GLI ODIATI FUTUROLOGI
Nel suo articolo “Sandro dei miracoli”, apparso su Il Tempo del 16 marzo 1981, Domenico Fisichella svolge pacate argomentazioni critiche contro alcune tesi in materia di governabilità che consentono di meglio precisare opinioni spesso fraintese e strumentalizzate. Questo modo di affrontare i problemi, si distacca, per stile, dalla cattiva abitudine di catalogare osservazioni e proposte, al di là del loro merito, come prese di posizione pro o contro questo o quel leader in una linea di continuità con la pratica del trasformismo che riduce la politica a congiura o a manovra di palazzo.
È intollerabile che non si possa discutere in piena libertà delle opinioni espresse dal presidente del PRI, Vicentini, senza essere classificati tra i qualunquisti che accettano a scatola chiusa il “governo dei tecnici” o i sabotatori, per oscuri disegni, del governo in carica. Così come è risibile presentare chi valuta l’ipotesi non della cosiddetta soluzione istituzionale ma di un ruolo di governo del sen. Fanfani come corteggiatore, in verità poco credibile se si tiene conto di lunghe e non concluse polemiche, del Presidente del Senato. Si tratta forse di nervosismo che nasce dal fatto che il drastico monito del Presidente della Repubblica a non considerare come scappatoia un ennesimo ricorso ad avventurose elezioni anticipate pone, a tutti, il dovere di considerare con maggiore attenzione ipotesi di governo inconsuete in caso di crisi.
In questo quadro la discussione deve essere assai franca. I richiami all’ordine del segretario del PSDI, Longo, sono una banale espressione di arroganza che non a caso trova dei distinguo nel suo stesso partito. Sia che si tratti di modi migliori per rafforzare e sviluppare l’azione del governo in carica, e tra essi vi è la ricerca esorcizzata del leader socialdemocratico di una maggiore “coesione nazionale” che coinvolga la opposizione comunista, sia che ci si interroghi sugli sviluppi futuri della politica italiana è evidente che il dibattito nei partiti e tra i partiti è pienamente legittimo e non è sottoposto alla censura del segretario del PSDI. Tanto più che l’on. Longo dopo aver deplorato i futurologi, criticato a posteriori l’azione di Aldo Moro, ammonito il presidente Forlani a non coltivare il disegno di “succedere a se stesso” in compagnia dei comunisti, mostra una sia pur imitata attitudine a guardare lontani quando afferma di saper immaginare un futuro “nel quale la DC può contare assai meno di oggi”.
Questo diritto di guardare, contemporaneamente, al presente ed al futuro distinguendo tra i doveri di leale sostegno al governo e la ricerca di linee evolutive come vuole una vitale democrazia è dunque di tutti. È proprio a questo proposito che le critiche di Domenico Fisichella appaiono stimolanti. Dopo aver riconosciuto che, da tempo, la crisi “ha un suo tracciato strutturale e segue binari che presentano solo varianti congiunturali, rimanendo costante la patologia globale” egli ammonisce che tanto “il governo dei tecnici” quanto “il governo istituzionale” sono, al massimo, soluzioni transitorie e di tregua dato l’ordinamento italiano.
A prescindere che non è la prima volta che soluzioni di tregua salvano una legislatura, c’è da osservare che queste semplificazioni non giovano alla chiarezza. Le due ipotesi formulate da Fisichella, a torto attribuiteci, sono in netto contrasto con il fondamento costituzionale della nostra democrazia che attribuisce ai partiti, in quanto portatori di consenso popolare, una funzione decisiva per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49 della Costituzione). Il problema non è questo. Se vi sono leaders politici che pensano a forme di governo “bonopartiste” o “tecnocratiche”, da edificare sul crollo della funzione dei partiti, essi si sbagliano e incontreranno ostacoli insuperabili da chi crede nella democrazia parlamentare.
Non c’è Presidente del Consiglio che possa immaginare di prescindere da un corretto rapporto costituzionale con i partiti per dar vita a definire maggioranze parlamentari, a chiari orientamenti programmatici, ad espliciti impegni politici. Ma una volta stabilito questo possono i partiti, riconosciuti nella loro decisiva funzione politica, estendere il loro potere in campi che la Costituzione riconosce, esplicitamente, al Presidente del Consiglio? La scelta dei ministri, la definizione della condotta parlamentare (anche i rapporti con l’opposizione), le decisioni di merito nella attuazione dei programmi, spettano – senza bisogno di riforme costituzionali – al Presidente del Consiglio. Nel sostenere questo non si cede certamente alle illusioni dei governi “istituzionali” o dei “tecnici”, ma si sollecita, più semplicemente, un ritorno alla Costituzione.
