CONVEGNO DI GORIZIA SULLA POLITICA ESTERA
Il compito della mia relazione è quello di premettere una impostazione problematica ad un dibattito che abbiamo voluto per mettere a fuoco una linea di politica estera valida sia per il confronto di opinioni, ormai imminente, all’interno dei partito, sia per quanto attiene la posizione dell’Italia nella delicata situazione internazionale dei momento ed in vista dei suoi prevedibili sviluppi futuri.
La scelta di Gorizia non è stata casuale. Nella consapevolezza che sono maturi i tempi per considerare superate certe chiusure dei passato sul piano dei rapporti internazionali, Gorizia – che è il punto più esposto dei nostro paese verso l’Est – bene interpreta la nostra volontà di disporci con rinnovata iniziativa verso frontiere aperte le quali favoriscano la tolleranza, la coesistenza, la collaborazione tra regimi politici e sociali diversi per mantenere e rafforzare la pace che è, dei resto, una condizione essenziale anche per il nostro sviluppo interno.
In Italia risentiamo spesso di una vecchia mentalità provincialistica; molti concepiscono la politica estera come un campo riservato ai diplomatici, agli specialisti, e si incontrano difficoltà a far comprendere che molti aspetti della nostra politica interna sono largamente condizionati dalla collocazione internazionale dei nostro paese. Queste difficoltà ci sono presenti nel momento in cui awiamo un discorso di revisione della nostra politica estera, ma non temiamo di andare anche in questa materia contro-corrente perché siamo consapevoli dell’importanza decisiva che il tema della pace, dell’evoluzione internazionale, della costruzione coraggiosa di un nuovo assetto mondiale, ha per l’avvenire dell’intera umanità.
Non condividiamo l’opinione piuttosto diffusa che, oggi, non vi è soluzione alternativa a quella di schierarsi da una parte o dall’altra dei blocchi contrapposti secondo una divisione manichea dei mondo; noi respingiamo ogni visione immobilistica perché chi crede nelle idee e nelle possibilità degli uomini di modificare le condizioni storiche in cui vivono non può accettare, nemmeno a livello dei rapporti tra gli Stati, un rigido schematismo. Puntare senza riserve di nessun genere sulla pace, ispirare a questo fondamentale obiettivo la politica estera di un paese come l’Italia, significa – per dei cattolici democratici consapevoli dei loro ideali e della propria tradizione politica – essere portatori di valori propri anche nei rapporti internazionali e non accettare mai la logica degli schieramenti, che può essere il risultato di una particolare contingenza storica, come subordinazione passiva agli equilibri di potenza. Siamo, quindi, per una politica estera di iniziativa coraggiosa.
Ci guidano, nella nostra analisi alcuni principi fondamentali che si ricollegano ad una concezione organica ed articolata dell’ordinamento internazionale. Il finalismo della nostra politica estera non può essere soltanto quello di far fronte alla necessità di buone relazioni esterne, per favorire con un adeguato volume di scambi lo sviluppo della nostra economia; anche questo obiettivo, evidentemente non trascurabile, deve risultare inquadrato in uno sforzo tendente ad affermare valori positivi nella pacifica collaborazione tra i popoli per determinare, in coerenza con essi, un deciso progresso nei rapporti tra gli Stati.
Non si tratta di un finalismo nuovo. Il Partito Popolare, con Luigi Sturzo, mise in evidenza già nell’altro dopoguerra il grande interesse dei cattolici democratici per la politica estera e difese sin da allora, con vigore, una concezione pluralistica della società internazionale che poneva alla sua base il diritto e non la potenza, la collaborazione e non l’incomunicabilità, le soluzioni diplomatiche e politiche e non quelle militari. Siamo quindi all’interno delle nostre migliori tradizioni quando invitiamo a liberarci dall’apatia, dal fatalismo, per dar luogo ad un impegno di azione che ci consenta di contribuire, sulla scorta delle nostre possibilità, alla costruzione di un equilibrio mondiale in cui i popoli possano liberamente incontrarsi al di là dei domini di potenza o delle divisioni ideologiche, politiche, religiose o di razza.
Ma insieme al giusto richiamo ai valori in cui crediamo non possiamo dimenticare che la nostra azione, per essere incisiva, deve al tempo stesso ispirarsi ad un consapevole realismo. Non basta aspirare ad un mondo diverso e mantenere un improduttivo distacco dai problemi concreti che ne ostacolano l’affermazione; non basta dichiararsi per la pace in nome di giusti principi, condurre battaglie profetiche in suo favore, protestare con energia contro ogni forma di violenza: è indispensabile avere, insieme, una visione realistica per poter aprire, con atti concreti, una via politica alla pace ed alla costruzione di un mondo diverso da quello in cui viviamo. Occorre, in altri termini, disporre di un maturo realismo storico, tener conto della concreta situazione in cui ci collochiamo internazionalmente, non già per accettare subordinazioni, ma per muovere dalle condizioni in cui dobbiamo operare per modificare e trasformare i rapporti internazionali. Proprio per questo non possiamo accettare, anche in politica estera, “scelte di necessità” recentemente teorizzate che ci porterebbero, fatalmente, a rinunciare al pieno svolgimento della funzione che l’Italia è in grado di esercitare per spingere con una decisa volontà di movimento verso la modifica dell’attuale assetto internazionale.
Non ci facciamo illusioni. Sappiamo bene quanto i nostri ideali contrastino con le realtà, come limitate siano le nostre possibilità di influenza, in un mondo in cui la politica di potenza e l’esistenza di grandi blocchi militari contrapposti determinano, per tutti, condizioni di estrema difficoltà; ma sappiamo anche che non mancano, in una situazione dominata dalla forza, contraddizioni sempre più marcate, spinte al movimento, drammatiche lotte di emancipazione, e che è nostro dovere far leva su tutti questi fattori per individuare, incoraggiare, portare a positive conseguenze, concrete linee di sviluppo politico nelle relazioni internazionali contemporanee.
1 – Si impone a questo punto una domanda: quali sono le caratteristiche di fondo dell’attuale situazione mondiale? Usciamo da un lungo periodo di guerra fredda, abbiamo alle spalle – tranne qualche breve parentesi – più di vent’anni di immobilismo, i problemi più rilevanti sono rimasti al punto in cui sono stati lasciati, nel momento in cui i quattro grandi hanno diviso il mondo in zone d’influenza, alla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Dall’equilibrio post-bellico, praticamente sancito alla conferenza di Yalta, discende immutata nelle sue linee di fondo la situazione internazionale odierna nella quale siamo costretti ad operare pur notando che, con il trascorrere dei tempo, sono maturate delle novità destinate a mettere sempre più in crisi quell’equilibrio.
