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By noviia agency5 Marzo 2024In Luigi

SCENARIO POLITICO ITALIANO DEGLI ANNI ’70

Rapporto dell’On. Luigi Granelli, già Sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri, membro della Direzione Nazionale e Dirigente dell’Ufficio Relazioni Internazionali della Democrazia Cristiana, al Simposium della Columbia University sul tema: “Italy in the 1970’s Prospects for the 1980’s”.

1.1 Lo sviluppo realizzato dall’economia italiana in questo dopoguerra è un fatto così ben conosciuto che non occorre spendere troppe parole per illustrarlo. Bastano poche cifre significative: dal 1950al 1972 il reddito nazionale è aumentato ad un saggio medio del 5% all’anno. Nel 1951 la popolazione addetta all’agricoltura rappresentava il 42% circa del totale della popolazione attiva e forniva il 29,5% del reddito prodotto. Nel 1977 l’occupazione agricola rappresenta il 15,5% dell’occupazione totale e fornisce l’8,5% del valore aggiunto destinabile alla vendita. Nel 1951 sul totale delle esportazioni italiane le produzioni agricole rappresentavano ancora il 13%, ma si sono ridotte al 4-5% nell’ultimo decennio, mentre le produzioni meccaniche e dei mezzi di trasporto coprono ormai oltre il 40% delle esportazioni industriali italiane. All’inizio degli anni settanta l’Italia appartiene al gruppo dei dieci paesi più industrializzati del mondo.

1.2 Un insieme di circostanze hanno favorito la realizzazione del miracolo economico italiano: le iniziative per la ricostruzione postbellica, una vastissima applicazione di innovazioni tecnologiche dopo il ristagno autarchico del periodo fascista, un immenso serbatoio di mano d’opera che consentiva bassi salari, l’apertura dei mercati internazionali, un ampio consenso politico e sociale agli obiettivi della ricostruzione prima, dello sviluppo produttivo poi. Questo insieme di circostanze favorevoli entra in crisi alla fine degli anni sessanta per cause in parte interne e in parte di carattere internazionale. Tra le cause di carattere interno occorre soprattutto segnalare che l’impetuosa espansione economica degli anni cinquanta e sessanta non è stata accompagnata da una adeguata modernizzazione dell’apparato statale. L’organizzazione, le procedure, le competenze dell’apparato burocratico sono rimaste centralizzate e legate ai ritmi di un paese prevalentemente agricolo. Inoltre, nonostante le politiche intraprese, è rimasto lo squilibrio tra il Nord e il Sud del Paese, perché l’espansione produttiva si è spontaneamente concentrata dove già esistevano le condizioni più favorevoli allo sviluppo. Dalla campagna e dal Sud affluiva mano d’opera nelle città industriali del Nord, creando insieme sviluppo industriale e gravi problemi di congestione sociale. Si accumulava così una domanda di case, scuole, ospedali, trasporti pubblici urbani che l’apparato burocratico arretrato non era in grado di soddisfare, mentre esplodevano i consumi privati, l’edilizia come seconda casa nei centri di vacanza, il boom dell’automobile. Lo Stato finanziava la più prestigiosa rete autostradale d’Europa.

1.3 In questa situazione, a partire dal 1969, la pressione sindacale si sviluppava dapprima come rivendicazione salariale, e quindi come rivendicazione normativa per tutelare e consolidare le conquiste ottenute. I salari italiani si sono portati mediamente a livello di quelli europei, ed in più i sindacati hanno impedito gli arrangiamenti che sempre le imprese realizzano attraverso l’aumento della produttività per recuperare il profitto dopo consistenti aumenti di salario. I sindacati hanno cioè ottenuto riduzioni dell’orario di lavoro, hanno praticamente reso impossibile lo straordinario, lo spostamento da una mansione ad un’altra, il licenziamento. E’ stata cioè impedita qualsiasi forma di mobilità gestita a fini di politica aziendale. Tra il 1969 e il 1973 si è così attuata la più rapida e profonda redistribuzione di reddito tra salario e profitto che l’industria italiana abbia sperimentato nel dopoguerra.

1.4 In una situazione in cui la gestione delle aziende diveniva indubbiamente più difficile, e avrebbe richiesto una maggior capacità imprenditoriale e manageriale per rispondere alla sfida del sindacato, diventa invece particolarmente grave il fenomeno della fuga dei capitali e si manifestano i primi sintomi di disaffezione da parte di investitori italiani e stranieri.

1.5 In questa fase particolarmente delicata per l’economia italiana si scatena la crisi petrolifera dell’ottobre 1973, ma già in precedenza era iniziato il ciclo di aumento dei prezzi delle materie prime. Inoltre le economie occidentali erano già in fase di inflazione per effetto delle spinte salariali conseguenti alla situazione di piena occupazione, e per il disordine monetario internazionale conseguente alla svalutazione del dollaro dell’agosto 1971. La risposta delle economie occidentali alla quadruplicazione del prezzo del petrolio è la deflazione (beggar my neighbour, come negli anni trenta). Si ha così una recessione economica generalizzata, che è maggiormente risentita dalle economie più deboli, e soprattutto dall’economia italiana che anche per motivi interni, come abbiamo visto, attraversa una fase critica.

