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By noviia agency5 Marzo 2024In Luigi

Luigi Granelli: Introduzione a “LA COSTRUZIONE POLITICA DELL’EUROPA di C. Zorgbibe (Il Saggiatore, Milano, 1979)

«Squallidi personaggi discutono di Cambi e di Merci, decidono il destino delle Patate avendole conosciute come chips, pensano Petrolio e Plutonio come suprema massima morale. Sono avvocati e commercianti, in fondo non cattivi, ma imbarazzati, in un ruolo che vuole vista lunga, dalla miopia propria di quella che Martinetti chiamava la Democrazia Manifatturiera». Con queste drastiche espressioni un uomo di cultura come Guido Ceronetti esprime il pessimismo proprio e di molti altri, non privo di paludato qualunquismo, sul futuro politico dell’Europa unita.

Si tratta di uno stato d’animo da non sottovalutare. L’intreccio di utopie e di sconfitte, di sogni di potenza e di abili mediazioni diplomatiche, di conquiste coloniali e di declino economico, di rivoluzioni e di restaurazioni, che ha segnato per secoli la storia di una Europa che non è mai riuscita a diventare concretamente una realtà politica e istituzionale compiuta, ha avuto come sbocco, tra gli anni 1939 e 1943, l’annientamento nella barbarie del nazismo e del fascismo. Gli stessi progetti che immaginavano di unificare sul piano temporale, in chiave religiosa o meglio confessionale, l’Europa della fede contro quella dei potentati civili e delle nazioni si  sono scontrati, duramente, con inevitabili sconfitte politiche e con i traumi della Riforma e della Controriforma. Su di un altro versante la previsione della riscossa operaia, teorizzata da Marx e da Engels come alternativa inevitabile alla crisi del capitalismo, al dominio di classe della borghesia, trova un suo banco di prova nella lontana e precapitalistica Russia mentre tramontano, in Europa, le stesse conquiste di un liberalismo illuminato ma privo di sostegno popolare e la miopia nazionalista approfondisce divisioni ed innalza steccati.

Ma è giustificata, dopo lo sviluppo della cultura critica dei tempi più recenti, una lettura scettica e fatalistica di una storia cosi ricca di ammonimenti?

Sono interamente dispersi, nell’Europa contemporanea, i valori (non lo spirito di potenza e di superiorità) che si sono formati, in contesti storici profondamente diversi, in un mondo sempre più caratterizzato da una faticosa conquista della diversità e dal pluralismo?

Se a questi dubbi si pensa di contrapporre, con la miopia denunciata dal Ceronetti, la realtà di un mercato ampio e integrato, aperto alla concorrenza nei momenti di espansione e incline al protezionismo quando sopravvengono le crisi, o le illusioni di un alienante consumismo o di un progresso tecnologico che emargina e spinge alla violenza, allora la battaglia è perduta in partenza.

Né serve, per evitare la sconfitta, la disperata ricerca negli archivi e nelle biblioteche dell’idea europea da Rousseau a Gentz, da Cattaneo a Labriola, da Croce a Chabod, dai pensatori dell’ultimo dopoguerra a quelli contemporanei, per riproporla come un nobile retaggio a popoli che, nel loro travagliato processo di emancipazione, rifiutano la guida illuminata delle élites intellettuali.

Eppure esiste in Europa, come altrove, una potenzialità profonda di uomini, di classi sociali, di generazioni, che tendono a liberarsi dai condizionamenti di un nazionalismo privo di fascino, di una umiliante alienazione, di un intollerabile sfruttamento. Così come esistono, a fronte delle instabili strutture di un potere tradizionale, energie non trascurabili impegnate in un vivace confronto di culture e di esperienze storiche, in un autentico risveglio religioso nel segno dell’ecumenismo, in uno sforzo di costruzione politica ed istituzionale, che sono alla ricerca di un libero e più giusto assetto delle società, dei sistemi economici, degli Stati.

