CONFRONTO NELLE ISTITUZIONI
Non è che non voglio perdere il diritto alla relazione, ma nemmeno all’intervento di domani mattina su quella dell’amico De Mita che, presentandosi come quella forse di maggiore attualità, dovrà essere al centro della nostra attenzione. Quindi non voglio pregiudicare con questo intervento l’apporto che cercherò di dare a questo convegno. Però mi pare che le cose che sono state dette dovrebbero costituire anche uno stimolo, una provocazione, al nostro amico Martinazzoli, per tirare fuori un poco di più nella replica di quanto non abbia detto nella relazione. Perché credo che sia un fatto di pigrizia o di pressione bassa che lo abbia portato ad essere schematico all’inizio. Darò allora il mio contributo proprio in termini provocatori, per vivacizzare, non scaldare, il convegno che è già sulla strada giusta, mi pare. Un primo problema che vorrei liquidare subito – e qui mi interesserebbe molto il parere di Martinazzoli – è questa continua ripetitiva polemica che esiste in Italia da anni sul valore della costituzione. Lo abbiamo fatto tanti anni fa; torna ancora: si può cambiare, non si può, se si cambia dove si va, e così via. E’ un discorso che è sempre di attualità, che i costituzionalisti più sofisticati fanno con riferimenti precisi ed espliciti, contrapponendo la costituzione italiana a quella di Weimar. Quella di Weimar, più perfetta, più organica, meno contraddittoria, che risentiva meno della tempesta politica nel momento in cui fu realizzata; e la nostra, dove esistono contraddizioni, stonature legate al tempo in cui la costituzione è stata realizzata ma che è ricca di un humus politico storicistico e di grande importanza che ne affonda le radici nel popolo, nelle forze reali del paese.
Ora, a me sembra che non è sul terreno della astratta ingegneria costituzionale che bisogna risolvere questo problema. Esso è essenzialmente politico. Le forze che hanno fatto la costituzione sono le forze che possono realizzarla e sono le forze che possono persino cambiarla, perché la costituzione è la struttura materiale entro cui si organizzano la vita politica ed il progresso di un popolo. Da questo punto di vista, non dobbiamo avere dei tabù sotto il profilo della ingegneria costituzionale. Così non possiamo pensare che l’attuazione della costituzione è affidabile per decreto ad un governo che governi con l’assenza delle forze politiche che devono essere coinvolte: notate bene, a livello della costituzione e dello stato coinvolte, e non nel gioco meccanico delle alternanze di governo. E anche questo è un problema che dobbiamo assolutamente chiarire. Forse si dimentica troppo in fretta in Italia. E su questo tema specifico dovremmo ricordare che è stato archiviato troppo in fretta il convegno che facemmo anni fa sul patto costituzionale. Il patto costituzionale, quando lo lanciammo, non fu una formula di governo. Ed ancora oggi, quando immaginano di vedere nell’accordo a sei qualche cosa che, con ritardo come capita spesso, si ricollega al patto costituzionale, non hanno capito nulla. Perché il patto costituzionale significava e significa che, di fronte ai problemi dello stato e di fronte ai problemi di solidarietà in generale, non gioca l’alternativa delle formule do governo, ma si gioca l’impegno complessivo di tutte le forze storiche che sono responsabili di fronte al paese di un autentico pluralismo, non nei libri, ma nella vita concreta.
Bisogna però assolutamente, che il discorso sulle alternanze di governo che possono esistere ma sono una novità in Italia sulla quale dobbiamo attentamente riflettere, sia chiarito. Non è casuale che la storia italiana, da Cavour a Giolitti a De Gasperi a Moro, sia sempre stata una tradizione politica consociativa, non legata ad alternanze formali di potere.
E su questo mi soffermerò soprattutto oggi rispetto al bipartismo predicato dal politologo Galli che è in crisi, invece, in tutta Europa, mentre l’Europa guarda all’Italia con un interesse diverso dal passato e scopre che nel nostro paese ci sono cose che meritano di essere seguite con maggiore attenzione. Il problema delle alternanze o no di potere o di governo non è quello che può confondere il tema fondamentale dello stato. Dobbiamo dire che, se avessimo avuto coraggio in passato e, attraverso il patto costituzionale, anche tra governo ed opposizione avessimo trovato l’intesa non sui lombrichi ma sull’oro che Wagner stava cercando, cioè sul modo di trasformare e regolare lo stato, forse anche le congiunture difficili che sono giunte e che ci hanno portato all’accordo a sei, sarebbero state meno drammatiche e meno difficili, comunque meno ambigue.
Allora la mia domanda conclusiva a Martinazzoli è questa: l’attuazione della costituzione non implica persino momenti di reinvenzione costituzionale? Anzi, questi si imporranno assolutamente. Se io immagino la proiezione del rafforzamento istituzionale europeo, che è un modo diverso dal passato di fare l’Europa – la crisi europea oggi è in crisi di carenza istituzionale – non c’è dubbio che le istituzioni europee implicheranno un ripensamento, una revisione di tutte le istituzioni statali del paesi membri della comunità. Basterebbe riflettere se dovesse essere approvato il principio contenuto nella relazione Tindeman di fare la seconda camera degli stati accanto al parlamento europeo eletto direttamente, per capire che effetto questo avrebbe sui sistemi giuridici dei singoli stati.
Quindi fantasia di innovazione costituzionale, disgelo della costituzione non solo nel senso della sua attuazione ma anche nel senso del suo cambiamento: non solo è necessario prevederlo, ma sarà un portato della evoluzione storica. Allora, vogliamo ripristinare noi qui il punto centrale del costituente, che fu quello di immaginare le strutture giuridiche costituzionali al servizio della società, e non viceversa?
E allora mi consenta l’amico Misasi di fare una osservazione al suo intervento. Chi meglio di noi, che nella democrazia cristiana abbiamo rappresentato sempre un poco gli eredi del pensiero liberal-democratico e, insomma, non ci richiamiamo soltanto a Sturzo, ma anche a Manzoni, e sappiamo che cosa vuol dire il cattolicesimo liberale rispetto al sanfedismo, all’integrismo, anche a tutte le cose, magari di sinistra, che sull’onda dell’integrismo vanno verificandosi; che meglio di noi non può dire che siamo eredi, dal punto di vista della concezione dello stato, anche della posizione positiva della liberal-democrazia? Ma attenti, perché il limite della posizione liberaldemocratica è quello garantista, è quello metodologico, è quello istituzionale, mentre la conquista della resistenza è che sono state le grandi forze portatrici di altri valori che si sono messe sulle spalle anche altri valori liberal-democratici venuti dalle tradizioni precedenti. Non a caso nella nostra costituzione, non c’è soltanto la cancellazione della parentesi fascista così come l’aveva immaginata Croce, ma ci sono ipotesi di intervento in economia, di riorganizzazione dello stato, di democratizzazione del potere, cioè ci sono anche cose che dovevano essere costruite in futuro, non previste, ma che hanno al loro centro non solo la democrazia come sistema, ma la democrazia come trasformazione e cambiamento della società. Con un limite: che è quello della non pretesa alla egemonia da parte di nessuno. Oggi c’è un limite alla egemonia, ma forse che la egemonia non venne battuta dalla costituente? Forse che le forze di sinistra, nell’apporto che hanno dato per la elaborazione della carta costituzionale, non hanno fatto rinuncia ad una visione settaria, manichea, unilaterale e totalizzante della costruzione socialista dell’economia e dello stato? Forse che i cattolici che hanno dato il maggior contributo all’elaborazione della carta costituzionale, da Moro a Rossetti a Fanfani a La Pira a tanti altri, non hanno fatto rinuncia ad una concezione integralista e cristiana dello stato per introdurre alcuni elementi di solidarismo e di difesa della persona importanti? Non è proprio nell’autoregolazione rispetto all’abbandono di pretese egemoniche che c’è nella costituzione il valore non solo della liberaldemocrazia, ma delle grandi forze popolari e storiche che costruiscono una società diversa nel metodo della libertà e del pluralismo? Questo allora è più importante degli accordi di governo, non so se nell’accezione che usa solitamente il presidente del consiglio, ma certamente in quella che possiamo usare noi, cerchiamo di trovare delle identità tra il momento attuale e il momento della costituente, che non sono le identità delle formule di governo. Non è il fatto che c’è l’accordo a sei oggi, come poteva esserci in passato. L’accordo a sei è sulla difesa economica, sulla ripresa, sulla difesa delle istituzioni, sulle cose importanti per salvare l’esistente ma non per costruire il futuro. Se c’è un compito nostro, è quello di evitare di immaginare che salvato il salvabile nel presente, si torna alle risse del passato o al riformismo del centro sinistra. Per salvare il presente, bisogna riprendere con lena, nello spirito della costituzione, la ricostituzione dello stato, l’affermarsi della democrazia delle grandi forze popolari sulla scena politica, cioè una stagione nuova e diversa che non esclude la compartecipazione a livello di responsabilità anche di un partito comunista che segua con coraggio il suo revisionismo. Per questo dobbiamo essere più forti rispetto a coloro che dicono: “Facciamo l’accordo a sei, e poi tanto, quando abbiamo incassato l’incassabile, ritorneremo finalmente all’isolamento di una parte delle forze popolari ed al potere esclusivo da parte di altre forze popolari”. Noi dobbiamo opporci a questo. E allora il discorso sulla costituzione più che sul governo, non è un discorso di ingegneria costituzionale – so che Martinazzoli raccoglierà questo invito -, ma è un discorso di grande prospettiva e tensione politica. Nel momento in cui anche tra i marxisti è aperto il discorso sul pluralismo, è aperto il discorso sulle libertà individuali, sulla economia mista, sulla maniera diversa di concepire la comunità e lo stato, sarebbe veramente grave che noi cercassimo l’accordo o contenessimo l’accordo proprio per fare pagare le tasse o contenere le tasse, contenere i salari, fare funzionare in qualche modo l’economia quando il nostro compito è quello di riprendere lo spirito della costituzione non per attuare una carta scritta ma per costruire uno stato corrispondente alla volontà del popolo nel suo insieme.