1.6 Vengono in evidenza le debolezze del sistema economico italiano, cresciuto in modo rapido ma disordinato e quindi privo di quelle strutture che avrebbero consentito di sopportare meglio la crisi: mancanza di una industria energetica diversificata, pesante deficit alimentare, eccedenza di investimenti in taluni settori da parte di imprese pubbliche e semipubbliche, gap tecnologico e manageriale, un sistema di formazione professionale poco adatto alle esigenze di mobilità industriale. Se la ristrutturazione del sistema produttivo non era avvenuta negli anni sessanta, in presenza di elevati tassi di espansione, più difficile risultava dopo il ’73, in presenza di tassi di sviluppo fortemente ridotti. Il sindacato svolgeva con rigore il suo compito di difendere l’occupazione e il salario reale, attraverso una indicizzazione perversa che contribuiva ad alimentare l’inflazione. Le imprese in difficoltà (pubbliche e private), appoggiate da tutte le forze politiche, si rivolgevano allo Stato per protezione ed assistenza. L’espansione della spesa pubblica per sostenere attività non produttive, e i trasferimenti di reddito a favore di un numero sempre maggiore di cittadini inattivi, sono l’altra causa fondamentale di alimentazione dell’inflazione. Infatti, nonostante una pressione fiscale notevole sui redditi da lavoro, rimane ancora ampia l’area dell’evasione: pertanto l’espansione della spesa pubblica viene finanziata attraverso il deficit del bilancio.

2.1 Se l’espansione dell’economia italiana negli anni cinquanta e sessanta è stata agevolata da una favorevole congiuntura internazionale, non è oggi realistico pensare ad una ripresa durevole che compensi le difficoltà interne con un aumento della domanda esterna. Il commercio estero rimane una componente indispensabile degli attuali livelli produttivi, ma l’accentuata competitività del mercato internazionale e la necessità di una più attenta diversificazione delle esportazioni pongono non facili problemi di riduzione dei costi e di riconversione industriale. Il verificarsi o meno di correzioni alle tendenze in atto nell’economia mondiale è destinato a ripercuotersi anche sull’Italia, ma, a differenza del passato, una ripresa in campo internazionale ed europeo richiede una decisa modernizzazione dell’apparato produttivo italiano ed un severo utilizzo delle risorse esistenti per potersene avvantaggiare.

2.2 Le previsioni di superamento della crisi economica in Italia non possono pertanto trascurare le difficoltà esterne e la loro durata.Gli ultimi dati dell’OCSE confermano che tutti i Paesi industrializzati sono alle prese con crisi non soltanto congiunturali dalle quali non si può uscire senza profondi mutamenti. Il disordine monetario mondiale successivo all’accantonamento del sistema dei cambi fissi è una delle cause strutturali dell’inflazione. Il ricorso sempre più generalizzato al protezionismo economico comprime il commercio internazionale. Il cambiamento irreversibile del rapporto di scambio tra Paesi produttori e Paesi consumatori di materie prime riduce i margini di accumulazione anche nelle società più progredite. Un progresso tecnologico sempre più rapido aumenta le difficoltà di gestione delle imprese ed altera le regole tradizionali della concorrenza. L’estendersi della presenza dei Paesi ad economia di Stato nel contesto internazionale, che pone rapporti di tipo nuovo alle altre economie, e la crescente capacità dei Paesi emergenti ad impostare il proprio sviluppo in forme di minore dipendenza dalla produzione altrui, cambiano profondamente la composizione della domanda mondiale. La possibilità di ripresa dei Paesi industrializzati, anche dei più forti, è condizionata dalla capacità di affrontare in modo coordinato le cause di una crisi congiunturale e strutturale che si manifesta a scala mondiale. Responsabilità particolari spettano a questo proposito alla Comunità Economica Europea, e l’Italia ha il massimo interesse a contribuire, anche attraverso di essa, ad una strategia complessiva di superamento della crisi economica mondiale insieme agli Stati Uniti ed agli altri Paesi industrializzati.

2.3 Le difficoltà che investono tutti i Paesi industrializzati si accentuano, per le ragioni ricordate nei paragrafi precedenti, nell’Italia di oggi. Le distorsioni e le arretratezze presenti nell’intenso processo di sviluppo del ventennio 1950-1970 ripropongono, insieme, sia i problemi delle economie industrializzate che di quelle in via di sviluppo. Questo dualismo rende ancor più difficile il superamento della crisi. La parte industrializzata del Paese, infatti, deve farsi carico del processo di accumulazione per l’intera società nazionale.Ma anche in Italia, in forme più concentrate nel tempo che negli altri Paesi sviluppati, le organizzazioni sindacali sono state e sono nelle condizioni di imporre una redistribuzione del reddito industriale che diminuisce, progressivamente, le risorse di investimento delle imprese ed il loro potere di indebitamento. Le mancate riforme in settori che sono decisivi per il governo dell’economia (fisco, sistema bancario, amministrazione) aggravano la situazione. Accanto ad una struttura del salario scarsamente flessibile, caratterizzata da automatismi perversi che rendono incontrollabile il costo del lavoro e da trattamenti scandalosamente differenziati, noti come “giungla retributiva”, va in particolare ricordata la mancanza di strumenti efficienti di intermediazione finanziaria capaci di incanalare crescenti quote di risparmio verso gli investimenti produttivi. Questa funzione è stata massicciamente assunta dal sistema bancario con la conseguenza di un forte indebitamento a breve termine delle imprese che, in una fase di elevata inflazione, accelera le perdite ed i processi di crisi anche per i forti tassi di interesse monetari.