I fantasmi dell’autoritarismo e della disgregazione si aggirano, ancora una volta, in Europa ma l’unico modo per sconfiggerli prima che sia troppo tardi, è quello di individuare, senza eccedere  nell’utopia, uno sboccò politico e istituzionale per l’insieme delle risorse morali, culturali, sociali, largamente presenti nei popoli del continente e negli esponenti più coraggiosi delle classi dirigenti.

È solo su questo terreno che si può rovesciare, con la forza della ragione, un pessimismo corrosivo ed impotente.
Il recupero di una concezione realistica e nettamente politica del futuro dell’Europa, per liberarla dalle illusioni della « democrazia manifatturiera », dalla vana efficienza dei tecnocrati burocratizzati, dalle intese di convenienza dei governi e delle diplomazie, può consentire – con i rischi di tutte le imprese storiche – quel ruolo capace di «una vista lunga» che anche gli  scettici sembrano auspicare.
Gli europeisti dell’immediato dopoguerra, da Monnet a De Gasperi, da Spaak a Schuman, da Adenauer a Einaudi, pensavano all’Europa politica più che a quella delle merci e della convenienza. La messa in comune delle risorse, con l’abolizione delle frontiere economiche, era un modo per scrollarsi di dosso la negativa eredità dell’autarchia, delle produzioni belliche, della polverizzazione dei mercati, ma il fine era quello di disinnescare, prima sul suolo europeo e poi nel resto del mondo, i pericoli di guerra e le ricorrenti occasioni di scontro e di lacerazione dei periodi storici precedenti.

Una Europa politicamente unita pur nella diversità dei singoli Stati, pacificata e quindi fattore di pace nel mondo, prospera e pertanto capace di una migliore qualità della vita, libera e pluralista per rapporto di culture e tradizioni di pensiero aperte al dialogo, moralmente vivificata da un diffuso risveglio religioso, democratica e progredita per la partecipazione di grandi masse popolari alla sua costruzione, rappresentava un traguardo complesso, difficile, ma non astruso e utopistico. Questa idea di Europa si ricollega, in qualche misura, a progetti incompiuti dei secoli scorsi, a sogni di minoranze profetiche, ma nasce su un terreno nuovo e alternativo rispetto al passato. L’unità frutto di una egemonia ideale esclusiva o di conquiste politico militari, da Carlo Magno a Napoleone, cosi come la pace precaria realizzata da abili diplomatici, tra una guerra e l’altra, sono del tutto estranee a chi si propone di costruire l’Europa per cancellare le cause che hanno portato alla aberrante tragedia dell’ultima guerra mondiale.

Trenta anni di pace, che hanno risparmiato eventi sanguinosi alle nuove generazioni, sono per gli europei un risultato più importante degli incrementi del «prodotto nazionale lordo» dei singoli paesi, già rovesciati da una crisi congiunturale e strutturale che chiede alla politica e non al mercato misure adeguate al suo superamento. Ma nemmeno tali incrementi sarebbero stati raggiunti in un clima di insicurezza e di perduranti nazionalismi. Il cammino, tuttavia, non è stato lineare. La costruzione politica dell’Europa fu una chiara scelta per i suoi artefici iniziali, dirigenti e statisti illuminati che forse hanno sottovalutato l’importanza di coinvolgere maggiormente nei loro progetto le classi popolari, le grandi forze sociali, culturali, politiche. Ma i condizionamenti interni ed esterni hanno reso difficile tale cammino.

La divisione del continente, sancita a Yalta dalle «grandi potenze» vincitrici ha ridotto la tradizionale dimensione storico-geografica dell’Europa.  La presa di coscienza della sua identità, della sua nuova funzione, è risultata un arroccamento difensivo, non privo di nostalgie per la perduta superiorità, più che per un salto di qualità capace di porre la conquista politica dell’unità al servizio di un nuovo e diverso ordine mondiale.

Il fallimento dei propositi di dato vita a una comunità europea di difesa, fattore indiscutibile di autonomia politica, ed il lungo periodo della «guerra fredda» hanno accentuato questa debolezza delle origini.  A quel tempo non pochi pensarono alla decapitazione delle speranze europee. Dal grave insuccesso di allora nacque l’illusione di un salvataggio per via economica dell’Europa.