È da anni che il Presidente del Consiglio, anche quando si è voluto riconoscere pubblicamente e non senza ipocrisia il suo diritto a scelte senza condizionamenti dei partiti, non è in effetti libero di esercitare le sue prerogative costituzionali. Analoga diminuzione dei suoi compito si determina quando egli si espone a rischi di crisi, per ritorsione dei partiti, se pensa di risolvere con un rimpasto un conflitto tra ministri o – per altro verso – è sottoposto nelle decisioni di maggiore rilievo a tutele del vertice dei segretari dei partiti o al diritto di veto che, in pratica, ciascuno di essi esercita non sulla linea generale del governo ma su singole decisioni.
Se questa impostazione è corretta, e noi pensiamo che lo sia, come si può pensare di rafforzare il governo Forlani contestando al Presidente del Consiglio il diritto di ricercare su problemi di rilievo, in coerenza con le intenzioni manifestate all’atto della presentazione del Parlamento, il massimo di “coesione nazionale” e quindi un rapporto costruttivo e di auspicabile collaborazione, nei imiti del possibile, con il PCI? Come si può pensare di ostacolare, in vista di possibili ipotesi di crisi, un dibattito esplicito nel PRI e al di fuori di esso sul modo di governare in coerenza con la Costituzione più che agli eccessi della partitocrazia?
Solo la miopia politica può considerare tutto ciò una fuga in avanti. Una crisi di governo, oggi, sarebbe una follia. I referendum, i congressi del PRI e del PSI, le elezioni amministrative di giugno, sono scadenze di grande importanza per comprendere meglio gli umori del Paese e gli orientamenti di forze politiche essenziali alla democrazia italiana.
Ma al di là di queste scadenze si impone, come ha ammonito il Presidente Pertini, la continuità della legislatura ed una effettiva governabilità. La strategia della “coesione nazionale”, cioè di una formula di governo che rifiuta di chiudersi in se stessa, e la rivalutazione dei poteri del Presidente del Consiglio rispetto alle segreterie dei partiti sono, insieme alla capacità di risolvere con il massimo di consenso i problemi reali che sono alla base della crisi che investe il Paese, le condizioni essenziali per rafforzare in concreto l’esperienza in atto. È chi si pone in una logica diversa che opera, di fatto, per il logoramento progressivo del governo Forlani.
È chiaro in questo caso il diritto di non assistere impotenti ad una crisi che, sul vuoto, aprirebbe la via all’avventura. In una situazione eccezionale di crisi, di fronte al saggio rifiuto del Capo dello Stato di assecondare scioglimenti del Parlamento per favorire questa o quella manovra politico-elettorale, non può essere precluso il ricorso a soluzioni alternative. Nessuna personalità di cui la Repubblica dispone può essere trascurata. Il ricorso a soluzioni di tregua, “tecnocratiche” o “bonapartiste”, sarebbe una sconfitta della democrazia dei partiti e, forse, della prima Repubblica: ma il metro di misura della scelta, senza discriminazione alcuna, del leader capace di superare una crisi eccezionale è, anzitutto, quello di una intesa politica tra i partiti costituzionali capace di riprendere in forme diverse del passato la strategia della “Terza fase”, indicata da Moro, e di esprimere autorevolezza e pieno rispetto della Costituzione nell’esercizio della funzione di guida di governo. Non è immaginabile che Domenico Fisichella possa accogliere una simile impostazione ma ci consentirà di ricordare che questo è, per noi, il senso della discussione in atto sulla proposta Vicentini o sull’eventuale ruolo di governo di personalità autorevoli e non la tardiva e strumentale accettazione del governo dei “tecnici” o di quello “istituzionale” in antagonismo ai partiti. Egli ha ragione di sostenere che, in questo caso, si tratterebbe solo di tregua e ci permettiamo di aggiungere di tregua assai precaria.
Il Tempo
20 marzo 1981
Luigi Granelli