2.4 Parallelamente al rallentamento del processo di accumulazione nella parte industrializzata del Paese sono aumentate anche per l’acuirsi della crisi sociale le necessità d’intervento nelle aree meno sviluppate, i salvataggi di imprese in difficoltà, l’acquisizione al settore pubblico di attività produttive per le quali il capitale privato non affronta rischi di investimento, con l’effetto di allargare in modo sempre più preoccupante la quota di reddito nazionale destinata ad un disavanzo pubblico che ha assunto, negli ultimi tempi, livelli sconosciuti a tutti gli altri Paesi industrializzati. I1 rischio è che senza una ripresa produttiva accompagnata da una severa programmazione delle risorse, con un contenimento selettivo della. spesa pubblica finalizzata a favorire gli investimenti, si espanda sempre più una economia assistita con misure fittizie di risanamento delle imprese e di sostegno all’occupazione. La modifica della dinamica della spesa pubblica e la sua riduzione senza sacrificare la funzione propulsiva dello sviluppo economico richiedono, insieme ad una politica di austerità e di lotta al parassitismo, una capacità dello Stato di operare un prelievo fiscale adeguato e di eliminare larghe fasce di evasione, di riformare l’amministrazione riducendone i costi, di riordinare il settore pubblico dell’economia.

2.5 Il “caso” italiano ha dunque una sua peculiarità La caduta degli investimenti, il permanere di una cronica disoccupazione giovanile ed intellettuale, la riduzione della domanda interna ed estera, gli ostacoli a riconversioni produttive che non trovano stimolo sufficiente nelle leggi del mercato, rappresentano un fenomeno che investe più o meno tutti i Paesi industrializzati. Ma il dualismo dell’economia italiana richiede un governo della crisi capace di incidere, contemporaneamente, sull’area industrializzata e su quella in via di sviluppo, sulle imprese pubbliche e su quelle private, sulle condizioni di mercato e sui comportamenti dell’amministrazione, sull’accumulazione di risorse e sulla eliminazione di sprechi e di forme fittizie e assistenziali di benessere, sulle difese dell’occupazione e sulla creazione di nuovi posti di lavoro. La svolta rispetto al passato è notevole. In una fase di quasi spontanea e generalizzata espansione economica, accompagnata nel ventennio precedente gli anni settanta da una consistente accumulazione e da un largo autofinanziamento delle imprese, il ricorso al riformismo ha consentito anche all’ Italia, che non ha sfruttato fino in fondo questa opportunità, di correggere a costi sopportabili gli aspetti più negativi del processo di sviluppo. La gravità della crisi in atto impone per i prossimi anni un diverso uso della ricchezza prodotta per promuovere, insieme a più contenute redistribuzioni del reddito, una fase nuova e più difficile di sviluppo economico. Ma questo sforzo richiede stabilità politica e largo consenso popolare, l’intesa con le organizzazioni sindacali, la mobilitazione di imprenditori animati da spirito creativo, forme di intervento pubblico coerenti con una logica di programmazione, disponibilità di ogni categoria e ceto sociale a sopportare sacrifici che consentano di dare una base economica reale agli stessi progetti di riforma della società e delle istituzioni.

3.1 La democrazia italiana si trova ad affrontare, negli anni settanta, una profonda crisi nella quale si intrecciano, insieme alle cause economiche, fattori istituzionali, sociali e politici. I valori della democrazia sono profondamente radicati nel popolo e nelle forze politiche costituzionali, la libertà è da tutti considerata un bene irrinunciabile, il pluralismo culturale e politico rende difficile ogni forma di dominio autoritario. La collocazione internazionale dell’Italia nella NATO e nella Comunità Economica Europea, non è più messa in discussione da nessun partito. Questo corrisponde ai princìpi sanciti dalla Costituzione del 1947. Ma alcune parti della Costituzione non sono ancora attuate ed altre, superate dalle trasformazioni verificatesi nella società italiana, possono essere oggetto di modifiche costituzionali che richiedono una qualificata maggioranza parlamentare. Tra le prime si possono ricordare un più ampio decentramento amministrativo (avviato di recente con l’istituzione delle Regioni), accompagnato dal riordinamento e dalla semplificazione del costoso apparato centrale dello Stato, una moderna riforma scolastica, un più efficiente riordinamento della Magistratura, della polizia, dei servizi di sicurezza, un riassetto funzionale del settore pubblico dell’economia, la modernizzazione dei sistemi fiscali, bancario, di assistenza e protezione sociale. Tra le seconde si possono citare la correzione di un dispersivo bicameralismo, una migliore definizione del potere esecutivo del Governo e dei poteri di controllo del Parlamento, un più esteso decentramento della funzione legislativa, l’apertura di nuovi spazi di pluralismo sociale e di democrazia diretta. Solo una politica di riforma dello Stato nelle strutture ereditate dal pre-fascismo e dal fascismo, attuando la Costituzione repubblicana e ove occorre modificandola, può in Italia riavvicinare le istituzioni ai cittadini e rimuovere quelle cause di disaffezione verso il sistema politico democratico che sono venute aggravandosi anche per effetto della crisi economica. >