Alcuni risultati non sono mancati. I trattati di Roma, del 1957,  hanno favorito la creazione di un ampio mercato comune e una espansione economica che sarebbe stata altrimenti impossibile. Fu, per anni, la stagione dei politici realisti (chi esortava a guardare più lontano era considerato un velleitario), dei produttori e dei commercianti, dei burocrati e dei tecnocrati, che hanno operato nel reciproco interesse e nella convinzione di una espansione all’infinito, sostenuta dal consumismo e dal recupero sul piano delle esportazioni del vecchio primato europeo, che poteva garantire la prosperità degli affari da crisi politiche o recessioni economiche.

Il risveglio è stato amaro. L’aumento del costo delle materie prime, la rottura delle parità monetarie di Bretton Woods, la distensione e la più forte aggressività economica e politica di altre aree del mondo, non solo delle classiche «grandi potenze», hanno ridotto le possibilità di una facile ripresa europea. Inflazione, disoccupazione, obsolescenza tecnologica, deficit energetico, cambiamento della domanda esterna, eccedenze nella produzione agricola, sciupio di risorse a causa di un rinato protezionismo, richiedono drastiche terapie, correzioni delle leggi di mercato, programmazione razionale dello sviluppo, ed il primato della politica torna in primo piano per risolvere i problemi del potere, del rafforzamento istituzionale, della partecipazione sociale, della fantasia creativa in tutti i campi. Si intrecciano, con le conseguenze destabilizzanti della crisi economica, l’insoddisfazione per un consumismo diseguale e alienante, il rifiuto delle logiche di puro sfruttamento, la coscienza dei diritti individuali, l’aspirazione ad una crescente promozione degli uomini e delle classi sociali meno favorite, l’insicurezza e la paura per un declino senza ritorno, per una umiliante subordinazione a disegni di potenza altrui, per guerre che potrebbero sfociare nello sterminio atomico.

Ritorna, sull’onda di questi profondi sconvolgimenti, l’idea politica dell’Europa che, per salvarsi da un fallimento definitivo, deve far leva sugli uomini e sulla loro volontà di incontrarsi, in un pluralismo di idee e di propositi, per costruire istituzioni solide, democratiche, superiori ad una logica meramente nazionalistica, perché oltretutto è solo in questo ambito di operante solidarietà che possono trovare soluzione i problemi della ripresa economica, del funzionamento del mercato, dell’uso delle risorse per realizzare, sul piano continentale e su quello internazionale, un assetto giusto ed equilibrato a tutela della convivenza e della pace.

Il rovesciamento concettuale, rispetto alla «democrazia manifatturiera», non è di poco conto. La decisione di eleggere a suffragio universale un Parlamento Europeo, in ritardo di vent’anni, è solo uno spiraglio e la svolta politica richiesta, che come tutte le svolte reali non può essere indolore, muove i primi passi in un quadro di rilevanti difficoltà.

Ma il ritorno all’idea politica di costruzione dell’Europa è salutare. Il nuovo rischio è quello di abbandonarsi, dopo decenni di miti sulla prosperità economica e su una qualità della vita intesa come puro aumento dei consumi, ad una presa di coscienza non sorretta dal libero dispiegarsi delle energie culturali, del confronto politico, della reale mobilitazione popolare, e quindi destinata a naufragare nella retorica, nella propaganda, nella invenzione di nuovi e pericolosi miti. Per evitare di cadere in nuove illusioni occorre superare il «gap» di informazione, di elaborazione, che divide oggi l’indistinta percezione di rilancio europeo e la fattibilità, anche sulla base delle esperienze compiute, di tale obiettivo. L’impresa è ardua anche se assistiamo, in questo periodo, ad un rifiorire di studi, di pubblicazioni, di ricerche, di confronti ideali e politici, sul tema Europa che avrà certamente una influenza positiva. La vastità e la complessità degli argomenti in gioco suggerisce il ricorso ad una varietà di fonti che risultano importami anche se richiedono una lettura critica.