SECONDA RELAZIONE
L’EUROPA CI ATTENDE
Come è risultato già questa mattina, il nostro non è un convegno prefabbricato. Intervenendo un po’ tutti abbiamo confermato la nostra predisposizione a vedere in questo incontro soprattutto un modo di tornare al dibattito delle idee del quale si sente da tempo la mancanza, non solo nel nostro partito, ma anche nel rapporto tra i partiti, che, forse preoccupati dal dovere di mantenere l’equilibrio politico raggiunto, tendono ad accantonare i temi difficili e a convergere soltanto sulle cose possibili, determinando forse più paure e sospetti del necessario nell’opinione interna e internazionale.
La mia relazione continuerà sul filo di questa impostazione un poco inconsueta rispetto al programma stabilito. Da un po’ di tempo a questa parte, soprattutto dopo che è stato annunciato che ci saranno presto le elezioni dirette a suffragio universale per il parlamento europeo, non c’è convegno o manifestazione nel quale non si introduca, quasi per dovere d’ufficio, una relazione sull’Europa, sul futuro parlamento europeo, sulle scadenze che ci attendono, come a sottolineare che il tema europeo è un tema parallelo che non si può ignorare, ma è diverso da quello invece più pressante che è il tema politico nazionale.
La mia relazione intende infrangere questo cliché, rovesciare questa moda, nel senso the parlare d’Europa nel convegno nostro non significa metterci all’occhiello un fiore da tutti ormai considerato assolutamente necessario, ma è un modo per guardare da un lato all’Europa con attenzione alla situazione italiana, e dall’altro per rintracciare nell’Europa a nella situazione italiana il filo di una presenza ideale e politica della democrazia cristiana che sia più vigorosa ed energica di quanto fin qui è stato possibile.
Vi è un collegamento stretto tra le cose the abbiamo detto questa mattina e quelle the cercherò di dire oggi, net corso della relazione. Infatti io ho visto richiamato in qualche misura il problema europeo nelle conclusioni che Martinazzoli aveva tratto dal dibattito di stamane, quando aveva delta the il dissenso tra di noi non é sul confronto, sull’accordo a sei, sulla necessità di non tornare ad non scontro frontale in Italia, ma è semmai una diversità animata dalla tensione di portare questo confronto ad un livello più alto, di non guardare soltanto ai problemi delta congiuntura economica o della difesa dall’eversione delle istituzioni democratiche, ma di riprendere il dibattito sul terra generale delle istituzioni, dello stato, della società. Ed è naturale che se vogliamo alzare il livello, avere un confronto serio con le altre forte politiche, i temi della politica estera per troppo tempo considerate come temi da specialisti, o argomenti the “non c’entrano”, hanno invece un posto di primo piano, e parlare di Europa significa parlare di politica estera, di collocazione generale dell’Italia sul piano internazionale, significa chiamare non solo noi ma tutti i partiti, tulle le forze politiche, a sprovincializzarsi rispetto a scadenze che non sono soltanto elettorali.
La necessità di dare al confronto un peso specifico maggiore nasce anche dalla necessità di collegare i temi interni, la situazione politica, il nostro modo di atteggiarci rispetto agli altri partiti, con la situazione internazionale a con i temi delta costruzione europea. E’ inevitabile, nel quadro di questi problemi, fare riferimento a De Gasperi che, pur collocandosi nella lunga tradizione che stamattina ho definito di Cavour, Giolitti, De Gasperi a Moro, cioè la tradizione degli statisti che hanno visto come essenziale a preminente l’allargamento della base popolare attorno alle istituzioni per dare ad essa forza a prestigio, non è certo rimasto prigioniero del conformismo di questa pur importante scelta di solidarietà nazionale tra le forze politiche. Nell’esperienza politica di De Gasperi vi sono infatti almeno due passaggi di grande rilievo: De Gasperi è stato il primo leader cattolico che dopo la resistenza ha formato un governo di coalizione con il partito comunista a con le altre forze popolari uscite dalla resistenza e tuttavia, dopo la rottura del ’47, non essendo ancora completata la carta costituzionale, accettò che la parte finale, quella relativa all’ordinamento regionale, fosse realizzata attraverso la mediazione che il segretario della democrazia cristiana dell’epoca, on. Piccioni, fece tra i partite al governo e i partiti all’opposizione. De Gasperi sapeva cioè mantenere, al di là delle formule di governo, il massimo di solidarietà possibile attorno alto stato a alle istituzioni. Perciò quando si è trattato di gettare le fondamenta non integraliste, ma larghe, popolari e pluraliste dello stato all’assemblea costituente, non ha esitato a ricorrere alle collaborazioni più ampie. Quando il sopravvenire di una crisi internazionale ha portato al rischio di una compromissione della collocazione internazionale dell’Italia, al rischio di una perdita delle libertà interne a della democrazia parlamentare, non ha esitato a rompere una collaborazione the poteva diventare pericolosa. E pur operando la rottura col PCI non si è fatto catturare dalla spirale dell’alternativa destra-sinistra che avrebbe confinato la DC in un ruolo innaturale, non corrispondente alle sue tradizioni storiche. Evitando cosi gli schematismi degli ingegneri costituzionali, che concepiscono solo l’alternanza classica, De Gasperi ha dimostrato con la sua politica di Centro orientata verso sinistra senza cedimenti sui valori della democrazia che è possibile evitare una identificazione arbitraria della formula di governo con il problema dello stato. Le formule di governo, quando sono il prodotto di motivazioni politiche a di larga convergenza valide, non sono la conseguenza del conformismo come vorrebbero i sostenitori delta teoria dell’alternanza, ma la evoluzione di una strategia di lungo periodo.
Come abbiamo visto per le scelte fondamentali di De Gasperi, l’intreccio tra politica interna a politica internazionale è un intreccio fondamentale che non possiamo dimenticare nel momento in cui avviene un confronto impegnativo tra la democrazia cristiana, le forze socialiste a laiche ed il partito comunista nel nostro paese a mentre l’Europa arriva al traguardo delle elezioni dirette a suffragio universale del parlamento europeo. D’altra parte non è casuale che mentre noi diciamo che nella rottura del ’47 vi è la verifica di un comportamento di metodo a di sostanza della DC, sia nel concepire le alleanze, sia nell’immaginare la reversibilità, sia nell’evitare di farsi chiudere in un ruolo innaturale di cerniera delta destra contro la sinistra, vi è invece ancora oggi una certa riluttanza da parte del PCI, a riconsiderare con maggior rigore critico gli episodi del 1947. Molti tra i comunisti continuano a ritenere che la rottura del ’47 è stata una furba manovra delta DC per avviare una politica di regime a per agganciarsi alla coalizione di forze internazionali tendenzialmente volte ad assediare l’Unione Sovietica con tutti i rischi dì guerra connessi a questa manovra. Senza una tale rottura, l’Italia avrebbe perciò potuto seguire, secondo i criteri della scelta europea a atlantica, un pacifico cammino di sviluppo di paese quanto meno non allineato.
La scelta europea ed occidentale di De Gasperi, che fu aspramente contestata da tutta la sinistra italiana ed ebbe alla camera una durissima opposizione da parte del partito comunista italiano quando venne in discussione il patto atlantico, non fu al contrario una manovra tattica né una scelta di aggressione, ma un’opzione fondamentale che ha avuto effetti positivi per il nostro paese a per lo stesso equilibrio internazionale. Non lo dico per scopi polemici o propagandistici, ma per confermare una oggettiva verità storica: oggi è lo stesso PCI che afferma autorevolmente che il posto dell’Italia è nell’Europa occidentale, a che le stesse vie nazionali al socialismo e al comunismo nei paesi industrializzati dell’occidente sono meglio garantite da un equilibrio di forze quale quello presente nel patto atlantico che non dall’equilibrio di forze del patto di Varsavia.