3.2 Il deterioramento del rapporto di fiducia tra popolo ed istituzioni, complicato dal progressivo logoramento del rapporto politico tra i partiti, ha impedito di dar vita a solide maggioranze di governo proprio in una fase in cui la società aveva il massimo bisogno di essere governata. La crisi economica è così diventata l’acceleratore di una crisi di fiducia assai pericolosa. La contestazione giovanile e studentesca, l’assenteismo nelle fabbriche, l’esplosione violenta dell’estremismo politico, l’offensiva del terrorismo armato, sono i segni di una disgregazione del tessuto sociale e politico che richiede un’opera profonda di riconciliazione nazionale. In una società democratica non è infatti possibile far accettare ai cittadini una severa politica di austerità e di sacrifici, sia pure nella speranza di migliori condizioni materiali di vita nel futuro, se non esiste un rapporto di fiducia con l’amministrazione, un rapporto di credibilità con i partiti, un minimo di pace sociale, rigore della giustizia, moralità della classe politica. Sicuramente molte delle difficoltà attuali possono essere fatte risalire ad errori e ritardi del passato. Non sempre i periodi di stabilità politica sono stati utilizzati per realizzare riforme e cambiamenti che avrebbero reso meno precarie le fasi successive. Ma anche la critica più severa deve riconoscere che negli ultimi trent’anni la società italiana ha registrato in tutti i campi più progressi che non nei precedenti settant’anni di unità nazionale. Con la coalizione tripartita (democristiani, comunisti e socialisti) che ha governato l’Italia dalla fine della guerra di liberazione al 1947, è stato possibile varare la nuova Costituzione, compiere senza traumi la scelta repubblicana, impostare la fase più delicata della ricostruzione post-bellica in un clima di concordia nazionale.

3.3 Quando l’aggravarsi della guerra fredda ha posto il problema di compiere una chiara scelta di campo internazionale, i partiti marxisti sono stati messi fuori dal governo e una solida alleanza con i partiti democratici minori ha consentito di continuare lo sforzo per la ricostruzione e l’ammodernamento politico e sociale. De Gasperi, il grande leader politico democristiano ha sempre operato per costruire coalizioni parlamentari e di governo in cui il massimo di stabilità politica potesse coincidere con le esigenze di sicurezza democratica e di progresso della società italiana. Un blocco conservatore e di destra, che pure veniva sollecitato, non avrebbe consentito di trasformare l’Italia da paese agricolo in paese industriale e di isolare all’opposizione, senza limitazioni alla democrazia politica, il PCI e i suoi alleati socialisti. La coalizione centrista aveva però una minore spinta al cambiamento e molte riforme che potevano trarre vantaggio da una fase di intensa espansione economica furono rinviate o condotte con scarsa incisività. La mancanza di alternative non poteva che logorare progressivamente la stessa esperienza centrista.

3.4 Dopo una fase travagliata che ha visto susseguirsi governi provvisori e scontri drammatici nel Paese si sono ricreate le condizioni per una ripresa della politica di coalizione con la partecipazione, per la prima, volta in Italia, dei socialisti. Il rifiuto della DC di farsi assorbire in un blocco conservatore e l’accentuazione dell’autonomia del PSI dai comunisti, favorita dal ventesimo congresso del PCUS e dalla condanna dello stalinismo, hanno consentito di superare la crisi centrista in una linea di centro‑sinistra conforme alle esigenze di sviluppo del Paese e dalla sua collocazione internazionale. Si verifica così un nuovo periodo di stabilità democratica dalla metà degli anni cinquanta in poi. Riforme importanti vengono realizzate, specialmente nel campo dei diritti civili e del decentramento regionale, ma tutti i propositi di programmazione dell’economia sono praticamente falliti. La stessa nazionalizzazione dell’industria elettrica economicamente gravosa per gli indennizzi dello Stato ha portato ad una dispersione di risorse non vincolate a fini di espansione produttiva. La politica riformista non accompagnata da sufficiente accumulazione accelera la crisi economica. E’ il momento dell’incontrastato potere sindacale (pansindacalismo) e della debolezza dei partiti e del Governa a fronteggiarlo. L’opposizione comunista al centrosinistra sostiene tutte le richieste sociali, con scarsa valutazione della loro compatibilità economica, ed il meccanismo perverso di una spirale di redistribuzione del reddito e di aumento della spesa pubblica di tipo assistenziale non accompagnata da recuperi di produttività impedisce all’Italia di fronteggiare una crisi divenuta nel frattempo di portata mondiale. La fine dell’esperienza del centrosinistra è sanzionata dalla rottura tra i partiti incapaci sia di correggerla, sia di proporre alternative possibili. Si ritorna ad una fase di pericolosa instabilità politica mentre la crisi generale del paese raggiunge la maggiore acutezza.

4.1 Nelle elezioni del 1976 le sinistre, PCI e PSI, compiono il massimo sforzo per indebolire ed emarginare la DC attribuendole tutte le responsabilità della crisi. L’offensiva era favorita dalla pesantezza della situazione, da un malessere diffuso, dal logoramento obiettivo del partito di maggioranza relativa. Trent’anni di governo hanno reso difficile il ricambio e il ringiovanimento della classe dirigente, la correzione di discutibili metodi di gestione del potere, l’aggiornamento culturale e politico, la capacità di farsi interprete coerente di una società profondamente cambiata, il distacco da interessi parassitari. La DC non poteva che risultare indebolita come sarebbe accaduto a qualunque partito in quelle condizioni. La situazione della DC era inoltre aggravata dall’isolamento totale in cui si era trovata a causa del referendum sul divorzio, rispetto alla maggioranza del Paese. Una prima inversione di tendenza si verifica con l’assunzione della guida della DC del segretario Zaccagnini. Prendono corpo le speranze di rinnovamento e di moralizzazione, si avvia un non facile cambiamento di classe dirigente, una franca autocritica sugli errori del passato rompe l’isolamento e la DC si ripropone come un partito popolare e riformatore aperto al confronto ed alla collaborazione con gli altri partiti.