Tra le novità di rilievo, infatti, deve essere anzitutto rilevata l’esistenza, sempre più marcatamente emergente, di fattori che riducono la vecchia divisione dei mondo ad una specie di bipolarismo imperfetto. Anche in conseguenza dell’immobilismo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si è inserito nella scena mondiale e si afferma sempre di più un terzo interlocutore, la Cina, che aspira ad un ruolo di egemonia rivoluzionaria e rompe così il tradizionale bipolarismo internazionale. Il rischio dell’isolamento o della subordinazione per le nazioni medie o piccole non diminuisce per questo. Si accresce, anzi, il condizionamento che può portare molti paesi a restare nell’ombra della grande potenza che domina il campo socialista, a subire l’egemonia americana, ad accettare la Cina come polo di riferimento dei popoli impegnati nella lotta anticoloniale contro lo sfruttamento.
Questa logica rimane, evidentemente, inaccettabile perché contrasta con l’altra, che deve essere la nostra, che assegna a tutti i popoli il diritto di crearsi il proprio destino in autonomia e libertà.
Se abbiamo scartato la via della rassegnazione, della pavidità, della profezia disarmata, dobbiamo compiere ogni sforzo per esercitare in questa insoddisfacente anche se nuova situazione, senza megalomanie o velleitarismi e con una chiara visione delle nostre possibilità, una iniziativa più qualificata e dinamica della nostra politica estera per contribuire a ben più profondi mutamenti.
Per dare senso politico concreto a questa direzione di marcia dobbiamo individuare gli elementi suscettibili di sviluppo nelle relazioni internazionali e far leva su di essi.
Il primo è quello dei processo di crisi che investe la politica di potenza. Le grandi potenze traggono la foro forza dalla superiorità militare, cioè dagli armamenti nucleari, ma è ormai dimostrato da numerosi esempi che esse – nonostante la possibilità di imporre le loro soluzioni – sono sempre più in difficoltà a mantenere intatto l’equilibrio internazionale uscito dall’ultima guerra mondiale. Questo è accaduto perché la corsa ad armamenti sempre più distruttivi, potentissimi, ha in pratica portato ad una loro relativa utilità dal momento che il loro impiego non lascerebbe sul campo vinti o vincitori, ma provocherebbe la folle distruzione dell’intera umanità. Il riarmo atomico, in altri termini, ha avuto in effetti un indiretto valore dissuasivo non tanto per la pressione dei paesi sprovvisti di tali armamenti, quanto per la consapevolezza della impossibilità, o per lo meno dei costo elevatissimo, di modificare con uno scontro nucleare l’instabile equilibrio mondiale. Analogamente, diventa sempre più sterile e improduttivo il ricorso ai conflitti locali per risolvere, in determinate aree geografiche, i problemi sul tappeto. L’esempio dei Vietnann dimostra, e non è il solo, che nessuna superiorità militare o di armamento può piegare un popolo unito in lotta per la propria indipendenza nazionale. La regoia può essere applicata, in situazioni storicamente diverse, a tutti i popoli che in Africa, in Asia ed in America Latina, si battono per la loro emancipazione. Sul lato opposto dello schieramento risulta sempre meno proponibile anche il tradizionale schematismo marxista della divisione della situazione mondiale in classi sociali contrapposte. La Cina, cioè un paese che ha eliminato le basi capitalistiche dello sfruttamento, non solo rivendica una distinta egemonia nella lotta contro l’imperialismo, ma è in contestazione aperta – quasi di guerra guerreggiata – con l’Unione Sovietica, vale a dire con il primo paese in cui si è realizzata la rivoluzione proletaria.
L’affermarsi della dissuasione nucleare, della improduttività dei conflitti locali, insieme all’apparizione sulla scena mondiale della terza grande potenza egemonica, dimostrano che anche la politica di potenza ancorata alla vecchia spartizione dei mondo in zone d’influenza non è in grado, nonostante le apparenze di superiorità, di controllare con sicurezza l’avvenire e dovrà affrontare, nel prossimi anni, prove non secondarie che aprono positivi spazi di iniziativa internazionale.
Il secondo elemento suscettibile di sviluppi interessanti è la coscienza, sempre più diffusa, della insopportabilità dei rigido schema dei blocchi militari contrapposti e dei manifestarsi di volontà critiche, di propensioni all’autonomia, all’interno delle tradizionali zone d’influenza delle grandi potenze. Gli esempi più significativi possono essere riscontrati, al di là di ogni giudizio di merito, nell’atteggiamento della Francia rispetto alla NATO e nel diffondersi di uno spirito di revisione negli altri paesi che aderiscono a questa alleanza, nella crisi cecoslovacca che, nonostante l’atto di forza sovietico che rivela una intrinseca debolezza politica, pone in luce l’esigenza di un nuovo e più articolato corso nella costruzione dei socialismo nel blocco orientale, nelle difficoltà che incontrano – infine – le grandi potenze nell’area dei paesi in via di sviluppo dove sono costrette dagli avvenimenti, come nel caso dei Vietnam e dei Medio-oriente, a mettersi attorno ad un tavolo per favorire soluzioni negoziate e pacifiche.
Non conta che questo diffuso senso di insopportabilità non abbia avuto, ancora, uno sbocco politico definito e irreversibile: conta registrare anche a questo livello una indiscutibile fase di movimento, un peso maggiore di realtà sociali e politiche sempre meno governabili all’interno degli schemi dei passato, un insieme di occasioni che attendono un maggiore impegno da parte di tutti nella direzione della pace e dello sviluppo mondiale. Sarebbe poco realistico trascurare questo fattore di crescita.
Ci troviamo di fronte, inoltre, ad un terzo elemento positivo: il grande risveglio morale delle nuove generazioni che, in tutto il mondo, rifiutano in maniera sempre più cosciente le anacronistiche divisioni politiche, di razza o di religione, dimostrando con il loro combattivo impegno che esistono in tutti i popoli larghe energie disponibili per una spinta efficace al superamento della politica di potenza e di blocco e per l’affermarsi, con la pace e la distensione, di un nuovo costume di collaborazione internazionale. Non a caso è assolutamente priva di credibilità, tra le nuove generazioni, la tesi – che abbiamo sempre combattuto – delle cosiddette ” scelte di civiltà ” come motivazione ideale della divisione dei mondo in schieramenti militari contrapposti. Aumenta in tutti la convinzione che la civiltà non si identifica con un paese, con un gruppo di paesi, con sistemi militari e difensivi, perché la civiltà autentica non si impone con la forza, non si conquista con la supremazia economica o con il dominio ideologico, ma si costruisce con l’apporto di tutti i popoli, si ravviva di tolleranza e di collaborazione, si sviluppa con il dialogo e non con le crociate della guerra fredda. La più significativa testimonianza di questo processo è data dalla crescente emancipazione dei popoli usciti dal colonialismo.
Le difficoltà che incontrano le grandi potenze all’O.N.U., derivano infatti dalla irreversibile ascesa dei popoli nuovi che introduce, con una positiva spinta dal basso, elementi di novità nell’ambito internazionale ed una potenziale carica di profonde ed irreversibili trasformazioni.
Il problema di fondo della politica mondiale, oggi, è allora quello di favorire la crescita di tutti questi fattori nuovi, di aprire la via a positivi sbocchi politici, di organizzare in una prospettiva evolutiva tutte le tendenze naturali di sviluppo in vista di un nuovo e diverso assetto internazionale. Si pone quindi per ogni paese, in rapporto alle sue concrete possibilità, l’obbligo di contribuire con la propria iniziativa, con la revisione delle tradizionali linee di politica estera, ad un processo di superamento dell’immobilismo degli ultimi vent’anni e di attiva costruzione della pace.
