che Zaccagnini è stato eletto dal congresso, quali sono i suoi nuovi poteri?

«E’ un dramma per chi ha voluto il sistema presidenziale. Noi avevamo manifestato precise riserve: se chi ha questi maggiori poteri è un democratico, non ne abusa; se invece è un autoritario, allora si va ad una degenerazione.  Ad esempio, un segretario autoritario può dire: i sottosegretari li scelgo io. Credo che Zaccagnini si comporterà, come si diceva nell’antica Grecia, da dittatore democratico e governerà con tolleranza e rispetto per tutte le altre posizioni ».

Egualmente però nel consigIio nazionale, integrato dalle altre rappresentanze del partito, il segretario può essere condizionato.  Non è cosi ?

« I nostri avversari hanno compiuto un grande errore.  Se si andava all’elezione del segretario, come noi proponevamo, sulla base della discussione e dell’intesa, il nostro 52 per cento del consiglio nazionale poteva essere bilanciato dai rappresentanti dei gruppi parlamentari, che in genere stanno indietro rispetto agli eletti dal congresso. Ma ora questa rappresentanza è fuori gioco, ininfluente rispetto al segretario.  Senza contare che pur con l’aggiunta dei parlamentari il cartello che ha sostenuto Forlani non raggiunge i due terzi previsti dallo statuto per dare la la sfiducia al segretario. Insomma hanno immaginato un potere per loro che adesso viene esercitato dagli altri.  E sono in lacrime ».

Che farà la minoranza sconfitta: resterà unita?

« Secondo me, no. C’è nella minoranza l’istinto della rivincita, ma c’è anche l’elemento della ragione e dell’intelligenza politica per cui per esempio Andreotti certamente non tarderà a prendete l’iniziativa del dialogo, per la ricerca di una intesa con la maggioranza».

Che cosa di nuovo potrà fare Zaccagnini nel partito?

«Portare a livello dirigente una classe nuova, che si rimbocchi le maniche e rifaccia il partito.  Di verticismo si muore».

Perché Moro ha dato a Zaccagnini solo un limitato appoggio politico?

« Non ho avuto quest’impressione.  Moro era preoccupato. E’ stato sempre riluttante alle spaccature. Temeva che Zaccagnini, seguendo le tendenze più radicali della sinistra, finisse ad una divisione improduttivo del partito. Ma il suo appoggio è stato pieno. Abbiamo discusso davanti a lui sullo scrutinio segreto o palese per l’elezione del segretario. Noi dicevamo: se Zaccagnini viene eletto dal congresso, restiamo senza capolista.  “Non è un’obiezione fondata”, ha detto Moro, “Se non c’è Zaccagnini, a capolista ci sono Io”. Quindi non si è tirato indietro, ha fatto la sua scelta nel momento in cui non si era affatto sicuri di vincere. Qualcuno gli ha detto: “Ma tu sei presidente del Consiglio, non esporti, non sai come va a finire”.  Moro ha risposto: “Per quel che vale essere presidente del Consiglio, la politica è più importante».

Sconfitta meritata

Ma intanto, nel giorno delle decisioni, né a destra né a sinistra nella grande arena democristiana si sono ascoltati i suoi prudenti consigli e si è andati invece allo scontro per vincere a tutti i costi.  Che poi alla fine abbiano perso quelli che più meritavano di perdere e più hanno tramato per strappare alla controparte i margini esigui di vantaggio è senz’altro confortante e positivo ma lascia  Zaccagnini in gravi difficoltà e conferma l’isolamento di Moro nel suo partito. Il suo giudizio intellettuale resta il più acuto, ma questo leader ormai governa la DC quasi come governa il paese: con la coscienza di una transizione ineluttabile ma con ridotta possibilità di indirizzo e controllo.

Forlani, molto bravo alla tribuna (« il nuovo capo è lui », sostenevano interessatamente tutti i DC, da sempre contrari a Moro e Zaccagnini), esce piuttosto male dalle incertezze e contraddizioni delle ultime ore. Pochi sanno come siano andate davvero le cose tra i “big”, ma il “nuovo capo” o è stato troppo trascinato da altri per essere veramente un capo, o è un po’ troppo calcolatore per essere nuovo.

Zaccagnini resta, ed è bene perché non va mai sottovalutata. l’importanza delle qualità morali. I1 compito che lo attende è però difficilissimo e, francamente, le scelte strategiche indicate dalla sua relazione e dallo stesso discorso dì Moro sembrano insufficienti: la moderazione morotea non è bastata a convincere i rissosi anti-Zac del congresso.

Basteranno ora le caute indicazioni evolutive ad avviare rapporti nuovi con tutta la sinistra italiana?  Perché questo è il problema che il congresso non ha voluto discutere, confermando che la DC è un grande partito in grande ritardo. Zaccagnini, Moro, tutti i DC di buona volontà  non abbiano troppo paura, si affrettino ed alzino il tiro: perché o si riduce il ritardo o si riducono la funzione e la forza del loro partito.

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