4.2 Primi sintomi di ripresa si manifestano proprio con le elezioni del 1976. L’offensiva del PCI e del PSI si proponeva la conquista della maggioranza da parte della sinistra e non pochi osservatori prevedevano, anche in ambienti internazionali, il sorpasso della DC da parte dei comunisti. Settori conservatori e di destra, coadiuvati da forti strumenti di opinione, tentavano contemporaneamente di condizionare la DC rendendo permanente la sua rottura con i partiti della sinistra. Entrambi questi disegni sono apparsi perdenti. La DC si conferma come primo partito italiano con il 41,8% dei seggi, rispetto al 42% della precedente legislatura. Il PCI registra una forte avanzata passando dal 27,1% al 33,6%. Il PSI subisce una leggera flessione scendendo dal 10,2% al 9,3%. La sinistra nel suo insieme si attesta sul 42,9% e lontano è il traguardo del superamento del 50%. Il 2,9% raccolto dai radicali, sinistra estrema ed indipendente non colma certo, anche per la sua eterogeneità, questo distacco. I partiti minori di centro sinistra, PRI e PSDI, arretrarono passando dal 6% al 4,6%. Il PLI, partito minore di centro-destra, scende dal 3,2% allo 0,5%. La destra neo-fascista subisce un clamoroso ridimensionamento con il 4,5% rispetto al precedente 8,5% e, nel corso della legislatura, si spacca in due gruppi di modesta entità. Il nuovo Parlamento registra un significativo spostamento a sinistra, il declino della destra, la tenuta della DC. I pericoli maggiori sono scongiurati, ma permane una situazione di stallo e di instabilità politica.

4.3 Nessuna delle formule politiche presentate dai partiti nella campagna elettorale del 1976 è in grado di dar vita ad una maggioranza parlamentare di governo. Il compromesso storico tra le grandi forze popolari, proposto dal PCI, è osteggiato dalla DC e dal PSI. L’alternativa di sinistra, voluta dal PSI, è rifiutata dal PCI e non dispone della maggioranza. Coalizioni di centro o di centro-sinistra sono improponibili. La DC non è disponibile ad una collaborazione di destra, peraltro minoritaria e contrastante con l’orientamento del Paese, ed il suo passaggio all’opposizione aprirebbe la via al caos politico. In questo scenario politico non vanno dimenticati l’aggravarsi della crisi economica, l’aumento degli attentati terroristici, i rischi di una destabilizzazione generale che potrebbe travolgere la Repubblica. Il ricorso a nuove elezioni non può che aggravare la situazione. La radicalizzazione dello scontro politico rende oggettivamente più difficili intese realistiche e costruttive tra i partiti. Questa via, sollecitata dalla destra, è inoltre preclusa da fatto che la maggioranza dei partiti presenti in Parlamento è contraria alle elezioni anticipate ed il Presidente della Repubblica, cui compete lo scioglimento delle Camere, non può non tenere presente tale decisiva circostanza.

4.4 La gravità della situazione costringe tutti i partiti ad assumere un atteggiamento più riflessivo. L’esigenza primaria di difendere le istituzioni dagli attacchi del terrorismo, di tutelare la convivenza civile tra tutti gli italiani, di arrestare la crisi economica ed il deficit crescente della finanza pubblica, spinge i partiti a ricercare forme sia pure eccezionali di intesa per dar vita ad un governo ed assicurargli il necessario consenso nel Parlamento e nel Paese. Era questa l’unica via corrispondente all’interesse nazionale. La DC ed il PCI per molti aspetti antagonisti non sono in grado di governare da soli o di essere opposizione. Una intesa, sia pure limitata nel tempo, non poteva essere esclusa a priori e gli stessi partiti intermedi l’hanno caldeggiata e sostenuta. Essi, infatti, avrebbero addirittura voluto la formazione di un governo di emergenza, con la partecipazione di tutti i partiti costituzionali. La DC, pur essendo disponibile ad un accordo programmatico e politico limitato, ha confermato la sua contrarietà ad una partecipazione dei comunisti al governo ed il PCI, pur vedendo rifiutata tale richiesta, non si è sottratto alla responsabile assunzione di un impegno di collaborazione in sede parlamentare. Si è venuta così affermando la politica dell’emergenza che consente al Paese di superare difficili prove in attesa di una futura e costruttiva definizione dei rapporti tra i partiti. La DC ha assunto i compiti di governo e gli altri partiti, tranne il liberale e le destre, hanno dato vita ad una maggioranza parlamentare comprendente, dopo trenta anni, i comunisti. Con questo accordo, che consente di affrontare con un largo sostegno politico e parlamentare problemi altrimenti irrisolvibili, non viene minimamente intaccata la collocazione europea ed occidentale dell’Italia, i vincoli delle sue alleanze militari, le regole di funzionamento della democrazia pluralistica.