2 – Quale contributo può dare l’Italia, da sola o con altri paesi, a questo processo? Si apre qui il discorso della revisione coraggiosa della nostra politica estera. L’Italia non può limitarsi ad individuare, nelle mutate condizioni internazionali, generiche esigenze di adeguamenti tecnici o aggiornamenti provocati dal movimento delle cose più che da una lungimirante strategia, ma deve – al contrario – sottoporre a revisione critica i traguardi da raggiungere con la propria iniziativa politica e diplomatica. Esiste, in proposito, una falsa via: quella che porta ad adeguare il nostro comportamento al mutato clima internazionale, che va via via sostituendo le tensioni della guerra fredda alla ricerca di intese tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, passando cioè dalla diplomazia rigida ad una diplomazia flessibile, dall’equilibrio dei terrore alla politica del sorriso e dei brindisi, quando invece occorre concettualmente disporsi a modificare obiettivi della nostra politica estera prima preclusi dall’inasprimento dei rapporti tra Est ed Ovest, disporsi ad operare concrete inversioni di tendenza, a sviluppare coerenti iniziative di movimento, con una rinnovata coscienza dei nuovi traguardi da raggiungere.
Si tratta allora di definire, schematicamente, i passaggi essenziali dell’auspicata revisione della nostra politica estera per approfondire tra noi i problemi sollevati e per provocare all’esterno, dentro e fuori la Democrazia Cristiana, una franca discussione.
L’Italia, in primo luogo, può e deve facilitare la distensione e l’avvicinamento tra Est ed Ovest per aprire un primo, decisivo, varco al superamento dei blocchi. Deve essere respinta la tentazione di certi ambienti radicali e borghesi, di cui si fa spesso portavoce l’on. La Malfa, di identificare la distensione e la salvaguardia della pace soltanto nella intesa tra le grandi potenze, negli accordi tra blocco e blocco, quasi che al di fuori di questa logica vi sia fatalmente il ritorno alla guerra fredda o l’arretramento della situazione internazionale. Una pura intesa tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, sulla testa dell’Europa e nell’immobilismo dei blocchi, garantirebbe soltanto una pace fondata sullo status quo, anziché sulla evoluzione, e aprirebbe la via all’Est e all’Ovest ad una nuova e ancor più pericolosa fase di subordinazione dei singoli paesi collocati nelle contrapposte zone d’influenza. Inaccettabile è anche la tesi di fondare l’autonomia dell’Europa dalle grandi potenze sulla realizzazione di un proprio sistema militare e difensivo, naturalmente dotato di armamenti nucleari, perché su questa strada si può solo accentuare la corsa alla disseminazione delle bombe atomiche, bloccare sul nascere la distensione, irrigidire – nuovamente – i rapporti tra i paesi europei orientali ed occidentali.
Il nostro contributo alla distensione, che passa attraverso l’avvicinamento tra Est ed Ovest, deve essere tenace e continuo anche se va seguito con un massimo di attenzione per renderlo fecondo di risultati conciliabili con una più generale strategia evolutiva. La nostra politica estera deve porsi, in questo campo, due obiettivi sostanziali:
1) proseguire, con ogni mezzo, sulla via dei disarmo nucleare e convenzionale per consolidare la distensione e destinare maggiori risorse finanziarie alla soluzione di altri e più urgenti problemi; 2) considerare l’intesa tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, da incoraggiare senza riserve, come la premessa di passi successivi per superare la contrapposizione dei blocchi militari e costruire, in Europa, un nuovo e più articolato assetto politico.
L’Italia non può, di conseguenza, fermarsi all’atto di buona volontà, che abbiamo condiviso, della firma dei trattato di non proliferazione nucleare. Non possiamo limitarci a sottoscrivere le intese raggiunte in questa materia dalle grandi potenze. Oltre ad avallare odiose discriminazioni tra paesi nucleari e non nucleari, a rendere velleitarie le clausole riguardanti l’uso pacifico dell’energia atomica, finiremmo con il rendere sterile uno strumento che può essere positivo solo nella misura in cui costituisce una tappa per riprendere, e portare avanti politicamente e diplomaticamente, il discorso complessivo sul disarmo.
Si tratta di procedere con passi graduali non solo verso la riduzione degli stocks e degli arsenali atomici, rafforzando i controlli e le forme di collaborazione tecnologica e scientifica, ma anche verso la riduzione degli armamenti convenzionali e la riconversione delle industrie belliche in ogni parte dei mondo. La costruzione della pace richiede un’urgente battuta d’arresto anche nella produzione di armi che, se non si usano in una guerra mondiale, sono oggi occasione continua di un traffico indegno nei paesi dei terzo mondo. E’ stato notato, giustamente, che chi acquista armi perde anche per questa via la propria indipendenza dal momento che, in pratica, risulta sempre più subordinato ai gruppi o alle potenze che le vendono. Molti studiosi hanno messo in evidenza, da tempo, le conseguenze negative, dal punto di vista dell’uso delle risorse, che ha la cosiddetta economia degli armamenti rispetto all’economia dello sviluppo. Mentre la prima alimenta, con grave sciupio finanziario e di vite umane, la triste catena dei conflitti locali, la seconda non dispone dei mezzi necessari per fronteggiare senza intenti neo-colonial !etici i grandi problemi della fame, dei basso livello di istruzione, di forme sub-umane di arretratezza, proprio nelle aree geografiche colpite da tensioni e da crisi profonde. Il cammino della distensione, la conquista della pace, la spinta allo sviluppo, richiedono il passaggio dall’economia degli armamenti a quella di una attiva cooperazione con finalità di crescita civile e l’Italia non può non contribuire, con ogni mezzo, al raggiungimento di questo fondamentale obiettivo.
Ma distensione e disarmo, come si è già detto, sono anche l’occasione non già per perpetuare, in Europa e nel mondo, un assetto di subordinazione alle grandi potenze, ma per uscirne sia pure gradualmente. A cosa servirebbe, all’Europa, la scomparsa dei pericoli di tensione se essa dovesse continuare a rimanere nelle mortificanti condizioni scaturite dal compromesso di Yalta in presenza di due super-potenze che consolidano la loro influenza subordinatrice con le intese pacifiche anziché con la guerra fredda?
L’uscita dallo stato di tensione, se non è inquadrata in una prospettiva politica di movimento, non significa di per sé superamento dei blocchi, ma potrebbe addirittura significare il contrario.
E qui che si inserisce il discorso attorno ai patti militari. I mutamenti in atto e prevedibili della situazione internazionale impongono la necessità, in Europa, di una revisione dell’equilibrio politico e militare post-bellico. Non si tratta di provocare superficiali referendum pro o contro i patti militari, nè di rilanciare acriticamente una linea di neutralismo italiano od europeo che porterebbe all’isolamento, alla riduzione di influenza, nell’attuale momento internazionale. Occorre avere coscienza che i patti militari concepiti, vent’anni fa, in funzione di sicurezza e di difesa costituiscono ora, e costituirebbero sempre di più in una prospettiva di avvicinamento Est-Ovest, un freno obiettivo alla evoluzione dei rapporti politici, culturali ed economici in Europa.