Vi è in ciò la conferma che De Gasperi, con la scelta del ’47, non pensava né al regime democristiano né alla guerra, ma alla salvaguardia politica ed istituzionale delle condizioni interne e internazionali che avrebbero consentito lo sviluppo della democrazia nel nostro paese, e che di fatto hanno consentito anche al partito comunista di godere di una maggiore autonomia internazionale e di riconoscere addirittura che il sistema politico dell’Europa occidentale non è antagonistico al suo modo di procedere democraticamente sulla via nazionale al socialismo.
L’accenno a questi precedenti mi consente di introdurre il discorso sull’Europa in termini più schiettamente politici. Eviterò tutta una serie di argomenti che ho sviluppato in altre occasioni e che nei prossimi mesi saranno all’ordine del giorno. Prossimamente dovremo approvare in Italia la legge elettorale per l’elezione a suffragio diretto del parlamento europeo; entro ottobre dovrà essere completato il programma del partito popolare europeo, che riunisce in federazione tutu i partiti democratici cristiani della CEE, in dicembre si terrà il congresso di questo partito a perciò avremo nei prossimi mesi tante occasioni per entrare nel merito di come noi democratici cristiani, in coerenza con la nostra tradizione, vogliamo costruire l’Europa.
Mi limiterò perciò al significato politico contenuto nella decisione dì andare alle elezioni europee. L’amico Pistelli disse una volta che nella democrazia cristiana i pochi partiti che si occupano di politica estera sono a volte considerati dei maniaci che inseguono loro visioni particolari. In realtà più si va avanti e più ci si rende conto dell’importanza della politica estera anche per la politica interna. È perciò motivo di vanto ricordare che già nei primi anni del dopoguerra la DC italiana aveva impostato con chiarezza la sua collocazione internazionale nel quadro del problema europeo. È bene però dire subito che le elezioni europee sono una incognita. Certamente il passaggio da un sistema indiretto di elezione del parlamento europeo ad un sistema diretto che coinvolge popoli, forze politiche, forze sociali, dà una spinta in avanti all’Europa politica, ridimensionando l’Europa dei tecnocrati, delle oligarchie finanziarie, dei prevalenti interessi economici. Ma ciò non significa che automaticamente si fa l’Europa. Vi è una rivincita del politico, una ripresa della consapevolezza, che era presente nei “padre fondatori” nei prime anni del dopoguerra, della priorità delle scelte politiche sulle scelte economiche.
Con l’istituzione della comunità europea del carbone a dell’acciaio (CECA), De Gasperi, Schumann e Adenauer avevano infatti voluto la prima autorità sovranazionale europea, ma con la successiva caduta del progetto di comunità europea di difesa (CED) nel parlamento francese sembrava che il tentativo di costruire politicamente l’Europa fosse ormai destinato al fallimento. La ripresa delta politica europea si ebbe nel 1957 con la firma dei trattati di Roma che istituivano la comunità economica europea (CEE), pagando però il prezzo dell’accantonamento degli obiettivi ambiziosi di integrazione politica, a ripiegando su obiettivi ritenuti più concreti e più realistici, quali la eliminazione dei contingentamenti nel commercio intraeuropeo, la riduzione dei dazi doganali, la convertibilità delle monete, allo scopo di creare un mercato di vaste dimensioni che potesse risultare competitivo rispetto ai grandi mercati degli Stati Uniti e dell’Unione sovietica. Non vi è dubbio che il mercato comune europeo é stato in quel momento una scelta positiva e coraggiosa, ha consentito l’espansione degli anni ’60, ìl famoso “miracolo economico” italiano e la crescita sostenuta di tutte le economie europee. Tutti coloro che avevano sostenuto che anche ai fini dell’integrazione economica era necessario un minimo di unità politica, una base istituzionale comune, un centro di decisione sopranazionale venivano gratificati di idealismo a di ingenuità, perché a favore dell’integrazione economica tout court parlavano ormai le cifre, le statistiche, i grafici sempre protesi verso l’alto.
A partire dalla fine del 1973, come tutti sappiamo, la situazione si è pesantemente deteriorata a la crisi non è passeggera. L’aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi é infatti irreversibile a si estende alle altre materie prime di cui la CEE è forte importatrice. D’altro canto le misure monetarie americane hanno definitivamente liquidato il sistema dei cambi fissi (Bretton Woods) su cui si reggevano i pagamenti mondiali dalla fine della guerra, ed hanno introdotto il sistema dei cambi fluttuanti che, data l’instabilità del sistema economico mondiale e la rivoluzione avvenuta nei flussi finanziari appunto per la quadruplicazione in un breve periodo di tempo del prezzo del petrolio, provoca un ulteriore aumento della instabilità.
Per tali motivi lo sviluppo europeo si è interrotto a si è manifestata addirittura una tendenza alla recessione. La CEE, che aveva raggiunto negli anni ’60 il pieno impiego ed aveva attirato dai paesi extra comunitari diversi milioni di manodopera tunisina, jugoslava, turca, greca, spagnola, portoghese, ha raggiunto negli ultimi tre anni una media quasi costante di sei milioni di disoccupati a si tratta spesso di disoccupazione intellettuale e di buon livello tecnico. L’unione europea monetaria, vanto dei primi anni di integrazione, è ora frantumata in due aree monetarie: il “serpente” con la coda sempre più corta, e l’area delle fluttuazioni fuori dal serpente, con complicazioni tecniche ed economiche sugli scambi commerciali soprattutto per il mercato agricolo ed oneri e vantaggi maldistribuiti fra le singole agricolture nazionali.
Le difficoltà che ogni paese sta vivendo, sia pure con diverso peso e intensità, hanno fatto risorgere gli egoismi nazionali che sembravano attenuati negli anni dello sviluppo. E non sono stati messi in funzione nemmeno quei meccanismi previsti dai trattati di Roma che avrebbero potato portare alla concentrazione delle misure monetarie da parte dei paesi della comunità. Basti pensare che la comunità europea, che contribuisce al 50% del commercio mondiale, è nel suo complesso attiva verso l’esterno, ma in realtà non ha né una politica commerciale, né una politica monetaria, né una politica degli investimenti comunitaria. Così i paesi con bilancia dei pagamenti in deficit sono obbligati ad attuare una severa politica di austerità, e paesi con bilancia in attivo non sanno come e dove investire le loro eccedenze finanziarie (come è noto i finanzieri non sono dei benefattori). E’ in crisi infatti non soltanto il sistema produttivo nei suoi meccanismi di sviluppo, ma il modello di sviluppo net suo insieme, per cui sempre più ci si chiede cosa produrre, come produrre, dove collocare la produzione, come rinnovare i rapporti tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Anche il presidente Carter ha confermato nel suo discorso al fondo monetario internazionale che nemmeno i paesi prosperi possono illudersi di continuare ad evolvere nella prosperità se continueranno ad essere assediati da miliardi di uomini affamati, che quantomeno non possono rappresentare un mercato interessante per i paesi industrializzali. Fatte le debite proporzioni, anche i paesi europei non potranno riprendere un cammino di stabile progresso senza una politica economica comunitaria che indirizzi a fini di riequilibrio le ingenti risorse economiche finanziarie a di manodopera esistenti all’interno della comunità.
Paradossalmente, questa crisi rappresenta la rivincita dei “padri fondatori” dell’Europa rispetto alla illusione tecnocratica ed economicistica che riteneva fosse sufficiente integrare i mercati per far sortire l’Europa politicamente unita. Oggi abbiamo la prova che senza potere politico, senza decisioni politiche sovranazionali, l’Europa non solo non nasce ma rischia di andare in crisi, risorge il protezionismo, da cui può essere assai breve il passo verso la degradazione autarchica. La crisi ha operato questo rovesciamento di tendenza per cui si è compreso the la unione politica e monetaria, il rafforzamento delle istituzioni della comunità, non sì realizzeranno quasi automaticamente quando la integrazione economica avrà raggiunto i suoi risultati, ma sono la premessa, la condizione, lo strumento per dominare la crisi economica stessa.
La crisi economica produce poi inquietanti conseguenze politiche. L’amico Marcora, ministro dell’agricoltura, sa bene che se l’’Europa non modifica la politica agricola e i meccanismi protezionistici che favoriscono le produzioni agricole settentrionali, sarà difficile se non impossibile dare una risposta positiva all’allargamento della comunità verso i paesi del Mediterraneo che hanno fatto domanda di adesione. Una risposta negativa sarebbe, prima ancora che una sconfitta economica, una grave sconfitta politica che appannerebbe gravemente la nostra immagine internazionale. Per anni abbiamo emarginato questi paesi per condannare i regimi autoritari e fascisti da cui erano dominati. Grecia, Spagna a Portogallo si sono liberati dai regimi che li opprimevano: è politicamente possibile rifiutare loro l’ingresso nella Comunità europea perché non sono abbastanza ricchi, perché le loro agricolture creerebbero troPPE complicazioni al mercato agricolo comune?