4.5 Senza l’evoluzione politica intervenuta dal 1976 in poi sarebbe stato impossibile difendere le istituzioni dai propositi di destabilizzazione del terrorismo. La catena degli attentati, l’uccisione di magistrati e giornalisti, i tentativi di strage, il terribile assassinio dell’onorevole Moro e della sua scorta hanno trovato una barriera insuperabile nella concorde determinazione dei partiti costituzionali di difendere lo stato democratico, le sue leggi, potenziando la polizia, i servizi di sicurezza, le misure di prevenzione e di repressione della violenza eversiva. La maggiore stabilità politica delle istituzioni ha favorito il contenimento della crisi economica. Rispetto ad una situazione vicina al collasso si registrano sintomi di miglioramento riconosciuti anche dagli osservatori internazionali più severi. Il riequilibrio della bilancia dei pagamenti, che secondo i dati più recenti registrerà nel 1978 un avanzo di quasi 3.000 miliardi di lire al netto dei rimborsi, la consistente formazione di riserve valutarie, circa 22,5 miliardi di dollari in valuta ed in oro, sono il frutto di provvedimenti spesso impopolari che il governo ha potuto varare in un clima di austerità proprio perché sorretto da un largo consenso. Sulla base di questa inversione di tendenza sono stati possibili, nel settembre di quest’anno, la riduzione dell’1% del tasso di sconto (dall’11,50 al 10,50) che costituisce un incentivo per gli investimenti pubblici e privati, la restituzione anticipata rispetto alle scadenze del prestito europeo di 1,1 miliardi di dollari, un contenimento del livello dell’inflazione (12% circa su base annua), la predisposizione di un piano triennale di risanamento finanziario che può essere una svolta di rilievo per l’economia italiana.

5.1 Il piano triennale 1979-1981, che dovrà essere definito entro il dicembre 1978, rappresenta uno sforzo straordinario che richiede una concordia nazionale, la collaborazione dei sindacati e degli imprenditori, una volontà di risanamento delle imprese e dell’amministrazione, una crescente lotta alle evasioni fiscali, per realizzare l’aumento della produttività e dei posti di lavoro in un contesto di riduzione del deficit statale e di espansione degli investimenti. Si pensi che lo Stato italiano spende di più per far fronte agli oneri di un crescente debito pubblico, attorno ai 14.000 miliardi di lire, che non per pagare annualmente i propri dipendenti. La politica per uscire dall’emergenza è dunque solo all’inizio ed è difficile prevederne la durata. Il ritorno ad una situazione di instabilità impedirebbe il raggiungimento di traguardi così impegnativi. Non è immaginabile di poter ridurre drasticamente il disavanzo di parte corrente, di aumentare gli investimenti pubblici e privati, di contenere il costo del lavoro, di risanare la finanza statale e ridare efficienza all’amministrazione, di creare soprattutto nel Mezzogiorno 500 o 600 mila nuovi posti di lavoro, se il Governo non ha il sostegno attivo di una larga maggioranza parlamentare e la credibilità e il consenso indispensabili nel Paese. La stessa sicurezza delle istituzioni ed il rafforzamento della democrazia, in vista di future evoluzioni, esigono la salvaguardia di un equilibrio politico che è l’unico possibile nel Parlamento eletto nel 1976.

5.2 La politica dell’emergenza non può durare all’infinito. L’esperienza italiana dimostra che coalizioni solide si sono via via logorate preparando, con non facile travaglio, ulteriori sviluppi nella continuità della vita democratica. Non è quindi fuori luogo porsi i problemi del futuro della democrazia italiana. Si è parlato e si parla in Italia di una terza fase dopo quelle, storicamente esaurite, del centrismo e del centro-sinistra. Lo scenario politico degli anni settanta presenta elementi di transizione che dovrebbero sfociare in un processo di stabilizzazione dei rapporti tra i partiti. E’ però sbagliato pensare che una volta superata l’emergenza, dopo la verifica del comportamento di ciascuna forza politica, i rapporti tra i partiti debbano tornare ad essere quelli esistenti prima dell’esperienza compiuta.

5.3 La preoccupazione maggiore dei critici della politica dell’emergenza consiste nel considerare inevitabile l’ingresso dei comunisti nel Governo. Nella politica dell’emergenza ciascun partito conserva la sua diversità, è libero di definire la propria strategia, può scegliere senza condizionamenti obbligati i suoi comportamenti futuri. Già ora lo scenario politico italiano presenta un grado di articolazione maggiore rispetto alla situazione precedente le elezioni del 1976. Le previsioni che l’accordo con i comunisti avrebbe trasformato l’emergenza in regime, che la DC si sarebbe avviata al declino, che il conformismo avrebbe tolto dinamismo al rapporto tra i partiti, sono smentite dai fatti. Nelle elezioni successive al 1976 la DC ha continuato ad accrescere i suoi consensi, il PCI ha registrato per la prima volta un arretramento, il PSI avverte le possibilità di un recupero, i partiti minori hanno conservato la loro influenza. A differenza del passato si è aperta una vivace discussione nella sinistra che accentua, con qualche forzatura propagandistica, le diversità tra il PCI e il PSI. Se questo processo di maggiore articolazione politica continuerà, senza mettere in crisi l’attuale solidarietà nazionale per il tempo necessario a superare la situazione di emergenza, l’assestamento politico negli anni ottanta sarà il frutto di libere scelte destinate a rafforzare la democrazia italiana.