E’ necessario, quindi, introdurre anche a questo proposito un discorso critico e di revisione rivendicando, nel nostro partito e di fronte all’opinione pubblica, il diritto di discutere con franchezza di simili argomenti al di fuori da ogni inammissibile clima di caccia alle streghe.
Se si ha il coraggio di guardare lontano non si può non riconoscere che senza uno smantellamento, graduale e reciproco, dei patti militari che si fronteggiano sul nostro continente, la costruzione di una grande Europa politica, libera da tentazioni isolazionistiche e terza-forziste, interlocutrice autorevole delle grandi potenze mondiali e ponte concreto verso i paesi dei terzo mondo, è destinata a rimanere un mito evanescente. Per muoverci responsabilmente in questa direzione è indispensabile superare, con certe forme di oltranzismo atlantico, ogni posizione di passività e di inerzia; così come non si può accettare la tesi semplicistica, sostenuta dal P.C.I. e da altri ambienti della sinistra italiana, della uscita unilaterale dalla NATO o di una astratta scelta neutralistica.
L’esperienza storica ha dimostrato che il Patto Atlantico, di per sè, non era uno strumento di guerra né ha impedito, di fatto, una evoluzione dei rapporti internazionali; analoga constatazione può essere fatta per il Patto di Varsavia che è risultato, in pratica, più uno strumento di coesione interna al blocco orientale che di espansione militare. Entrambi i Patti, in sostanza, hanno svolto in passato una funzione di reciproca sicurezza, di stabilizzazione, e non hanno ostacolato il riavvicinamento in corso tra Est ed Ovest. In una situazione più distesa di quella che abbiamo vissuto all’indomani della guerra non possiamo dimenticare, peraltro, che al momento dell’adesione dell’Italia alla NATO non tutti, anche nella Democrazia Cristiana, erano pienamente concordi. Significative e non certo meschine erano, ad esempio, le perplessità di Dossetti e di Gronchi circa i rischi cui si esponeva, con quella scelta, la futura iniziativa di politica estera dell’Italia a causa dei l’irrigidimento prevedibile dei blocchi. Profondamente diversa era, anche allora, la posizione della sinistra che rifiutava l’alleanza anche per ragioni ideologiche e di principio.
Come potremmo oggi, nel 1969, ricordando le stesse perplessità esistenti nel 1949, negare l’opportunità di una diversa valutazione dei patti militari, come della loro funzione, in una situazione internazionale che appare completamente rovesciata rispetto a vent’anni fa? Allora vi era il clima di paura, determinato dalla guerra fredda, la debolezza post-bellica di tutte le nazioni europee, il bisogno di salvaguardarsi da possibili espansionismi militari; oggi -al contrario – si apre una fase di distensione e di fiducia, i paesi europei si sono notevolmente rafforzati, tra Stati Uniti ed Unione Sovietica non è in atto uno scontro ma un prevedibile incontro, il ricorso a strumenti militari per modificare sul continente le zone d’influenza delle grandi potenze appare dei tutto impraticabile. I rischi odierni sono di segno opposto. L’immobilismo può favorire la tentazione di avvalersi, in modi diversi come diversa è la logica politica dei due blocchi, dei patti militari per consolidare una pratica interferenza sui comportamenti dei paesi associati nell’alleanza che continuerebbero così ad essere privati, come l’esempio della Cecoslovacchia insegna, di una reale autonomia pur nel quadro della distensione.
3 – L’intangibilità dei patti militari, che i conservatori di entrambi gli schieramenti propugnano, finisce per rendere più difficili i tentativi politici e diplomatici per piegare a vantaggio dell’Europa il processo distensivo e l’avvicinamento tra Est ed Ovest che potrebbe invece, in una prospettiva di superamento dei blocchi, consentire al nostro continente di porre rimedio all’anacronistica spaccatura post-bellica, di realizzare forme nuove di garanzia e di sicurezza, di avviare a soluzione il problema tedesco creando così le condizioni più favorevoli ad un diverso processo di integrazione economica e politica.
Mantenere in vita patti militari che perpetuano le vecchie contrapposizioni significa, dunque, rendere velleitario ogni sforzo per realizzare in termini nuovi e di più ampio respiro l’Europa di domani.
Significa, in altri termini accettare anche in una fase distensiva, come già nel periodo della guerra fredda, l’assetto politico decretato dai quattro grandi alla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Possono gli europei accettare questo destino e continuare ad auspicare nuove prospettive per l’Europa? Noi riteniamo di no. Perciò il discorso, oggi, non è quello delle polemiche retrospettive affidate oramai al giudizio storico o di petizioni di principio sull’adesione ad un patto militare in analogia a quanto accadde nel 1949, ma è quello delle iniziative necessarie per superare con realismo non disgiunto da coraggio una situazione europea che contrasta con un effettivo processo di distensione internazionale.
Ciò richiede un esame di coscienza per quanto concerne il nostro europeismo. L’Europa non ha raggiunto il traguardo della sua unità, si trova di fronte a difficoltà insuperabili, perché non è possibile costruire una unità sovranazionale se manca la volontà politica di rinunciare a parte delle rispettive prerogative nazionali. La spontanea integrazione dei mercati, le intese economiche fondate sulla pura convenienza, la liberalizzazione crescente degli scambi, rappresentano fattori positivi, ma non possono portare con sé la conseguenza automatica dell’unità politica. Quando si è capito, dopo l’esperienza della CECA, che l’affermazione della sovranazionalità implica una rinuncia di poteri nazionali si è preferito imboccare la scorciatoia dei l’integrazione economica, che è di fatto diventata interessata convergenza dei cartelli finanziari e delle grandi imprese, ma le difficoltà politiche sono aumentate e le prospettive unitarie si sono allontanate anziché avvicinarsi.
L’Europeismo rischia così di diventare la formula di copertura di considerevoli interessi economici sempre meno conciliabili, per una logica evidente, con una visione complessiva della stessa unità economica dei continente. I pericoli sono di due ordini: mentre nell’area comunitaria si va formando, nell’assenza di strumenti politici di controllo che riduce le strutture burocratiche attuali a funzioni di puro sostegno, una vasta rete oligopolistica, che avrà forte influenza sugli sviluppi futuri, all’interno dei singoli paesi i parlamenti nazionali, ed i governi, riescono sempre meno a controllare realtà economiche che si espandono al di là dei confini tradizionali. Entrambi questi pericoli mettono in luce il vuoto di potere politico che deriva da un processo di integrazione affidato alle leggi dei mercato. Non a caso è sempre più difficile applicare soluzioni comunitarie, nell’ambito europeo, in materia agricola, nella ricerca scientifica e tecnologica, nel settore degli investimenti destinati ad aree depresse od arretrate, nel campo della programmazione industriale o dei controllo del mercato dei capitali: l’integrazione non può avvenire spontaneamente a questi livelli in mancanza di una forte volontà politica unitaria, di efficienti autorità sovranazionali, di una spinta effettiva dei governi e dei popoli europei per lasciare alle spalle le vecchie mentalità nazionalistiche e costruire una unità politica di largo respiro storico.