Tutti i problemi cui ho accennato sia pur schematicamente postulano, per la loro soluzione, un rafforzamento politico della comunità, un aumento di poteri decisionali europei. Eleggere il parlamento europeo, rilanciare 1’Europa, significa riprendere così come i “padri fondatori” dell’Europa avevano intuito, il cammino politico verso la costruzione europea, cioè verso la costruzione di una comunità che non sia solo fondata sul libero scambio, che non abbia solo il mercato agricolo comune, ma si preoccupi della politica industriale, della ricerca scientifica, dello sviluppo tecnologico, che abbia un atteggiamento comune nelle grandi questioni internazionali, sia nei rapporti con le grandi potenze che con i paesi del Terzo Mondo.
Naturalmente vi è poi chi sostiene che la situazione economica in Europa é oggi troppo gravemente compromessa perché si possano impostare programmi ambiziosi di rafforzamento delle istituzioni comunitarie. Nessuno di noi immagina di riproporre oggi, come se nulla fosse cambiato, le posizioni dì De Gasperi, Schumann a Adenauer. Tuttavia al loro insegnamento possiamo richiamarci almeno in una cosa: quando hanno affrontato il tema dell’Europa non si trovavano certo in una situazione facile. Era appena finita una guerra disastrosa, la tragedia del fascismo e del nazismo aveva squassato il continente, l’espansionismo sovietico si stava estendendo su metà dell’Europa, le industrie nazionali superstiti dovevano essere riconvertite dall’autarchia a dalla produzione bellica, i rifornimenti alimentari a di materie prime erano scarsi a irregolari, eppure questi statisti non hanno rimandato a tempi più felici le loro scelte coraggiose. Hanno scelto proprio per la gravità della situazione. Hanno deciso di gettare le fondamenta di una Europa alla quale pochi credevano proprio per evitare nuove guerre, nuove autarchie, nuovi protezionismi.
Possiamo noi oggi aspettare la ripresa economica per rilanciare il discorso politico dell’Europa? Oppure possiamo immaginare the sia sufficiente eleggere direttamente il parlamento europeo perché gli ostacoli che si frappongono alla costruzione dell’Europa siano superati? Sappiamo bene che ogni evoluzione richiede impegno, responsabilità, volontà. L’Europa non è un tema da programmi avveniristici o da slogan propagandistici, ma é un tema specificamente politico. Eleggere un parlamento europeo significa dare voce nella istituzione più importante dell’Europa a tutte le grandi correnti politiche e ideali che esistono nel nostro continente. Ciò significa affrontare il tema specifico, politico, dello scenario entro il quale un parlamento eletto democraticamente potrà o meno riprendere il cammino politico della costruzione europea e risolvere i problemi drammatici cui prima abbiamo accennato.
In questi ultimi tempi si parla motto di eurocomunismo, eurocattolicesimo, euroconservatorismo, cercando di coniugare l’idea europea con una serie di formule che nascondono una radice ideologica di stampo integralista. Un tale modo di guardare all’Europa è ad un tempo ambiguo ed evasivo. Non possiamo infatti immaginare 1’Europa come una occasione per sottrarci alla durezza delle nostre realtà nazionali ed entrare in una specie di oasi dove saremmo protetti. Come d’altra parte non possiamo continuare indefinitamente nello sterile dibattito sull’eurocomunismo: se esiste, se è sincero, se durerà. Condivido una bella battuta di un autorevole commentatore di politica estera francese, il quale ha detto the l’eurocomunismo é come l’eurodollaro: circola in Europa, può darsi the frutti in Europa, ma è sempre dollaro. Così per l’eurocomunismo: circola in Europa, manifesta la sua intenzione di seguire una via utile all’Europa, ma sempre comunismo è. Questo non lo dico per eccitare un facile anticomunismo, ma per contrastare quelle posizioni che non a caso sono prevalentemente o radicali o laico borghesi o socialiste, che si dipingono a loro maniera un eurocomunismo socialdemocratico da inglobare in una alternativa di sinistra, e quando scoprono che i comunisti non sono come dovrebbero essere, concludono che con i comunisti non è possibile collaborare. Ma siccome neppure con la democrazia cristiana è possibile collaborare, ecco che si conclude sbrigativamente che l’Europa o sarà socialista o non sarà.
In realtà ogni partito è condizionato, anche nella sua impostazione europeista, dalla sua situazione nazionale. Tutti coloro che frequentano il parlamento europeo sanno come su molti problemi in discussione i comunisti italiani hanno un atteggiamento europeo, mentre i comunisti francesi hanno uno spirito più nazionalistico. Sono profondamente convinto che sulla evoluzione europeista dei comunisti italiani ha influito la presenza di forze politiche sinceramente europeiste come la democrazia cristiana ed i partiti laici a socialisti. Come la situazione interna determina gli atteggiamenti nella comunità, così la presenza nella comunità influenza gli atteggiamenti complessivi dei partiti anche a livello nazionale. Per questo non mi sento di accettare quella posizione che fa spesso degli italiani i “piagnoni” della famiglia europea. La Malia dipinge a volte l’immagine di un’Europa tutta moderna, efficiente, pulita, funzionante, dietro la quale si affanna ansimando una Italia che ha i piedi affondati nel Mediterraneo. Intanto, solo per fare un esempio, la corsa ad un meschino e anacronistico protezionismo è stata il più delle volte guidata da paesi europei ricchi che agivano nel loro assoluto interesse nazionale. Inoltre in tutti gli ambienti europei si è incominciato negli ultimi mesi a guardare alla situazione politica italiana, anche in vista degli sviluppi futuri dell’Europa, con maggiore attenzione e minor superficialità. Prima del 20 giugno l’opinione corrente in Europa era che 1’Italia fosse quasi alla fine delle sue esperienze democratiche, alla deriva, in rovina. Ora sono costretti a constatare che è stata realizzata una certa tregua politica, una certa tregua sindacale, che le nostre istituzioni democratiche hanno una insospettata capacità di tenuta, che vi sono alcuni elementi politici interessanti anche per altri paesi europei. Altri paesi infatti hanno problemi di destabilizzazione politica. In Francia la spaccatura che si è determinata nel fronte delle sinistre, che si pensava ormai prossimo alla vittoria elettorale, si riflette specularmente nelle diversità di fondo tra Chirac e Giscard d’Estaing nella maggioranza. Il sistema elettorale costringe le forze a raggrupparsi, ma le differenze permangono e non favoriscono di molto la governabilità. In Inghilterra i grandi partiti classici della tradizione anglosassone del bipartismo, i conservatori e i laburisti, sono di fatto condizionati dal piccolo partito liberale di cui riducono la consistenza reale con un sistema elettorale ingiusto ma del quale sono poi costretti a subire le conseguenze. In tal modo il bipartismo consente ai laburisti di fare i conservatori quando sono al governo e conservatori di fare i laburisti quando sono all’opposizione, alternandosi al potere in una linea sostanzialmente immobilista, con scarsi margini di evoluzione a di cambiamento. Anche in Germania il piccolo partito liberale condiziona i socialdemocratici a Bonn e i cristiano democratici dei “lander”, rendendo artificiosa la dialettica politica a alterando il significato della stessa alternanza al potere. Olanda a Belgio, dal canto loro, sono andati alle elezioni anticipate pensando in quel modo di risolvere i loro problemi come anche da noi qualcuno incautamente suggeriva. In Olanda sono passati ormai mesi dallo svolgimento delle elezioni a ancora non è stato possibile formare il governo, in Belgio dopo mesi di difficili trattative Tindemans è riuscito a risolvere la crisi realizzando un accordo su temi da arco costituzionale (problemi regionali e linguistici) più che di normale gestione governativa. Il Lussemburgo è stabile anche se il nostro amico De Carolis, che è poco informato, ritiene the il primo ministro sia ancora il democristiano Werner, mentre invece è il liberale Thorn. Gli accenni che ho fatto mostrano che anche i sistemi bipartitici non vivono di perfetta salute politica, o perlomeno devono organizzarsi delle solidarietà non rigorosamente previste per fronteggiare crisi assai profonde; in questo quadro anche il sistema politico italiano che cerca le convergenze possibili, che premia la solidarietà nazionale, può rappresentare anche per l’Europa un’utile indicazione e non una eccezione perversa.
Vorrei soffermarmi un momento sulla crisi francese perché sono convinto che la rottura tra Marchais e Mitterand non è di poco conto. Non credo alle grandi manovre di Mosca che usa Marchais per aiutare Giscard, a trovo insufficiente il disappunto puramente moralistico di Craxi, la cui analisi non va al di là del gettare la colpa tutta sui comunisti, quasi facendo credere the per definizione i socialisti non hanno mai colpa. Credo che noi, avendo dedicato tanti anni della nostra attività politica al rispetto a alla valorizzazione del partito socialista italiano, possiamo assumere anche un atteggiamento critico severo nei confronti di taluni atteggiamenti socialisti degli ultimi tempi. I socialisti italiani, infatti, vedevano nella affermazione in Francia della sinistra guidata da Mitterand la realizzazione del loro “slogan” dell’alternativa socialista, e quindi un motivo in più per riproporre in Italia una tale politica. Tuttavia la rottura tra Marchais a Mitterand non è avvenuta per una crisi di nervi, ma per obiettivi contrasti di fondo. Da quando la crisi economica ha mostrato chiara mente assai i suoi connotati strutturali, la filosofia del “welfare state”, del riformismo socialdemocralico classico, ha cominciato a mostrare le sue carenze come risposta ai problemi del mondo contemporaneo. In Svezia i socialdemocratici hanno perso le elezioni, in Germania hanno una maggioranza ridottissima, in Inghilterra i laburisti sono ancorati ad un patriottico antieuropeismo (del quale nessuno dei socialisti continentali sembra preoccuparsi minimamente). Questa crisi è dovuta al fatto che il riformismo socialdemocratico presuppone una economia che si espande a pieno ritmo, una produttività in aumento che consente di finanziare la crescente spesa pubblica per il “welfare state”. La crisi economica riduce lo spazio dell’assistenzialismo a del paternalismo statale e richiede invece sacrifici a austerità; d’altro canto le nuove generazioni chiedono allo stato non l’assistenza “dalla culla alla bara”, ma più libertà, più democrazia, più potere.