5.4 L’assestamento politico richiede nuovi rapporti tra sindacati e sistema politico. Con una coraggiosa autocritica i sindacati tentano ora di impostare i loro rapporti con gli imprenditori, con i partiti, con il Governo, in uno sforzo congiunto per favorire l’accumulazione di risorse, orientare il tipo di sviluppo produttivo, contribuire alle riforme, invece di puntare solo su una redistribuzione del reddito prodotto con ambizioni di supplenza politica. Questa svolta non implica una subordinazione dei sindacati rispetto al sistema politico e non è esente da ritorni alle strategie precedenti. In tutti i Paesi industriali i sindacati vedono aumentare il loro potere. La possibilità di porre questa crescente influenza al servizio di un maggiore sviluppo, dipende dalla capacità dei partiti e del Governo di coinvolgere tale nuovo potere in progetti realistici di pieno impiego e di riforme civili ed istituzionali. La programmazione dello sviluppo economico e la sua finalizzazione ad una maggiore partecipazione dei lavoratori sono indispensabili per consentire l’autodisciplina dei sindacati ed una evoluzione della democrazia non limitata alle intese tra i partiti. L’incapacità di risolvere correttamente questo problema è tra le cause non secondarie dell’insuccesso delle politiche centrista e di centro-sinistra. La terza fase della democrazia italiana non può prescindere, con una esplicita assunzione di responsabilità dei sindacati, degli imprenditori, dei partiti, dalla soluzione di questo problema.

5.5 Lo sviluppo di questa prospettiva pone il problema dei rapporti tra i partiti senza esclusione, per la vastità e la natura della sua rappresentanza politica, del PCI. Il corretto funzionamento della democrazia non può ignorare, se non negando se stessa ed i valori che rappresenta, una forza politica che per quanto diversa dalle altre raccoglie liberamente il consenso di oltre il 30% della popolazione italiana, amministra con altri partiti numerose realtà locali, esercita una rilevante influenza sui sindacati, ha un peso non trascurabile nel Parlamento e nella dialettica politica del Paese. Quando il PCI pone il problema della sua partecipazione al Governo lo fa in nome di un diritto che gli deriva dalle regole della democrazia e di un libero mandato ricevuto dal popolo. Il rifiuto di tale richiesta da parte della DC e di altri partiti non può nascere da una preclusione di principio. Tra l’altro si è già verificata, in Italia, una partecipazione del PCI al Governo. La disponibilità ad intesa di governo con il PCI va motivata politicamente con giudizio ed il comportamento dei vari partiti in rapporto alla collocazione internazionale dell’Italia, alla continuità dei suoi liberi ordinamenti, all’intesa programmatica ed alla sua durata.

6.1 La diversità di giudizio tra gli altri partiti ed il PCI, particolarmente aspra dal 1947 in poi a causa del suo radicato stalinismo, è venuta via via attenuandosi anche per effetto di un innegabile revisionismo tuttora in pieno svolgimento. Questo processo è il risultato di un libero confronto ideale e politico che in Italia si è manifestato senza limitazioni anche nei momenti più difficili. Sarebbe una dimostrazione di sfiducia nella democrazia negare la verità e misconoscere i cambiamenti intervenuti nel comportamento del PCI. Essi consistono nella rivendicazione sempre più esplicita di autonomia dall’URSS, nella critica dei modelli di socialismo burocratico dell’est europeo, nell’accettazione dei vincoli militari della NATO e della collocazione europea ed occidentale dell’Italia. La stessa assunzione – in crescente polemica con i sovietici – dei valori permanenti del pluralismo politico e sociale, dell’economia mista, delle regole dell’alternanza al potere, del diritto al dissenso ed alla critica, del riconoscimento della funzione positiva di partiti estranei al marxismo ed al socialismo e della importanza della libertà religiosa, di tutte le religioni, conferma una significativa evoluzione rispetto allo stalinismo ed alla concezione della conquista e dell’esercizio del potere propria del leninismo. Anche le non facili responsabilità assunte dal PCI nel Parlamento e nel Paese per contribuire, pur senza partecipare al Governo, al superamento di una crisi che non viene utilizzata per aumentare le difficoltà, denota cambiamenti apprezzabili nei comportamenti politici.

6.2 L’evoluzione “euro-comunista” del PCI è un dato obiettivo. Non avrebbe alcuna utilità il rovesciamento del processo in corso con un ritorno allo stalinismo o al dogmatismo marx-leninista. Questo riconoscimento non impedisce di considerare tale processo non compiuto e definitivamente rassicurante, per ragioni obiettive connesse alla situazione interna ed internazionale. Per questo tra gli obiettivi della terza fase della democrazia italiana vi è quello di incoraggiare una ulteriore evoluzione del PCI anche con il riconoscimento che, una volta accertate le condizioni di agibilità interne ed internazionali è legittima la sua partecipazione a governi democratici. E’ ovvio che secondo le regole della democrazia parlamentare deve essere fuori discussione la reversibilità delle alleanze di governo, quando risultasse opportuna o necessaria, ed i passaggi all’opposizione.