Non deve stupire, di conseguenza, che una Europa siffatta – nel momento in cui abbassa le frontiere al suo interno e favorisce di fatto, con la circolazione della manodopera, dei capitali, dei beni prodotti, consistenti concentrazioni nei settori più evoluti tecnologicamente – tenda anche a circondarsi anacronisticamente di cordoni protettivi esterni, specialmente verso i paesi dei terzo mondo, e continui a far fare all’Inghilterra una incomprensibile anticamera per il suo ingresso nel MEC. Quello che hanno consentito nel secolo scorso i singoli protezionismi nazionali sembra essere affidato, oggi, al nuovo protezionismo di una piccola e asfittica Europa che risente, politicamente, delle sue divisioni interne e del pesante condizionamento della spaccatura lasciataci in eredità dalla guerra. Come si può pensare che, procedendo in questo modo, nasca un giorno per incanto una Europa autorevole, aperta verso i paesi in via di sviluppo, capace di collaborare con le grandi potenze per dare al mondo un assetto diverso? Su questa strada non c’è che una crescente frustrazione dell’europeismo, una decadenza mediocre e irreversibile, un destino di passiva subordinazione verso le grandi potenze che continuerebbero, indisturbate, la loro politica di condominio mondiale.
Ecco perché occorre ritornare ad una netta impostazione politica dell’europeismo. Con una inversione di tendenza anche l’integrazione economica può ricevere, con le necessarie correzioni, una spinta positiva verso obiettivi che possono evitare prevedibili crisi nel lungo periodo. Ma una Europa diversa dall’attuale non può nascere se si accetta l’innaturale spaccatura dei continente in zone contrapposte, se non si abbatte il muro della incomunicabilità che i patti militari tendono a far sopravvivere, se non si compie un salto di dimensione nel concepire una più larga e articolata unità, fondata sulla coesistenza e sulla collaborazione tra regimi sociali e politici diversi, per un domani da costruire con l’iniziativa coraggiosa degli europei più consapevoli.
Bisogna quindi riprendere e portare avanti con decisione il discorso politico di una grande Europa in un diverso ordinamento mondiale. La posizione deve essere franca, non strumentalmente polemica, anche nei confronti delle grandi potenze. Chi pensa con onestà al futuro dei mondo non può ignorare la funzione positiva che, al di là dei giudizio ideologico o politico, hanno svolto in passato – si pensi alla sconfitta dei nazifascismo – e possono ancora svolgere super-potenze come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ciò non sarà meno vero, domani, per l’influenza che potrà avere in Asia la stessa Cina. Le diffuse propensioni all’anti-americanismo e all’anti-sovietismo viscerali, che sono i residuati propagandistici dei vecchio spirito di crociata, non servono a rivendicare con dignità e chiarezza la necessaria indipendenza, ad Est e ad Ovest, per creare le condizioni politiche favorevoli a prospettive di costruzione dell’Europa diverse dal passato. Molte volte la subordinazione è più frutto della debolezza propria che delle pretese altrui. E’ stato raro sentire, in questi anni, il timbro schietto e responsabile, pieno di dignità e di lungimirante intelligenza politica, che è riscontrabile nel discorso fatto da De Gasperi a Parigi dopo una guerra perduta, in occasione dei trattato di pace, o in quelli pronunciati dall’allora Presidente Gronchi nella sua visita agli Stati Uniti. Eppure non sono mancate, e non mancano, occasioni per ribadire su molti problemi decisivi il nostro autonomo giudizio politico pur nel rispetto leale delle intese sottoscritte.
Ma sarà difficile riprendere, sui singoli atti, il necessario vigore e la conseguente credibilità senza la elaborazione di una strategia d’insieme della nostra politica estera che trovi, oltre che nella pace e nello sviluppo di tutti i popoli dei mondo, il suo fulcro centrale in una concezione dell’Europa adeguata ai tempi. P- questo un punto che merita una grande attenzione. La funzione futura dell’Europa non è quella di un nuovo isolazionismo provinciale, ma è quella di una comunità politica caratterizzata da un massimo di pluralismo di regimi e di articolate forme di sovranazionalità, da una coesistenza pacifica tra le due Germanie, consolidata da una effettiva partnership con gli Stati Uniti e da una franca amicizia con l’Unione Sovietica, animata da uno spirito di intensa collaborazione con i paesi dei terzo mondo, rafforzata infine – dall’apporto decisivo di una Inghilterra integrata non solo in un sistema aperto di rapporti economici ma interlocutrice anch’essa, per la sua parte, delle super-potenze e in particolare della grande nazione americana. E’ facile vedere, in questa prospettiva ambiziosa, i risvolti dell’utopia, ma la storia dimostra che nei momenti di grande e travagliata incertezza, come per molti versi è l’attuale, solo le grandi idee hanno consentito di superare un realismo fatto di ” routine ” e di mediocrità. C’è sempre un distacco tra le concezioni ideali e le realizzazioni storiche; tuttavia è estremamente difficile, per non dire impossibile, assicurare una efficace guida all’azione in mancanza di una forte tensione ideale e non ci sembra un errore rivalutare in qualche misura anche l’utopia in un mondo che sente un forte richiamo per il pragmatismo.
4 – E questa idea dell’Europa di domani, infatti, che ci consente di affrontare realisticamente, non sulla base di una opzione morale tra pacifismo e militarismo che ha pure la sua importanza, il problema dei superamento dei patti militari. Non ha senso, in questa prospettiva, l’uscita unilaterale dell’Iitalia dal Patto Atlantico se resta in piedi, per intenderci, il Patto di Varsavia. Sarebbe però altrettanto contraddittorio e paralizzante rimanere imprigionati nella logica dell’immobilismo. Né potrebbe essere considerata positiva una marcia all’indietro, verso una ripresa di nazionalismo, di intese bilaterali, di egoistico neutralismo, che sarebbe inevitabile qualora lo scioglimento dei legami internazionali attuali aprisse il varco al vuoto politico più che ad iniziative di superamento dei blocchi in funzione di una unità europea su larga scala. L’ipotesi di una solidarietà difensiva franco-tedesca, o una diretta protezione americana alla Germania di Bonn, l’isolamento europeo dall’Inghilterra e il neutralismo dell’Italia, non potrebbero essere considerati, sia pure con la scomparsa dei Patto Atlantico, come un passo avanti nella soluzione dei problemi militari e politici dell’Europa. Il neutralismo può essere, domani, l’approdo dell’intero continente europeo una volta che siano risolti i problemi della sua sicurezza e della sua unità, ma non rappresenta oggi, soprattutto per un paese come l’Italia, una linea strategica capace di influire sugli eventi in modo determinante. Non è tempo, questo, di frazionismi nazionali, ma di sforzi convergenti anche se distinti ad Est e ad Ovest: non si può chiedere agli Stati Uniti ed all’Unione Sovietica quello che i paesi europei, nell’una e nell’altra zona d’influenza, non sono in grado di preparare con la loro iniziativa.