Nell’ambito di questo sforzo il volume di Charles Zorgbibe si presenta come un buon testo didattico che descrive il cammino percorso dai paesi europei nella loro faticosa ricerca di unità. Pur essendo convinto della opportunità politica dell’integrazione europea, l’Autore non concede nulla agli slanci sentimentali degli europeisti « viscerali » e, avendo ben presenti le deviazioni dell’attuale fase di costruzione europea, non indulge in recriminazioni o in forzature. Egli coglie ogni sintomo che può far pendere la costruzione dell’Europa verso una entità sovranazionale e, al tempo stesso, analizza tutti gli elementi che portano invece verso una struttura di tipo confederale.

Zorgbibe sottolinea, giustamente, che le precedenti imprese di unificazione europea, dall’avventura di Napoleone al «direttorio» delle grandi potenze per governare la pace, dai vari sistemi di alleanza alle procedure del « concerto europeo », non hanno impedito, nel 1870 e nel 1914, laceranti conflitti. Solo dopo queste negative esperienze si fa strada la consapevolezza del declino politico dell’Europa e si affaccia, concretamente, l’idea dell’organizzazione del continente in quinta regione del mondo, non più centro del mondo.

«E già appare l’opposizione, che avrà un così brillante avvenire, tra due concezioni» egli scrive «della costruzione dell’Europa: una semplice confederazione, che salvaguarderebbe le sovranità statali esistenti, e un superamento dell sovranità attraverso un processo di unificazione (di integrazione, si dirà più tardi) dell’Europa».

Per quarant’anni non si va oltre una prudente cooperazione tra gli Stati e la «querelle» sulla sopranazionalità, nonostante le ambiguità politiche e lessicali in cui i francesi sono maestri, non accenna a risolversi. E tuttavia, nel secondo dopoguerra, inizia un processo di superamento delle sovranità nazionali in Europa attivato soprattutto da uomini come Schuman e De Gasperi che avevano subito, personalmente, il cambiamento di identità nazionale per la modificazione dei confini seguita alla prima guerra mondiale.

II rapido successo della comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), cui De Gasperi – non citato dall’Autore data la sua tendenza a vedere, nel bene e nel male, protagonisti quasi esclusivamente francesi – reca un tenace e convinto contributo, apre concretamente la via a forme di federalismo parziale.

Il secondo passo, in verità piuttosto ambizioso, per rafforzare il processo avviato è dato dal tentativo di costituire la comunità europea di difesa (CED), con garanzie politiche di controllo democratico ottenute da De Gasperi, ma il suo fallimento dovuto al rifiuto della Francia rappresenta un colpo di freno decisivo alla costruzione politica dell’Europa ed alla sua maggiore autonomia nell’ambito mondiale.

Il problema umane irrisolti, anche se la sicurezza europea è garantita dall’Alleanza atlantica, e non a caso il primo ministro belga Tindemans, invitato dai Capi di Stato e di governo a stendere un rapporto sullo stato della comunità, afferma nel 1975 che «l’Unione Europea implica che noi ci presentiamo uniti verso il mondo esterno» e tra le relazioni che devono divenire comuni cita esplicitamente i problemi della sicurezza.

Il rilancio europeo avviene sul terreno dell’integrazione economica e sociale. Si accantonano le discussioni di principio sulla sopranazionalità: nel quadro della CEE e dell’Euratom, la Commissione è indipendente dai governi nazionali ma i suoi poteri sono inferiori a quelli dell’Alta autorità della CECA. L’organo intergovernativo, il Consigli dei Ministri, detiene l’essenziale delle competenze. Spetta tuttavia alla Commissione un diritto di iniziativa esclusivo: su di esso si costruirà un consolidamento dei poteri in senso comunitario.