6.3 Il PSI sollecita cambiamenti di fondo nel PCI in funzione dell’alternativa di sinistra che significa, in pratica, un governo di soli comunisti e socialisti. E’ singolare che il PSI, non considerando ancora agibile la partecipazione del PCI al governo la richieda tuttavia alla DC nell’attuale fase di emergenza. Parallelamente, l’attuale gruppo dirigente socialista esclude tassativamente ogni ritorno ad intese di governo con la DC ed accusa di moderatismo il PCI perché preferisce una politica di unità nazionale alla alleanza della sola sinistra. La ripresa di una maggiore autonomia del PSI è certamente positiva. Augurabile è anche un aumento dei suoi consensi per rendere più flessibile ed articolato lo schieramento politico. La polemica sui due fronti sembra però avere scopi prevalentemente elettoralistici e non manca di ambiguità. Un certo possibilismo alla trattativa con i terroristi, al tempo del sequestro dell’onorevole Moro, e il lancio spettacolare di una campagna anticomunista, tendono a raccogliere consensi in ambienti di destra che sperano nel successivo abbandono della politica di unità della sinistra. La contemporanea polemica con la DC, accusata di essere un partito conservatore, e la difesa dell’alternativa di sinistra contro i possibilismi del PCI che viene considerato leninista e moderato, tendono a raccogliere consensi negli ambienti che si collocano alla sinistra dei comunisti. Quando il PSI avesse raccolto un largo sostegno elettorale in un arco di forze cosi contraddittorie, aumentando in misura anche notevolissima il suo attuale 9.3%, rimarrebbe sempre per esso il problema di una scelta di collaborazione con la DC od il PCI per uscire da un isolamento che renderebbe inutile il suo maggiore peso contrattuale. A quel punto il successo elettorale potrebbe tradursi in sconfitta politica. Qualunque scelta potrebbe dar luogo a profonde lacerazioni interne, non nuove nella storia del PSI, e una forza importante ed essenziale per la democrazia italiana tornerebbe ad essere un pericoloso elemento di incertezza e di destabilizzazione.

6.4 La debolezza dell’attuale strategia socialista consiste nello scartare a priori una intesa con tutti gli altri partiti democratici, e soprattutto con una forza popolare di massa come la DC, nel momento in cui una ipotesi di partecipazione comunista nel Governo richiederebbe il massimo di sicurezza politica. I rischi sarebbero indubbiamente maggiori nel caso in cui il PCI fosse, per il suo peso politico e rappresentativo, la forza determinante ed egemone di una coalizione di Governo della sola sinistra. Nell’ipotesi di un cambiamento di fronte al PSI sarebbe impraticabile un’esperienza analoga al centro-sinistra da tutti giudicata superata anche per gli errori compiuti con essa dagli stessi socialisti. Se la soluzione dei problemi politici, economici, istituzionali, richiedesse – una volta superata l’emergenza – un largo consenso popolare e democratico e fosse caduta, nel momento in cui il PSI ritenesse agibile l’alternativa di sinistra, la pregiudiziale politica della partecipazione del PCI al Governo non si vede per quale ragione la DC dovrebbe rifiutare a priori intese capaci di dare al Paese maggiore sicurezza. La DC continua a rifiutare il compromesso storico per i rischi di regime di una politica che subordini all’egemonia comunista tutti gli altri partiti, ma rivendica per se stessa la piena libertà di scelta che riconosce a tutti gli altri partiti. Il passaggio all’opposizione, la formazione di maggioranza senza i comunisti, la partecipazione a grandi coalizioni comprendenti il PCI, da realizzarsi in una logica di alternanza dal potere proprio delle democrazie parlamentari dell’occidente, andranno valutate, dopo l’emergenza, in rapporto all’interesse del Paese ed alla sua sicurezza interna ed internazionale. Un partito come la DC, che rappresenta una parte considerevole del popolo italiano, non può rinunciare al diritto-dovere di accogliere od escludere ciascuna di tali ipotesi in piena libertà e senza imposizioni esterne.

6.5 Per fronteggiare queste imprevedibili vie d’uscita dall’emergenza la DC deve procedere al suo rinnovamento, vuole mantenere un vitale collegamento con i ceti emergenti dalla società, rifiuta una funzione conservatrice impensabile per una grande forza popolare e democratica, ispirata ai valori permanenti del cristianesimo, schiettamente ancorata ad una operante solidarietà europea ed occidentale. Come nel trentennio passato la DC intende essere ancora un elemento decisivo di stabilità politica, di collaborazione democratica, di reale progresso economico e sociale, di garanzia contro svolte avventurose che potrebbero portare l’Italia fuori dal contesto europeo ed occidentale. Per questo, mentre continua a governare il Paese in una situazione difficilissima, la DC si propone di favorire per quanto le compete una maggiore autonomia del PSI, una rassicurante e definitiva evoluzione del PCI, una valorizzazione costante dei partiti minori che sono una garanzia concreta di pluralismo politico. Saranno gli italiani a decidere liberamente, in elezioni che dovranno precedere mutamenti politici di rilievo rispetto alle soluzioni possibili nell’attuale Parlamento, la funzione della DC e degli altri partiti nel futuro. Un grande partito di massa come la DC, al governo o all’opposizione, continuerà a rappresentare un fattore di stabilità e di progresso che nessuno potrà trascurare. Questo impegno non si basa su una volontà di conservazione del potere ma sul desiderio di continuare in un azione di servizio all’Italia perché essa continui ad essere, nel variare delle sue esperienze politiche, una nazione liberale e sicura nel costituire il proprio futuro. Non gioverebbe né all’Europa, né all’occidente democratico, una Italia instabile, arretrata, incapace di progredire nella libertà per mancanza di fantasia e di coraggio.

Luigi Granelli
New York, 6 ottobre 1978

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svgLA STRATEGIA E’ IL NEGOZIATO

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