La parola, quindi, è agli europei. Che fare, allora, per creare le condizioni concrete di un superamento graduale e bilanciato dei patti militari? La domanda riguarda, per quanto le compete, anche l’Italia. Con lo scadere dei vent’anni dalla firma dei trattato dei Nord-Atlantico si aprono formalmente, anche per il nostro paese, le possibilità di un ritiro dell’adesione, con preavviso di un anno, o di iniziative finalizzate ad una sua revisione. Ma è quella della revisione una via percorribile e corrispondente alle finalità ricordate? E sufficiente far leva come negli anni passati, sull’art. 2 per accentuare il carattere politico dell’alleanza restringendo a rigidi scopi difensivi, geograficamente delimitati, il significato militare e strategico? Basta una modifica interna dei quadri di comando e dei poteri di decisione o, ancora, un aggiornamento delle strategie difensive con criteri di ampia flessibilità?
Dobbiamo essere precisi su questo punto. Quando parliamo di revisione non intendiamo un adeguamento in termini di efficienza, di guida, di articolazione strategica dei patto. Tutto ciò non è stato precluso in passato e non potrebbe esserlo in futuro. La revisione di cui parliamo è politica e deve tendere a creare le condizioni per il superamento dei Patto Atlantico che sono, come abbiamo più volte ripetuto, legate anche alle concrete possibilità di determinare un analogo e contemporaneo superamento del Patto di Varsavia.
Ma è possibile, si osserva, difendere le ragioni di sopravvivenza dei patti militari ed impostare, al tempo stesso, iniziative idonee a preparare il loro superamento? Se la parola è ai politici, certamente si; se la parola resta ai militari, certamente no. Sappiamo bene che l’integrazione militare, per sua natura, affonda in estensione le sue radici e più passa il tempo più difficile è smantellare i sistemi difensivi. Ma difficile non significa impossibile. Il processo non potrà che essere lungo, irto di ostacoli, ma proprio per questo è urgente incominciare a muoversi con decisione. La nostra politica estera dovrebbe perciò proporsi, nel quadro della revisione generale auspicata, alcune iniziative qualificanti che ho avuto modo di richiamare, recentemente, in un dibattito presso le Commissioni Esteri e Difesa della Camera. Esse sono, in sintesi, le seguenti:
1) prendere l’iniziativa per la costituzione di un gruppo dei partners europei della NATO allo scopo di rafforzare la loro presenza collegiale nelle decisioni inerenti l’alleanza e di accentuare, su tutti i problemi mondiali, l’indispensabile autonomia di giudizio rispetto alla politica degli Stati Uniti;
2) compiere atti concreti per promuovere, a norma dell’art. 2 e d’intesa con altri paesi, la dissociazione dall’Alleanza Atlantica di regimi antidemocratici come la Grecia ed il Portogallo i cui vantaggi strategici non compensano certo l’enorme perdita di credibilità politica della comunità;
3) contribuire con grande impegno alla preparazione di una conferenza sulla sicurezza in Europa, con la partecipazione dei paesi interessati e di quelli neutrali, per mettere a punto concrete misure finalizzate ad un contemporaneo e graduale smantellamento dei patti militari ed avviare a soluzione i problemi rimasti aperti con l’ultima guerra mondiale.
Non ci nascondiamo le difficoltà che possono incontrare simili iniziative. Esse, tuttavia, sono compatibili con una corretta interpretazione degli accordi in atto, che non intaccano certamente la sovranità politica dei paesi che li hanno sottoscritti, e rifuggono da sterili e improduttive decisioni unilaterali. Non solo siamo all’interno della non dimenticata concezione kennediana della partenership euro-americana, ma non mancano agganci alle stesse affermazioni fatte dal Presidente Nixon nella conferenza stampa a commento dei suo recente viaggio in Europa. Per quali ragioni, se non per la loro inerzia, gli europei dovrebbero precludersi il diritto di esprimere un loro parere collegiale sulla situazione asiatica, sul conflitto dei Vietnam e dei Medio-oriente, o sull’ammissione della Cina all’ONU? Nè il richiamo all’art. 2, per affrontare il problema di una partecipazione della Grecia e dei Portogallo incompatibile con lo spirito dei trattato Nord-Atlantico, può prestarsi alla riesumazione in termini di ” scelta di civiltà ” di una intesa militare e politica nel momento ìn cui richiama doverosamente la difesa dei più elementari diritti dell’uomo calpestati in quei paesi. La proposta di una conferenza pan-europea sulla sicurezza, sollevata ufficialmente dal ministro degli Esteri on. Nenni, a nome dei governo italiano, nel recente incontro di Washington, è – infine un modo concreto per verificare responsabilmente la disponibilità dei paesi dei Patto di Varsavia ad atti reciproci di riduzione della tensione militare, e di graduale smantellamento degli apparati difensivi, e per avviare trattative concrete sui problemi europei da tempo irrisolti. Questa proposta non incontra, ad Est come ad Ovest, rifiuti pregiudiziali: essa è dunque una occasione positiva da non sciupare nè con una frettolosità che potrebbe esporla ad un fallimento gravido di conseguenze, nè riducendola ad una mera sortita propagandistica per coprire un sostanziale immobilismo.
L’apporto dell’Italia può e deve essere, in proposito, fortemente impegnato.
Non può essere dimenticato che la preparazione della conferenza solleva, insieme ai problemi militari e alle forme per garantire la sicurezza dei continente, complessi problemi politici tra cui assume rilevanza particolare la questione tedesca. Un diverso equilibrio in Europa non è immaginabile se non si affronta con decisione e realismo tale questione. Le occasioni perdute in passato sono ormai improponibili. La proposta di unificazione e di neutralizzazione della Germania, che nel 1951 non trovava opposizione da parte dell’Unione Sovietica, è caduta senza alcuna possibilità di essere ripresa; la soluzione di una confederazione delle due Germanie, prospettata nel 1957, non è più proponibile nelle forme allora elaborate. Nel frattempo, con il passare degli anni, si sono costruite e sviluppate due realtà tedesche con regimi sociali, politici e culturali diversi, che hanno problemi di coesistenza ma sono difficilmente integrabili in un unico sistema. Si può continuare ad ignorare questa realtà? Si può dimenticare che una ragionevole sistemazione dei problema tedesco, che implica il riconoscimento dei confini dell’Oder-Neisse, è fondamentale per la stessa sicurezza europea? Dei resto la stessa ripresa della proposta di una confederazione presuppone, come via obbligata, quella dei riconoscimento di due Stati tedeschi e non a caso aumentano sempre di più, nella stessa Germania di Bonn, le correnti liberali, socialdemocratiche e democratico-cristiane favorevoli, con tutte le prudenze dei caso, ad intese dirette con VEst anche su questo punto. Tutto questo dimostra che la preparazione di una conferenza pan-europea richiede, al di là delle schermaglie diplomatiche e propagandistiche, una forte volontà di superamento della situazione militare e politica attuale tanto ad Ovest quanto ad Est.