Si è già accennato ai risultati sbalorditivi dell’espansione economica europea negli anni cinquanta, ma giova ricordare che, in quello stesso periodo, l’ascesa al potere di De Gaulle in  Francia accentua  la  fragilità  politica delle istituzioni comunitarie. Gli anni dal ’58 al ’69 sono stati definiti giustamente dall’Autore come il « tempo delle controversie ». Fouchet, che doveva elaborare un piano per il passaggio ad una unione politica propone invece – in tre successive versioni – le idee francesi di una Europa degli Stati. La prima crisi sul finanziamento della politica agricola anticipa la più grave crisi sul passaggio al voto di maggioranza. Il compromesso di Lussemburgo, «vero capolavoro di ipocrisia istituzionale », sancirà la rinuncia del Consiglio dei Ministri al voto formale, mentre la fusione degli esecutivi delle comunità sarà ottenuta dopo laboriose trattative durate anni al livello più basso di competenze.

La pratica applicazione del principio del «giusto ritorno», nell’uso delle risorse, torna a far prevalere gli interessi nazionali rispetto a quelli comunitari. L’involuzione politica porta al paradosso del rifiuto da parte della Francia della candidatura della Gran Bretagna, che è il solo Stato europeo che condivide le sue impostazioni sull’organizzazione politica della comunità, mentre – per colmo di contraddizione – gli altri Stati europei, favorevoli ad una struttura federalista, sostengono l’adesione degli inglesi anche se essi sono tradizionalmente ostili ad ogni tipo di federazione.

Tocca poi a Pompidou, dopo anni travagliati, il compito non lieve di orientare la politica francese verso nuove forme di realismo europeo a metà strada tra la confederazione e la federazione. Viene così lanciata la proposta dell’Unione europea per il 1980 che sembra implicare, seppur non chiaramente, la rinuncia alla sovranità nazionale in taluni settori. Il mutamento del clima politico consente, su vari piani, un rilancio effettivo della costruzione europea. La dettagliata e acuta analisi di questa fase è, in effetti, la parte più interessante del volume di Charles Zorgbibe.

Nella seconda parte, intitolata «Le tre strutture dell’Europa politica », l’Autore esamina per prima l’evoluzione della CEE, passata da sei a nove membri, in ordine al funzionamento dei suoi organi, all’esecuzione dei trattati, all’esistenza di una normativa che limita in taluni campi la sovranità degli Stati, allo sviluppo di una maggiore cooperazione politica, a decisioni di rilievo come quelle della situazione di un Fondo europeo di sviluppo regionale e della elezione del Parlamento europeo a suffragio universale. Il progresso è evidente anche se non mancano ripensamenti e contraddizioni.

La seconda struttura politica presente in Europa è, secondo Zorgbibe, data dalle sempre più frequenti concertazioni politiche a livello intergovernativo, tra Capi di Stato e di governo ma anche ira i vari apparati amministrativi nazionali, che vengono creando un sistema assai flessibile centrato su nove politiche nazionali parallele alle quali, talvolta, si sostituisce una politica comune.  In talune gravi crisi di importanza locale o mondiale, che si sono succedute a partire dal 1973, il « concerto » europeo ha consentito alla Comunità di presentarsi con una posizione unitaria, ma in molti altri casi, e specificamente nei vertici con i Paesi industrializzati extraeuropei, i singoli Stati europei hanno agito unilateralmente o in modo separato in base ai propri interessi nazionali.

La terza struttura politica presa in considerazione dall’Autore è quella del sistema democratico. Alla base dì tutto il processo di costruzione politica dell’Europa sono posti, giustamente, i valori e gli ideali della democrazia pluralistica e rappresentativa. Le istituzioni della CEE, il Consiglio d’Europa, la Coorte di Giustizia (sulla base della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo), hanno contribuito non poco, sia pure in forme diverse, a rafforzare il concetto di Stato di diritto come elemento di legittimità internazionale. A questa impostazione si deve, tra l’altro, il giusto rifiuto all’ingresso negli organismi europei alla Spagna, alla Grecia, al Portogallo, sino a quando sono stati dominati da regimi autoritari. Anche in questo campo sono auspicabili ulteriori evoluzioni per difendere, insieme al garantismo di tradizione liberal-democratico, il pieno dispiegarsi del pluralismo politico e sociale che essendo il fattore decisivo di ogni moderna democrazia rappresentativa esclude se non vuole negare i suoi stessi valori, discriminazioni ideologiche lesive del comune diritto.