Di fronte a queste contraddizioni, mi sembra insufficiente sia la posizione dei socialisti italiani che affermano che l’Europa non può che essere socialista perché il socialismo è modernità, è industrializzazione, è riformismo economico e sociale, in una parola il socialismo è il futuro, sia la risposta di Marchais che rompe con i socialisti francesi sul numero a la qualità delle nazionalizzazioni.
Se infatti i socialisti italiani ed europei cadono in un integralismo più settario di quello di taluni nostri amici di partito. Marchais sembra sottovalutare i dati della situazione economica che deriverebbero da una spaccatura in senso verticale della società francese.
E tuttavia nella polemica di Marchais con i socialisti sulle nazionalizzazioni si avverte un’eco quasi gollista: non a caso il comunismo alla francese è nazionalista, è di fatto contrario all’integrazione europea, pensa di proibire ai parlamentari comunisti francesi eletti al parlamento europeo, al pari degli altri colleghi del proprio paese, di modificare in senso più comunitario i trattati di Roma.
Di fronte a questi molteplici atteggiamenti credo che possiamo avere la tranquilla consapevolezza che anche il nostro partito, la democrazia cristiana italiana, potrà giovare con dignità il suo ruolo net futuro parlamento europeo.
Siamo troppo abituati dalla situazione italiana a non sottovalutare nessuna posizione politica, ad essere realmente, sinceramente pluralisti. Possiamo comprendere la delusione di Craxi e dei socialisti italiani che vedevano nelle elezioni francesi una specie di prova generate dell’alternativa socialista in Italia ma sappiamo anche the Berlinguer è contrario all’alternativa di sinistra, vuole le grandi coalizioni, il pluralismo politico, l’economia mista. Se la posizione di Berlinguer è tanto diversa da quella di Marchais, e a sua volta quella di Carrillo presenta altre connotazioni dovute alla specifica situazione del PCE, ciò significa certamente che l’eurocomunismo non esiste come sistema, ma esistono diverse forme di comunismo nell’Europa occidentale. Tuttavia tra gli elementi di merito della democrazia cristiana – e su questi temi dovremo approfondire il nostro impegno in futuro – vi è la evoluzione seria ed importante che il partito comunista italiano ha compiuto sue temi delta collocazione internazionale dell’Italia e della costruzione dell’Europa.
In Italia la posizione comunista su questi temi è stata teoricamente e politicamente assai dura, a partire dallo scontro tra De Gasperi a Togliatti a proposito dell’adesione dell’Italia al patto atlantico, proseguendo con le discussioni prima e dopo l’istituzione della CEE. La relazione comunista di minoranza (on. Berti), al momento della ratifica alla camera dei trattati di Roma, è di una durezza che non lascia dubbi. Non soltanto vi si affermava the il mercato comune europeo era un modo per ripresentare sotto altra forma la CED con tutti i pericoli di guerra ad essa collegati, ma si sosteneva anche che siccome l’unica Europa possibile era quella dei monopoli l’Italia sarebbe stata inevitabilmente emarginata a sarebbe decaduta ad un rango subalterno.
Qualche mese dopo, Luciano Barca, in un articolo su Rinascita, prendendo a pretesto alcune misure monetarie adottate dal governo francese, chiede formalmente 1’uscita dell’Italia dalla CEE per salvaguardare le nostre già scarse possibilità di sviluppo ed evitare le conseguenze negative dell’integrazione. Nel ’59 Togliatti comincia un poco ad aggiustare il tiro attenuando l’intransigenza della posizione comunista (scendo un poco in dettaglio vedendo molti giovani in sala, perché una rilettura anche delle vicende storiche passate credo sia importante e formativa anche per comprendere i problemi di oggi). Togliatti dunque nel’59 (il che dimostra che il rovesciamento non è tutto di Berlinguer) in un articolo su Rinascita comincia ad avvertire che certamente se nell’Europa occidentale che si é costruita contro la volontà dei comunisti, ci fosse una classe politica che si allea con le classi lavoratrici a rompe l’involucro neocapitalista delle economie occidentali, allora anche il proletariato potrebbe essere interessato alla costruzione di un’ Europa di questo tipo. L’affermazione è molto prudente, ed è accompagnata – in un clima di guerra fredda quale era allora – dalla equiparazione dell’anticomunismo nei paesi europei all’anti-sovietismo sul piano internazionale, il che dimostra che ancora non era stato compreso il significato della rottura del ’47. Però, in polemica con Bevan Mendès-France e Nenni, che si erano riuniti a Londra per rilanciare (anche allora) l’Europa socialista che non teneva conto né dei democristiani né dei comunisti, Togliatti quasi li sfida ad operare i cambiamenti di cui parlano non essendo l’opzione contro la comunità totale ed assoluta, ma suscettibile di cambiamento al mutare delle situazioni. all’occidente
In questa evoluzione della posizione comunista ha certamente influito anche la fermezza con la quale la democrazia cristiana a le altre forze democratiche italiane hanno operato per la costruzione di un’Europa pacifica democratica a pluralista. Dal primo accenno di evoluzione contenuto nell’articolo di Togliatti ad oggi, l’avvicinamento è stato continuo a sensibile, tanto the Reichlin a conclusione di un lungo dibattito sui temi europei pubblicato su Rinascita, può affermare, ed è estremamente significativo rispetto al passato, che per la soluzione dei problemi italiani il collegamento con l’Europa é assolutamente indispensabile, l’alternativa essendo l’autarchia a l’isolamento. La collocazione europea poi non impedisce l’affermazione democratica del potere delle classi lavoratrici. Non diversamente parlano Segre a Napolitano, e addirittura più esplicito è Berlinguer. Ricorderete tutti l’intervista di Pansa a Berlinguer, pubblicata sul Corriere della sera prima elle elezioni del 20 giugno. Il segretario del PCI non solo difende la scelta europea, ma addirittura la scelta atlantica dell’Italia, e non soltanto sul piano degli equilibri militari (che è già un fatto di una certa importanza) perché sconvolgendo gli equilibri militari esistenti si potrebbe ritornare ad un clima di guerra fredda, ma anche come garanzia maggiore per 1’avanzamento verso una via democratica a nazionale al socialismo. Non appartenendo l’Italia al patto di Varsavia, é possibile procedere lungo la via italiana al socialismo senza i condizionamenti di cui soffrono i paesi legato da questo patto. Certo nei paesi occidentali vi sono altri condizionamenti, che però si possono battere con la lotta politica. I comunisti italiani sono consapevoli di ciò che ha rappresentato per la storia del mondo la rivoluzione d’ottobre e la sua vittoria, ma le società che sono nate nell’Unione Sovietica dopo quella vittoria, e nei paesi dell’Est europeo dopo la seconda guerra mondiale, insieme a grandi e positive realizzazioni presentano aspetti che i comunisti italiani considerano in modo critico e che comunque non sono applicabili nei paesi occidentali. E Berlinguer aggiunge che nei paesi occidentali a regime democratico parlamentare non é possibile attuare il socialismo nelle forme attuate altrove.
E’ inutile negare queste evoluzioni positive, come se ci mancassero lo spazio e gli argomenti per un dibattito critico. Nei confronti dei comunisti dobbiamo in primo luogo uscire dal complesso di inferiorità: lo dico con molta franchezza e con molta amicizia anche a Giovanni Galloni. Trovo inutile polemizzare sul piano a medio termine, prendendo a pretesto quello che i comunisti vorranno poi perseguire nel lungo periodo, quando è invece possibile riconoscere i progressi compiuti e insieme mettere in evidenza ciò che ancora deve essere fatto nell’interesse delta democrazia italiana ed europea. I comunisti, come abbiamo detto, sostengono the non esiste l’eurocomunismo perché, avendo teorizzato le vie nazionali al socialismo e il rifiuto delta supremazia internazionale di uno stato guida, non possono evidentemente ricadere in un mininternazionalismo occidentale, cioé in un pool di partiti comunisti dell’occidente, magari in contrapposizione con l’Unione sovietica. Questa spiegazione é certo accettabile, ma a mio avviso non può confinare il PCI nel chiuso delta sua esperienza nazionale, senza confrontarsi dialetticamente con gli altri partiti comunisti occidentali, senza spiegare perché i regimi dell’est europeo non sono applicabili all’occidente democratico. In altri termini è tutto il capitolo della concezione e della dottrina dello stato, della democrazia parlamentare, del pluralismo, della reversibilità del potere, che noi dobbiamo proporre ai comunisti, non come pretesto per negare quello che hanno fatto sin qui, o come processo alle intenzioni, ma per incoraggiarli ad andare avanti sulla strada del revisionismo a tutto vantaggio delta democrazia italiana ed europea.