Ma proprio per questo si apre, per l’Italia, una fase estremamente interessante che può diventare il banco di prova di un profondo rinnovamento della propria politica estera, di un nuovo slancio delle relazioni bilaterali, di una larga mobilitazione popolare a sostegno di un nuovo impegno europeistico. Si tratta di passare dalle parole ai fatti per contribuire, attivamente, al più volte richiamato superamento dei blocchi contrapposti in Europa.
5 – Non posso concludere questa già troppo lunga relazione senza dedicare alcune considerazioni ad un ultimo tema essenziale: quello di uno sviluppo autonomo dei paesi dei terzo mondo che dovrebbero trovare, nella politica estera italiana, maggiore spazio e più dinamiche iniziative. Il problema investe, come si è visto, le responsabilità complessive dell’Europa, ma l’Italia può muoversi sin da ora con maggiore decisione nella direzione giusta. Non si tratta soltanto di predisporre aiuti economici, di assicurare assistenza tecnica, o addirittura di riprendere – in forme mutate nuovi tentativi neo-colonialistici. in tutti questi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, c’è insieme all’esplosione delle condizioni di arretratezza una grande ansia di libertà e di indipendenza che va compresa e rispettata. Occorre intrecciare, con tali paesi, rapporti politici tra uguali e favorire la loro ascesa sulla scena internazionale. Non basta, pertanto, mettere insieme le risorse necessarie per ridurre la distanza tra i paesi industriali più progrediti ed i paesi poveri ed in via di sviluppo, ma di predisporre – al tempo stesso – strumenti di cooperazione internazionale che non lascino dubbi circa la loro intenzione di favorire apertamente, insieme alla crescita economica e sociale, l’indipendenza politica di quei popoli.
L’Italia, per la sua collocazione internazionale, per il suo più recente passato libero da qualsiasi propensione colonialistica, per la sua sincera vocazione di pace e – infine – per la stessa complementarietà dei suo sistema economico, dispone di prestigio e può dischiudere davanti a sé ampie possibilità di intervento. Ma la sua azione deve estendersi anche verso gli organismi internazionali che meglio possono favorire i suoi sforzi e quelli di altri paesi. Alludiamo, soprattutto, all’importante funzione dell’ONU ed alla necessità di disincagliarla al più presto dalla crisi di impotenza in cui versa. E’ urgente universalizzare con l’ingresso della Cina, la sua rappresentatività, rafforzare con maggiori poteri d’intervento il suo prestigio internazionale, impostare nel suo ambito ogni negoziato per la pace ed i programmi di aiuto ai paesi in via di sviluppo, consentire – in una parola -il pieno svolgimento delle sue finalità a tutela dei diritti e dell’indipendenza di tutti i popoli. Anche a questo proposito l’Italia, insieme ad altri paesi, deve esercitare al massimo la propria iniziativa perché è sempre più evidente che i rischi della politica di potenza, rappresentati dal bipolarismo USA-URSS e dal nuovo tentativo di egemonia della Cina sul paesi ex coloniali, potranno essere quantomeno attenuati nella misura in cui l’ONU sarà nelle condizioni di riprendere il ruolo di supremo moderatore dei contrasti internazionali che le era stato attribuito sin dal suo sorgere.
L’ampia analisi compiuta ci ha confermato nella convinzione che è indispensabile imprimere alla politica estera italiana, in corrispondenza alle intense modificazioni in atto, un maggiore dinamismo. Ciò richiede non tanto un superficiale attivismo, quanto una forte volontà di revisione degli indirizzi tradizionali. Non sfugge alla coscienza democratica dei paese, intesa in tutte le sue espressioni politiche, questa fondamentale esigenza. L’Italia è, in Europa, uno dei paesi che ha sin qui conservato gli ordinamenti democratici nati con la Resistenza. Il governo del paese è, da tempo, l’espressione di forze politiche popolari legate per tradizione storica ad una sincera vocazione di pace; tra le forze di opposizione, in un sistema di vivace democrazia parlamentare, svolge la sua funzione di interprete di larghi strati popolari un partito comunista che gode di un indubbio prestigio internazionale e può influire, nel campo socialista, sulle evoluzioni necessarie per aprire in Europa e nel mondo un corso diverso da quello che la dottrina sulla ” sovranità limitata ” elaborata da Breznev sembra far prevedere.
C’è dunque in Italia, in conseguenza di una peculiare situazione storica, spazio sufficiente per un serio confronto tra governo ed opposizione anche sui temi decisivi della politica estera. Non si tratta di confondere le posizioni reciproche. Basta abbandonare ogni spirito di crociata e di propaganda e porre in primo piano le idee e lo sforzo di approfondimento delle rispettive posizioni politiche. le forze democratiche investite di responsabilità di governo hanno, per conto loro, un grande compito di rinnovamento delle linee di politica estera dell’Italia, mentre il PCI, se vuole sviluppare le intuizioni di Togliatti condensate nel memoriale di Yalta e nella tesi dell’unità nella diversità dei movimento comunista internazionale, non può trascurare l’esigenza di un serio revisionismo anche in ordine a questi problemi. Politica di potenza dell’Unione Sovietica, nuovo corso in Cecoslovacchia, questione cinese e articolazione pluralistica delle vie nazionali al socialismo, sono – per i comunisti italiani – problemi aperti che certamente non verrebbero risolti da una uscita unilaterale dell’Italia dal Patto Atlantico.
Ecco perché un dialogo serio ed impegnato può essere utile a tutti; ecco perché ognuno può battersi nel Parlamento e nel paese, pur nella distinzione connessa alle funzioni dei governo e dell’opposizione, per raggiungere in campi diversi obiettivi dì comportamento internazionale da cui dipendono in larga misura la revisione della politica di potenza, il superamento dei patti militari, la costruzione di una grande Europa che garantisca una migliore articolazione delle vie nazionali al socialismo, l’emancipazione dei paesi in via di sviluppo e la conquista di una vera pace.
In questo processo una parte rilevante spetta alla Democrazia Cristiana. La pura contrapposizione propagandistica, alimentata dalla guerra fredda, non regge più; si apre una fase di confronto, di iniziativa, di trasformazione interna ed internazionale, che richiede scelte coraggiose, chiarezza di indirizzi, coerenza operativa. Occorre un partito rinnovato e tra i temi di una qualificazione all’altezza dei tempi vi sono, senza dubbio alcuno, quelli della politica estera. Il chiarimento interno, che sarà al centro dei prossimo congresso nazionale, richiede un aperto confronto di idee anche sulla problematica discussa in questo convegno. Abbiamo il dovere di essere intransigenti. Di fronte ad un mondo che cambia non vogliamo essere i profeti disarmati della pace, ma uomini politici attivi che operano per rinnovare gli indirizzi di fondo della Democrazia Cristiana, per aprire una fase nuova della nostra politica estera, per contribuire, con gli altri partiti, ad assicurare all’italia un ruolo attivo nei rapporti internazionali.