Al sistema democratico europeo manca tuttavia un elemento essenziale, di prossima realizzazione: il Parlamento europeo eletto a suffragio universale diretto. All’interdipendenza dei governi, che abbiamo visto essere ormai piuttosto stretta, non corrisponde infatti una stretta cooperazione tra i popoli, la quale non può essere raggiunta in mancanza di un dibattito politico sulle grandi opzioni dell’Europa. L’elezione diretta è però solo un aspetto, certo il più spettacolare, della necessaria democratizzazione della Comunità; il secondo aspetto, non meno importante, consiste nel rafforzare i poteri del Parlamento, dai quali dipenderà in definitiva l’evoluzione del tipo di integrazione europea.

Si riapre qui, nuovamente, la «querelle» tra la concezione confederale e federale per orientare un cammino che, anche nel volume di Zorgbibe. rimane incerto e affidato al futuro. Ma non saranno le discussioni astratte a risolvere questa controversia. La svolta politica implicita nelle elezioni dirette del Parlamento europeo è data dal fatto che nuovi protagonisti entrano in scena, per affermare i loro diritti ad esercitare la loro influenza, mentre le idee hanno da tempo oltrepassato i confini e nuove forme di solidarietà prendono corpo al di là degli angusti interessi nazionali. La coscienza della gravità della crisi è un ulteriore elemento di mobilitazione Nessuno è tuttavia in grado di disegnare sulla carta quello che sarà l’Europa di domani. Sbaglia chi pensa di ridurre un processo storico di evidente complessità ad una visione di parte, ad una etichetta ideologica, ad una confessione religiosa, ad uno scontro di interessi e di convenienze.

La vitalità dell’Europa sta nel suo pluralismo ed in una vocazione politica all’unità che ne valorizzi il profondo significato. È in questo riconoscimento la maggiore e reciproca garanzia di quella libertà che non a caso è andata perduta quanto una ideologia ha preteso di imporsi, con una logica di sopraffazione e di annientamento, su tutte le altre. Anche nel passato i valori cristiani ed il libero pensiero, il cattolicesimo e il luteranesimo, l’idea liberale ed i movimenti popolari, la rivoluzione industriale e le lotte sociali, la scienza e la letteratura, hanno rappresentato momenti dialettici e creativi di quell’immenso patrimonio etico, culturale, civile e politico, che è la nostra comune matrice.

L’Europa contemporanea è fortemente permeata di tradizioni e di valori che sono venuti via via aggiornandosi nel corso della storia. Per questo tutte le correnti di pensiero, le formazioni ideali e politiche, le forze sociali e sindacali, le energie intellettuali ed imprenditoriali, le risorse culturali e scientifiche, i fermenti morali e religiosi, sono chiamati a concorrere senza rinuncia per la loro identità ed anzi valorizzandola al massimo alla costruzione politica di una Europa libera, giusta, pluralista, che possa definirsi democratica anche per il grado di partecipazione popolare che non può più essere limitalo alla vita dei singoli Stati.

Se questa mobilitazione avrà successo, abbattendo gli steccali esistenti invece di erigerne dei nuovi, allora l’Europa federale, cioè un sistema che pur riconoscendo l’esistenza di Stati diversi si afferma per il concreto trasferimento di parte delle sovranità nazionali, avrà la meglio su quelle concezioni confederali che nei passaggi più difficili hanno sempre rappresentato l’antitesi di una effettiva costruzione europea.

Vale ancora quanto nel 1801 il Gentz, segretario di Metternich ma meno di lui legato ai disegni della politica di potenza, scriveva a proposito di Europa: «I diversi componenti di questa società di popoli vivono in una tale vicina ed incessante comunità, che nessuno importante cangiamento può verificarsi in uno di essi senza influire anche sugli altri. È dire troppo poco che esistono l’uno accanto all’altro». Se cosi vogliono sopravvivere, devono sopravvivere insieme, l’uno per mezzo dell’altro ». Tocca proprio ai popoli promuovere quel vivere insieme, non uno accanto all’altro, che non si è ancora riusciti a realizzare in una Europa troppo ossessionata dal primato delle intese intergovernative.

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