Se lo scenario europeo è quello che ho tratteggiato, con i diversi comunismi, socialismi, liberalismi, anche la democrazia cristiana può legittimamente confrontarsi ed essere portatrice di tesi significative per tutta l’area europea occidentale. Non ho parlato dei partiti democratici cristiani in Europa, ma mi sembra utile ricordare quanto diceva Tindemans in polemica con Mitterand e Schmid the lanciavano lo slogan dell’Europa socialista: noi non vogliamo l’Europa democratico cristiana (l’euro-cattolicesimo, oltre a trascurare altre importanti confessioni religiose, sarebbe addirittura una contraddizione in termini: ridurre l’ecumenismo a dimensione regionale!) vogliamo sul serio una Europa pluralista, nella quale ci sia spazio per tutti, ma tutti devono misurarsi con le loro idee, il loro passato, le loro tradizioni a la loro volontà di risolvere i problemi. In questo senso non siamo un partito vecchio, con carte stanche e logore da giocare, ma un partito realmente aperto al nuovo, disponibile al confronto, sensibile ai valori del pluralismo.
Non dimentichiamo che almeno nella prima legislatura eletta a suffragio universale non si tratterà di formare un governo europeo, a quindi di fare una maggioranza e stabilire schieramenti contrapposti, ma si discuterà su come fare l’unione monetaria, come combattere la disoccupazione, come riformare il mercato agricolo, come allargare la comunità, quali rapporti tenere con il terzo mondo, come favorire la distensione e la pace. Su tutti questi temi non si formeranno alleanze rigide, ma vi saranno convergenze diverse: per questo è antiquato a antistorico giocare alle formule dell’Europa socialista, dell’Europa carolingia, dell’Europa liberale. La democrazia cristiana italiana a gli altri partiti che si sono uniti nel partito popolare europeo (e che sono soltanto partiti democratici cristiani e non partiti conservatori) devono condurre nel ’78 non una campagna di programmi europei astratti, buoni per tutte le epoche e tutti i luoghi, ma una campagna politica per realizzare veramente nel nostro continente l’Europa del pluralismo. Ricordo lo sdegno col quale De Gasperi respingeva l’idea che alla base della loro scelta – di De Gasperi, Schumann e Adenauer – ci fosse l’idea dell’Europa carolingia. Diceva infatti De Gasperi che in Europa, pur essendo insopprimibili, per ragioni storiche a morali, i valori cristiani, ci sono anche i socialisti, ci sono “fior di massoni”, in Europa sono nate tutte le più grandi tendenze ideali della cultura contemporanea, ma sappiamo che quando una ideologia ha sopraffatto tutte le altre, quando l’integralismo ha preso il posto del dialogo, siamo arrivati alle barbarie, al nazismo, alla negazione dell’Europa. E questo noi non lo vogliamo. Non vogliamo una Europa integralista, di nessun integralismo.
Vogliamo una Europa dove tutte le forze ideali e politiche si misurino sulle cose, convergano o dissentano in libertà, senza paure, senza costrizioni che non siano quelle del rispetto della legge come fondamento del diritto a della civile convivenza democratica. Per questo ci sembra che il caso italiano sia una esperienza democratica di grande rilievo anche per l’Europa di domani, per questo ci sembra che una linea di tale portata storica non possa venire turbata da qualche nipotino milanese di Strauss the dopo aver fatto il servitore laico della borghesia milanese è andato a fare il chierichetto in Baviera per il rilancio di una Europa tra il confessionale a il reazionario che non solo noi, ma la stessa chiesa, ha sempre respinto. Noi non vogliamo né un’Europa confessionale, né un’Europa conservatrice, noi vogliamo un’Europa democratica che sappia essere un elemento di speranza, di equilibrio a di fiducia nel mondo, e per la costruzione di questa Europa la democrazia cristiana italiana, forte nei suoi ideali, della sua storia, del suo ruolo popolare e riformatore, può dare un contributo significativo.
REPLICA
La replica si limiterà alle questioni più importanti che sono state poste perché naturalmente la mia relazione, che pure è stata molto lunga, aveva escluso di proposito una serie di temi concreti europei. Tra non molto uscirà un ampio saggio che ho scritto per la rivista “Vita e Pensiero” dell’Università Cattolica di Milano, dove si fa il quadro di questi problemi, e credo sarà utile diffonderlo tra gli amici per una riflessione approfondita.
Vorrei dire subito che concordo con le osservazioni fatte circa la pesantezza della situazione agricola. Direi anzi che da un convegno come il nostro senza retorica né formalismi deve andare un ringraziamento per l’impegno con cui Martora all’interno delle comunità si batte contro molti ostacoli in una posizione spesso di isolamento rispetto agli altri ministeri e alla carenza di guida del governo italiano. Soltanto adesso si capisce che dal successo della politica agricola comune dipende l’avvenire delta comunità, mentre si é continuato a lungo a guardare all’agricoltura come ad un problema di settore.
Marcora ha chiesto anche che cosa fa il partito per la preparazione delle elezioni, ed è opportuno perciò dare qualche informazione. In primo luogo: il problema della legge elettorale. C’è un impegno a presentare al più presto la legge elettorale, anche per evitare il calo di tensione che seguirà al dibattito alla camera dei comuni inglese sulle elezioni europee. Anche se continuiamo a contrastarlo, il rinvio delle elezioni è assai probabile, ma è bene che l’Italia, che è stata la prima ad approvare la convenzione, abbia le carte in regola anche per la legge elettorale.
Sull’argomento specifico della legge esistono una serie di complicazioni. Io stesso sono stato incaricato di mantenere i rapporti con i rappresentanti dei partiti a devo dire che ho bloccato un progetto di legge elaborato dal ministero degli interni che doveva andare al consiglio dei ministri prima delle vacanze, perché non teneva conto di alcuni principi fondamentali ai quali la DC è particolarmente legata. Ad esempio conteneva un punto in stridente contrasto con le posizioni fino ad ora sostenute dal governo italiano, dalla delegazione italiana al parlamento europeo a cioè che per le elezioni dirette del parlamento europeo si deve affermare il principio che gli emigranti votano per le liste nazionali in loco, dove risiedono. Se nel costruire 1’Europa dobbiamo costringere l’italiano a partire da Colonia per venire a Venezia a votare per l’Europa, ammettiamo già una sconfitta. C’è invece la possibilità concreta di introdurre il principio di un voto comunitario per cui, senza sovrapposizione con le strutture elettorali dei paesi ospitanti, si può far votare dove risiedono cittadini comunitari quali sono sicuramente gli emigranti. Su questi problemi sono state già avviate conversazioni a scambiate note diplomatiche tra il nostro ministero degli esteri e i ministeri dei paesi interessati.
Il progetto governativo prevedeva invece il voto per corrispondenza, che presenta molte difficoltà. Inoltre prevedeva il voto per corrispondenza soltanto per gli europei, il che è incostituzionale, perché lo si deve ammettere per tutu i cittadini. Ho visto con piacere che a Gorizia anche il presidente Fanfani ha sostenuto che il voto per corrispondenza è incostituzionale e che sperava non lo considerassero filo-comunista per questo: si vede che altri quando sostengono queste cose, sono tacciati di filo-comunismo. Comunque su questo punto del voto per corrispondenza la legge dovrebbe essere modificata. Gli altri punti sono più controversi a mi limito ad enunciarli. Noi condividiamo la impostazione politica che Moro fece prevalere quando sconfisse la tesi minimalista di Giscard d’Estaing al tempo della convenzione per le elezioni europee. La Francia voleva mantenere il numero attuale di rappresentanti anche nel parlamento eletto a suffragio universale diretto. Moro sostenne un parlamento più ampio per due ragioni: 1) perché il parlamento europeo deve essere pluralista e ogni paese deve poter mandare tutte le forze politiche rappresentative di idee ed opinioni; 2) perché devono essere presenti le differenti articolazioni regionali, che appartengono di pieno diritto all’Europa. Perciò la legge deve garantire il massimo di rappresentatività a delle forze politiche e delle aree territoriali.Per evitare una polverizzazione eccessiva il governo intendeva proporre di introdurre la soglia del 5% che costringerebbe i partiti laici minori ad accorparsi tra loro per consentire un minimo di semplificazione. Ma qui iniziano i problemi. I socialdemocratici non vogliono unirsi con repubblicani e liberali, accetterebbero solo una lista con i socialisti, ma i socialisti – a riprova della visione europeistica del socialismo! – sono disposti soltanto a dare qualche posto nella lista socialista ai socialdemocratici, ma non a fare una lista tra partiti. Ciò pone i socialdemocratici nella condizione di rifiutare. La Malfa non ne vuole sentir parlare di una intesa con i liberali, in più teme che il precedente della soglia del 5%, introdotto per le elezioni europee, possa venir introdotto anche nelle elezioni nazionali. Su questo problema siamo per ora bloccati.