(intervento conclusivo) – La questione centrale posta dal convegno è che il nostro obiettivo deve essere quello di creare un’alternativa sia al neutralismo che all’atlantismo, arricchendo questa linea di contenuti concreti sui quali chiamare a confronto le altre forze politiche e qualificare in modo coerente l’azione di governo. Circa il neutralismo, non c’è da rifiutarlo in astratto come sistema di valori, ma solo come possibile modo operativo politico per l’oggi.
E’ stata largamente condivisa l’opinione che l’uscita unilaterale dal Patto atlantico, non accompagnata da analoghi gesti di paesi aderenti al Patto di Varsavia, non significherebbe un avanzamento e creerebbe nuove preoccupazioni per la stessa situazione dell’Est europeo.
Dobbiamo invece muovere una critica ancora più rigorosa al neoatlantismo, perché si tende attraverso ad esso a superare le vecchie concezioni atlantiche senza neppure comprendere che è l’atlantismo nella sua tradizionale versione che va superato nell’evoluzione dei rapporti internazionali, prima ancora che come strumento militare. La nostra proposta di revisione non va accolta all’interno della logica di un adeguamento tecnico dell’alleanza, ma quale trasformazione qualitativa di essa. Così dicasi per il rilancio eventuale della tesi della partnership che comporta un problema di nuovi rapporti fra un’Europa che raggiunge certi traguardi politici e una America che porta avanti i propri obiettivi in un contesto internazionale diverso.
Se rifiutiamo il neutralismo, l’atlantismo e il neo-atlantismo, il tema centrale resta l’Europa; occorre tuttavia compiere uno sforzo di demistificazione perché l’alternativa europea non deve solo essere libera da subordinazioni verso le grandi potenze, ma deve comportare un impegno a costruire l’Europa su nuove basi, un tipo di Europa non carolingia, non limitata a interessi economici, ma una grande Europa senza frontiere; non un terzo blocco munito di una sua ideologia, ma un continente che si dà un ordinamento comune nel rispetto della autonomia dei singoli Stati; non gli Stati Uniti d’Europa, ma un nuovo ordinamento sovranazionale fondato sul rispetto nella coesistenza di sistemi e di regimi sociali e politici diversi. Se esiste per noi europei dell’Ovest il problema dell’autonomia verso gli Stati Uniti, e per i paesi dell’Est quello della loro autonomia rispetto all’URSS, ciò non giustifica il lasciarsi prendere da tentazioni terzaforzistiche, da un vecchio radicalismo, dal nazionalismo europeo, ma richiede di puntare ad un’Europa che sia interlocutrice delle grandi potenze. In questo senso sono da respingere sia l’antisovietismo che l’antiamericanismo viscerali.
Si tratta di un processo di lungo periodo. Ma anche le grandi marce cominciano coi primo passo. Quale primo traguardo dobbiamo porci quello della eliminazione dei patti militari in Europa in quanto stabilizzatori di un vecchio equilibrio politico. Per questo rifiutiamo il mantenimento dei Patto atlantico come una scelta di necessità. Dobbiamo poi darci gli strumenti politici per raggiungere questo traguardo: la conferenza paneuropea – che non deve essere né affrettata, né fatta fallire, né richiesta per il gusto di una sortita propagandistica – deve costituire l’occasione per i partiti e per il nostro paese di verificare in concreto la volontà di effettivo superamento dei patti militari nei due campi contrapposti. Alla conferenza bisogna andarci con forte volontà politica. Il tono, alla Commissione esteri della Camera, era di tolleranza verso una iniziativa volonterosa ma quasi inutile, non certo di convinta adesione. Questo tono particolare veniva sia da commissari democristiani che da commissari socialdemocratici. Occorre perciò rivedere il concetto della responsabilità in politica estera dell’intera maggioranza e dei governo nel suo complesso.
Non si vede nelle forze politiche che esprimono il governo una volontà politica di utilizzare la conferenza paneuropea quale strumento per superare, nel quadro della distensione, i patti militari. Ma quali sono i problemi più spinosi della conferenza? Il problema centrale è quello tedesco. Bisogna però stare attenti a non prendere posizioni apparentemente innovative – come per l’unificazione tedesca – ma sostanzialmente immobiliste. Per il successo della conferenza è necessario un massimo di realismo, e non si può pertanto ignorare che un passo iniziale, in vista della ripresa della tesi della Confederazione, è dato dal riconoscimento dell’esistenza di due stati tedeschi. Si tratta di una presa di coscienza senza la quale non si crea probabilmente nulla di nuovo. La diplomazia non può ignorare la realtà della Germania quale essa è, anche perché è su di essa che molti giochi politici verranno smascherati. Il problema tedesco è importante anche per il disgelo nel blocco dell’Est europeo. Non è pacifico che i confini debbano essere quelli dei 1937, ma quelli dell’Oder-Neisse devono spegnere un problema che il trattato di pace non ha saputo nè voluto risolvere.
Data l’importanza di questi problemi mi sembra opportuno suggerire, tra le conclusioni operative dei convegno, la costituzione di un gruppo di studio per la elaborazione di proposte concrete in materia di sicurezza in Europa (riduzione degli armamenti nazionali, denuclearizzazione, patto di non aggressione, ecc.).
La politica estera che abbiamo indicato non vale solo per noi, ma per tutta la Democrazia Cristiana e come tale dovrebbe essere recepita dalla maggioranza. La nostra vocazione non è di rimanere istituzionalmente in minoranza; ma se ciò fosse non dobbiamo esimerci dallo stringere rapporti con movimenti e tendenze democristiani di altri paesi, soprattutto dell’America latina. E ciò non per una doverosa solidarietà, ma per un fatto di crescita reciproca. Non possiamo accettare certe confuse concezioni dell’internazionale democristiana, quasi per coprire le diversità di posizioni con una sorta di centrale ideologica, ma dobbiamo rispettare la comune ispirazione tenendo tuttavia conto delle diversità storiche e politiche dei vari partiti che operano in paesi con caratteristiche e problemi certamente non identici.
Esiste, inoltre, una stretta correlazione fra politica estera e politica interna. Andare verso l’Europa e costruire la pace significa rivedere certe strutture anacronistiche interne. Bisogna riconoscere l’obiezione di coscienza, istituire il servizio civile, operare una riforma democratica dell’esercito. Si tratta di problemi aperti, non dissociabili da coraggiose scelte di politica estera. E su di essi va richiamato il concorso delle opposizioni, e di quella comunista in particolare. Su questi problemi deve misurarsi una classe dirigente responsabile e si deve operare, come si è detto, il chiarimento interno per rendere possibile una diversa e qualificata iniziativa della Democrazia Cristiana. A tale scopo le conclusioni politiche del convegno verranno riassunte in un apposito documento, mentre credo di interpretare il pensiero di molti nel proporre un convegno specificamente inteso a esaminare i problemi dei terzo mondo, che in queste giornate abbiamo toccato solo per memoria, e che invece richiedono un approfondimento e un impegno politico non certo secondari.
10-11 maggio 1969
LUIGI GRANELLI