Vi è poi la discussione sui tipi di collegi, collegi regionali, tre collegi nazionali (centro nord e sud), collegio unico nazionale. I minori vogliono in ogni caso un collegio nazionale di recupero dei resti nel timore di non riuscire ad essere rappresentati con collegi regionali o per grandi aree geografiche. Su tutti questi problemi si dovrà arrivare quanto prima ad un chiarimento.
Non è invece possibile disciplinare per legge il problema della compatibilità o meno del doppio mandato, in quanto la convenzione ammette esplicitamente che si tratta di una scelta facoltativa. Saranno i partiti stessi allora che, sulla base di valutazioni politiche, stabiliranno se tutti i parlamentari europei avranno il doppio mandato (europeo a nazionale), oppure tutti il mandato unico, oppure metà col doppio mandato e metà mandato unico, oppure percentuali diverse. In effetti svolgere seriamente i due mandati, coi lavori di commissione, é motto difficile a bisognerà quindi lasciare largo spazio a candidature col mandato unico, ed in prospettiva bisognerà certamente arrivare al mandato unico per tutti. Sarebbe però opportuno, e questo richiederà la modifica delle costituzioni degli stati membri, ammettere senza voto, a titolo consultivo, senza rimborsi di alcun genere, i parlamentari europei ai parlamenti nazionali in modo da impedire fratture ed anzi favorire una reciproca attenzione a consultazione. Tuttavia per questa prima elezione é importante che non siano totalmente esclusi parlamentari nazionali che hanno già un certo prestigio internazionale: non a caso Brandt a Mitterand pensano di segnare con la loro presenza i futuri progressi dell’integrazione europea.
Quanto alla nostra organizzazione, il partito popolare europeo riunisce in federazione tutti i partiti democratici cristiani delta comunità europea, cioé i partiti che già fanno parte dell’internazionale democristiana. Qualcuno vorrebbe però costituire in Europa un grande schieramento di partiti democratici cristiani e di partiti conservatori, rappresentati questi ultimi principalmente dalla signora Thatcher, da Chirac e da Suarez. Ora, non sono solo i democratici cristiani italiani che impediscono questo accordo, poiché è la quasi totalità dei partiti federati nel PPE che esclude un’alleanza organica con i conservatori.
Ciò non significa che non siano possibili conversazioni molto costruttive con i conservatori, come é il caso ad esempio coi conservatori inglesi che sui temi di politica europea sono assai più avanzati dei laburisti. Mentre siamo perciò disponibili a contatti in parlamento, ed anzi assumiamo talvolta posizioni comuni su singoli problemi, respingiamo una alleanza organica tra centro moderato e destra in Europa perché pensiamo che rappresenterebbe giusto quel the manca alla alternativa socialista per essere credibile nel campo europeo.
Il partito popolare europeo sta elaborando il programma per le elezioni, che sarà presentato in dicembre in occasione del congresso. Sto sollecitando i competenti organi del partito per approvare gli emendamenti che la DC italiana propone al programma europeo: in effetti su diversi argomenti (politica agricola, politica monetaria, politica estera comune, politica sociale) siamo ad esempio in dissenso con i democratici cristiani tedeschi. Probabilmente finiremo per accordarci su di un programma generale di principio e i singoli partiti faranno dei programmi nazionali di maggiore specificazione. Faremo sicuramente dei convegni regionali in preparazione delle elezioni, sempre che il partito ci metta in condizione di agire, perché non è un mistero per nessuno the le difficoltà anche pratiche sono enormi. Quindi l’impegno che per ora è di pochi, deve diventare l’impegno di tutto il partito perché si possa andare sulle piazze, a far capire ai giovani, ai contadini, agli operai, agli intellettuali che il loro futuro sarà diverso con o senza 1’Europa, e che fare 1’Europa dipende anche da loro.
Ha ragione Cocianni quando mette in evidenza il pericolo di andare troppo adagio. Dobbiamo continuare a dire che le elezioni si faranno nel ’78, anche se verranno rinviate, perché questo rappresenta un elemento di mobilitazione. Siamo infatti in ritardo nel far crescere la sensibilità politica attorno al tema europeo. Per taluni ambienti moderati sembra che a favore dell’Europa vi sia quest’unica motivazione: con la costruzione dell’Europa scomparirebbe il pericolo comunista. La motivazione é un po’ semplicistica, ma ha la sua importanza perché su 180 milioni di elettori i comunisti sono sicuramente una minoranza. Ma perché esistano reali garanzie democratiche all’interno dei singoli stati nazionali è necessario che le istituzioni politiche delta comunità siano rafforzate. Sul piano economico i legami che si sono intrecciati fra gli stati per effetto dell’integrazione impediscono un ritorno rapido a massiccio al protezionismo a all’autarchia. Analogamente se si realizzeranno garanzie istituzionali a politiche di tipo comunitario a protezione dei diritti fondamentali del cittadino, si ridurrà il pericolo del comunismo come pericolo di alternativa di sinistra senza reversibilità. Per questo occorre battersi per rafforzare le istituzioni politiche dell’Europa.
Sono d’accordo con Maineri che dobbiamo coinvolgere i giovani, però senza paternalismi, cosi come concordo con le osservazioni di Scardaccione sulla politica agricola e sul fatto che occorre sfatare il mito che l’Europa politica sarà il frutto dell’Europa economica. E’ vero proprio il contrario a cioè che occorre l’Europa politica per correggere lo sviluppo economico a realizzare quell’equilibrio nell’utilizzo delle risorse umane-finanziarie a tecnologiche che è la base di una ordinata convivenza.
Sono poi grato a tutti, ma in particolare a Pinocchino per l’intervento sull’ultima parte della relazione che richiede qualche integrazione. Quando constatavo che l’evoluzione del partito comunista italiano rispetto ai temi europei e alla collocazione internazionale è stata più marcata a sensibile di quella degli altri partiti comunisti europei, non traevo la conseguenza che il PCI avesse ormai risolte tutte le sue contraddizioni e ambiguità (non si tratta di “brutte parole” e i comunisti dovrebbero evitare di reagire con fastidio ogni volta che si pone l’accento su temi the sono critici nei loro confronti). Pensiamo al rapporto tra internazionalismo e vie nazionali, o ai rapporti di politica estera tra le grandi potenze. In Africa, ad esempio, è in atto uno scontro tra le grandi potenze mondiali che cercano di piegare a loro vantaggio la fase drammatica di uscita dal colonialismo dei paesi africani. Qualche dirigente comunista illuminato usa dire oggi che l’Europa non deve essere né anti-sovietica né antiamericana. È già un passo avanti importante, ma non diciamo però che l’Europa deve essere alleata degli USA e amica dell’Unione Sovietica, il che non é una pura distinzione terminologica, ma una precisa collocazione internazionale. Chiediamo allora ai comunisti quale è il loro giudizio sulla politica dell’Unione Sovietica in Africa a negli altri scacchieri internazionali, sulla politica del disarmo a della distensione. C’è tutto uno spazio di chiarimento reale rispetto al partito comunista italiano.
Per questo non mi sembra accettabile – e lo dico con molta energia – continuare a procedere sul terreno del processo alle intenzioni. Perché se accettiamo il principio che un atteggiamento divenuto positivo, per il solo fatto che in futuro potrebbe ritornare negativo, non può essere tenuto in considerazione, noi non ammettiamo alcun processo evolutivo nella vita politica. Si tratta di dire si, dove si può dire si, e no dove si deve dire no, esattamente come ci ha insegnato De Gasperi. Quando, dopo la svolta comunista di Salerno (l’euro-comunismo in termini italiani è nato infatti molto prima dell’invenzione di Brzezinski) De Gasperi si è trovato alla costituente con i comunisti disposti a mettere l’art. 7 nella costituzione repubblicana, ad approvare il rispetto dei diritti fondamentali e le istituzioni democratiche, non ha chiesto che cosa avrebbero fatto dopo. Se vi è accordo qui adesso su questo, qui adesso su questo possiamo collaborare. E questa sicurezza, questo senso preciso del limite, ha dato a De Gasperi il prestigio morale a la forza politica di rompere con i comunisti quando la posizione sui temi di politica estera è divenuta net 1947 inaccettabile. Cosi De Gasperi ha accettato la collaborazione ed operato la rottura – in polemica anche con Dossetti, piuttosto critico sulla troppo rapida rottura del tripartito – evitando il processo alle intenzioni, incoraggiando le scelte positive ed essendo assai fermo a deciso riguardo alle scelte negative.
Il discorso col partito comunista è però importante anche per il risvolto verso i socialisti. Non ho avuto tempo nella relazione di toccare questo argomento e ringrazio chi mi ha fatto la domanda perché posso accennarvi sia pure brevemente. Riconosco di essere stato polemico circa le posizioni socialiste e socialdemocratiche nel contesto europeo. Lo sono fondatamente, non per estratti pregiudizi a neppure per privilegiare i comunisti. Sono polemico perché secondo me la visione riformista e socialdemocratica tradizionale, quella di tipo scandinavo per intenderci, è un impoverimento rispetto alle tradizioni umanistiche e libertarie del socialismo italiano. Credo anzi the proprio guardando all’Europa dobbiamo guardarci dal cancellare in Italia l’area socialista, laica e democratica. Perché, infatti, qual è il limite più grosso nella invenzione dell’eurocomunismo? Chi inventa l’eurocomunismo negli ambienti borghesi, radicali, laici e socialisti, vorrebbe in fondo farne l’erede di una socialdemocrazia europea che agonizza piuttosto che fare i conti con quel tanto di positivo e libertario che invece c’e oggi anche nel partito comunista. Quando il PCI pone alla base della sua battaglia politica la liberazione dell’uomo, l’emancipazione delle classi, il controllo del potere, la critica al capitalismo, si pone in una logica molto diversa dalla socialdemocrazia che tende soprattutto ad utilizzare il surplus prodotto dallo sviluppo del sistema capitalista in funzione redistributiva. Non intendevo perciò liquidare il rapporto con il socialismo italiano e privilegiare il partito comunista immaginando il suo revisionismo in senso socialdemocratico.
Gli elementi di dibattito che il partito comunista italiano pone a tutta la sinistra europea sono elementi di grande novità rispetto alla tradizionale politica del “benessere socialdemocratico” che é ormai battuta dalla situazione economica attuale, a su questi elementi di novità devono riflettere anche i socialisti, portandovi il loro contributo specifico, e non la semplice aspirazione all’alternativa.
Vorrei che leggeste un bel saggio curato da Arfé, che pubblica un carteggio assai significativo e illuminante tra Hrandt, Kreisky a Palmer, tre “leaders” autorevoli della socialdemocrazia europea. È, notevole in queste lettere l’autocritica rispetto alla incapacità della vecchia concezione socialdemocratica nordica di rispondere ai problemi posti dall’economia contemporanea ed alle richieste delle nuove generazioni. Proprio Palmer dopo la sconfitta elettorale riconosce che una delle conseguenze negative dello stato del benessere è la burocratizzazione del sistema, la crisi che si produce tra l’utente del benessere e l’organizzazione pubblica dello stesso. Ciò conferma the vi sono problemi di autogestione, di partecipazione popolare, di potere, che la socialdemocrazia ha trascurato.
Kreisky, dal canto suo, mette addirittura in guardia i socialisti europei dal considerarsi essi soli portatori di esigenze di trasformazione a di costruzione di un mondo nuovo. Per la verità Kreisky la prende molto alla lontana, perché cita i fermenti di novità esistenti net cattolicesimo dell’America latina, cita monsignor Camara e i teologi delta liberazione, dimenticando il Concilio ecumenico a il fatto che il cattolicesimo europeo non è tutto bavarese. Tuttavia credo importante leggervi questo passo: “Nel mondo vi sono cattolici, vescovi, preti a laici che “diffondono la fede nel Vangelo come messaggio di liberazione dell’uomo dalle sue costrizioni spirituali e materiali. Lottano contro la miseria indegna dell’uomo e lo sfruttamento a si impegnano consapevolmente per un nuovo più giusto ordine sociale. Intendono costruirlo con la collaborazione di altri movimenti, e si riconoscono si può ben dire in un largo lato anche negli ideali di un socialismo democratico, umanistico ed indipendente, adeguato ai paesi e alle popolazioni dell’America latina”. Questa è una apertura di un “leader” di primo piano del socialismo europeo che cerca di distaccarsi dalla visione integralista, chiusa nella concezione delle vecchie roccaforti nordiche. Ed anche Brandt raccomanda ai socialdemocratici europei di non chiudersi nelle esperienze del passato a di ricordare che oggi i teologi hanno sollevato i problemi della donna, dei giovani, degli emarginati, il problema della liberazione a della speranza che non si caratterizza più soltanto sotto il profilo della giustizia economica. “Vorrei raccomandare (ai miei amici) – dice Brandt – di introdurre questo elemento anche nella discussione di come sia da affrontare il dibattito, sulle riforme che trasformano il sistema e su quelle “meramente” miglioratrici del sistema stesso”. Sono spunti interessanti che la pubblicistica italiana generalmente ignora, il fatto cioè che mentre sul versante comunista esiste un grande fermento attorno ai temi del pluralismo, della democrazia, del parlamento, della reversibilità del potere, sul fronte socialdemocratico tradizionale ci si interroga sul perché la società del benessere sia incapace di rispondere ai problemi dell’uomo. Perché allora noi democratici cristiani non dovremmo inserirci in questo dibattito, non con un integralismo terza-forzista, ma con la nostra autonoma capacità creativa, per rendere il dibattito più incalzante, favorire le evoluzioni e partecipare alla costruzione di un’Europa qualitativamente migliore? Lo stesso Arfé presentando il saggio citatolo, dice molto significativamente a proposito della socialdemocrazia tradizionale e di certi errori del socialismo italiano: “La socialdemocrazia, pena la propria emarginazione e la propria disfatta, non può rimanere arroccata nelle sue fortezze nordiche a covare i propri più o meno grandi successi, ha bisogno di raccogliere tutte le proprie forze su scala europea, intessere rapporti nuovi con tutti i movimenti progressisti fuori degli schemi burocratici propri della Internazionale, senza transigere sui principi, ma pronta a cogliere la sostanza delle cose, collaborando con tutte le forze che si muovono, con i mezzi e i metodi imposti dalle circostanze, lungo una linea di libertà”.
Un dialogo nuovo coi socialisti, dunque é possibile, non per ritornare al centro-sinistra, ma per collaborare insieme a far evolvere i comunisti nel senso della accettazione piena a irreversibile dei valori della democrazia e a coinvolgerli nel dare il loro apporto alla costruzione dell’Europa.
In questa prospettiva credo di poter rispondere a Bonalumi che siamo vaccinati rispetto alla tentazione del terzaforzismo. 1 democratici cristiani non hanno mai immaginato l’Europa come quinto polo di potenza. Era questa un’idea di Kissinger che pensava di suddividere il potere delle grandi potenze, introducendo il polo europeo, la Cina a il Giappone. In realtà non è questa la posizione che noi rivendichiamo per l’Europa, una posizione di potere terza-forzista: noi rivendichiamo per l’Europa una posizione che la porti ad essere fattore di equilibrio e di pace nel mondo, attraverso l’alleanza con gli Stati Uniti, l’amicizia con l’URSS, l’apertura verso il Terzo Mondo. Riguardo a questo ultimo punto occorre dire che essere terza-mondisti non significa essere acriticamente populisti o “straccioni”. Sappiamo tutti the l’Europa è una comunità principalmente di trasformazione di materie prime e per questo ha il diritto di dire con chiarezza ai paesi petroliferi e agli altri paesi produttori dì materie prime che la strada dell’aumento ininterrotto dei prezzi di tali beni non è troppo a lungo praticabile. Se, infatti, i paesi produttori aumentano i loro introiti monetari mettendo in crisi i paesi industrializzati, finiscono per ritardare anche le loro possibilità di sviluppo e per rendere ancora più instabile il sistema monetario internazionale. I rapporti tra l’Europa e il Terzo Mondo devono essere soprattutto rapporti di collaborazione, di cui abbiamo un esempio importante nella convenzione di Lomé. Noi dobbiamo trasferire tecnologia, assistenza tecnica, collaborazione allo sviluppo, perché solo da un sistema economico più equilibrato sul piano mondiale possono derivare anche più stabili rapporti politici.
La crisi di oggi non é come quella del ’29, anche perché sono stati elaborati strumenti di intervento a vari livelli che dovrebbero impedire gli effetti più disastrosi che allora si verificarono su scala mondiale. Non dimentichiamo però che da quella crisi siamo usciti con la guerra 1939-05, e tutti sappiamo quanti dolori é costata quella guerra! Oggi una simile via non è neppure ipotizzabile perché una guerra non lascerebbe più ormai né vincitori né vinti, ma solo un deserto di rovine. È tempo allora di usare le risorse che si spendono negli armamenti per realizzare invece un nuovo a diverso equilibrio economico mondiale, dove tutti i paesi abbiano eguale dignità e reali prospettive di sviluppo. In un tale processo l’Europa non può rimanere chiusa in se stessa, in un suo splendido protezionismo; in un tale processo l’Europa non può essere priva dell’apporto dei democratici cristiani. Non “soltanto con noi”, ma con noi e con tutti quelli che vorranno collaborare. Il nostro insegnamento pluralistico è proprio questo: non dobbiamo salvare né l’Italia, né l’Europa,né il mondo, ma dobbiamo fare in modo che i nostri ideali non manchino là dove si deve costruire il futuro.
Bergamo, 1-2 ottobre 1977
Luigi Granelli