CONVEGNO DI FIRENZE SUL CONGRESSO DEL PCI (12-13 aprile 1969)
Le ragioni che ci hanno portato ad affrontare un tema così arduo risiedono nella natura stessa dei problema in discussione e non sono certo legate e subordinate alla preparazione dei congresso in corso nel nostro partito. L’onestà intellettuale e politica cui ispiriamo la nostra azione richiede di non accantonare, per meschini calcoli di opportunismo, i problemi scottanti. Non dobbiamo perciò credere di aver commesso un errore tattico. Di fronte ai temi sollevati dal XII congresso dei PCI che nessuna seria e consapevole forza politica può trascurare, anche sapendo che l’attenzione dovuta può ingenerare equivoci, incomprensioni o alterazioni, non dobbiamo avere paura di aver avuto coraggio. Dobbiamo anzi rivendicare il merito della decisione di affrontare il tema dei comunismo e delle sua politica, precisando al tempo stesso che ci poniamo di fronte ad esso senza complessi d’inferiorità, senza frustrazioni, e anche senza l’ipocrisia di voler distinguere tra impostazione culturale, valida per un indefinito domani, e impostazione politica rinchiusa in corte visioni contingenti. Troppo spesso i partiti non sono permeati di cultura in senso vero e non erudizionistico perché non fanno politica effettiva, si limitano cioè a gestire empiricamente le situazioni senza alcuna strategia ideale e storica. Ma se i partiti si pongono il problema politico di fondo dei paese, che è quello dello sviluppo complessivo della società italiana, allora fanno anche cultura e sono cioè costretti a prendere in considerazione e non possono non tenere conto di tutte le componenti sociali, economiche, politiche e culturali dell’Italia contemporanea.
1 – Un giudizio obiettivo senza complessi d’inferiorità
Perciò noi ci assumiamo la responsabilità politica e culturale dei nostri giudizi anche su questo argomento. Non è possibile sviluppare un’azione costruttiva e storicamente lungimirante se non si tiene conto della realtà interna ed internazionale nella quale ci muoviamo. Siamo consapevoli di quanto ci differenzia dal comunismo e dalle sue finalità e non andiamo, perciò, a ricercare in quella direzione un supplemento d’anima, come se fossimo sfiduciati delle nostre convinzioni o disponibili a baratti ideali. Ricerchiamo un approfondimento della realtà comunista ed un confronto politico effettivo, dal momento che tale realtà è un dato obiettivo della situazione italiana e può avere un peso determinante, in senso positivo o negativo, nel suo sviluppo storico.
Affrontando il problema in questi termini rivendichiamo, in pratica, il diritto di essere, come Democrazia Cristiana, partito fra i partiti e il dovere di valutare sempre, senza apriorismi discriminatori, i rapporti di scontro o di incontro a livello politico tra tutte le forze indipendentemente dalla diversità ideale che è appunto compito di una vera democrazia garantire e valorizzare. Riteniamo, pertanto, di offrire una prova di maturità culturale e politica insieme mettendo con i piedi per terra il tema dei rapporti con il PCI richiamando al reale quella strategia dell’attenzione, intelligentemente teorizzata dall’on. Moro, che deve appunto calarsi nel concreto per avere una sua efficacia.
Guardiamo quindi al PCI ed alla sua politica dal nostro punto di vista, dai presupposti ideali e politici di una grande forza popolare e democratica che, in nome della sua tradizione storica e della sua autonoma funzione nazionale, rifiuta sull’argomento due approcci che non sono mai appartenuti ai cattolici democratici italiani più consapevoli:
- quello pre-sturziano dell’integralismo cattolico, che preferiva il sociologismo astratto all’azione storicamente determinata, perché la prospettiva delle pure rivincite ideologiche è finita da tempo ed occorre misurarsi, sul terreno della democrazia costituzionale e nel pieno rispetto delle diversità ideali, con tutte le forze politiche concrete che agiscono nella società italiana determinandone il suo sviluppo storico;
- quello trasformistico di certa tradizione italiana che mira soltanto a cooptare nel potere, a considerare i rapporti o le intese tra i partiti come metodo per assorbire all’interno di statici equilibri parlamentari o di governo le opposizioni che, in forza degli interessi rappresentati, diventano determinanti nel quadro istituzionale.
Non ci muove, quindi, la ricerca di motivi di scontro o di strumentale contrapposizione ideologica, né il desiderio di confusioni o compromessi a livello dei potere, ma la volontà di fare democraticamente i conti con tutti i partiti che operano nella società italiana contemporanea, con le idee e le finalità di cui essi sono portatori, con gli interessi e le tensioni civili e sociali che essi sono in grado di interpretare. Questo, in sostanza, è il filo conduttore della nostra analisi, dei nostri giudizi, delle nostre proposte politiche.
2 – La posizione della DC nella lotta per la democrazia
Non possiamo dimenticare, infatti, che la posizione ideale e politica della DC è dalle sue origini (si pensi all’esperienza dei P.P.I.) una posizione di forza popolare che si muove nella storia italiana per realizzare, in contrasto con istituzioni centralistiche e burocratiche peggiorate in senso autoritario dal fascismo, una democrazia a larga partecipazione popolare e che. di conseguenza, il nostro posto politico, come ci ha ricordato De Gasperi nel suo ultimo discorso al congresso di Napoli, è quello di un contributo diretto alla lotta per la democrazia in Italia. Se ci poniamo in questa prospettiva non possiamo certo ignorare, quali che siano le differenziazioni ideologiche, il significato dell’impegno di milioni di uomini, intellettuali, giovani, lavoratori, che si battono sia pure con intenti diversi dai nostri per la conquista di una effettiva democrazia anche se riteniamo, legittimamente, che non esistono in questa fase storica del nostro paese le condizioni interne ed internazionali per una comune lotta per il potere.
Pur essendo consapevoli delle divergenze ideali e politiche che passano tra noi ed altre forze popolari, dobbiamo riaffermare che sul terreno della lotta per la democrazia in Italia, che è il terreno sul quale siamo nati politicamente come movimento di massa, ci siamo organizzati come partito democratico e aconfessionale, ci siamo sviluppati come forza politica determinante nella guida dei Paese, noi non vogliamo nè possiamo prescindere da una valutazione obiettiva, da contatti responsabili, da considerazioni attente per tutto ciò che si verifica nei largo schieramento della sinistra e per quello che rappresenta, in questo schieramento, la presenza di un forte movimento comunista che interpreta sia pure dal suo punto di vista, fondate esigenze di trasformazione e di evoluzione della società italiana.
Se questa è la interpretazione corretta e più autentica dei nostro convegno, dobbiamo respingere con fermezza le interpretazioni da “Repubblica Conciliare” che ci vengono pretestuosamente attribuite. Il campo della lotta, per noi, è quello dello sviluppo delta democrazia politica, della costruzione e della difesa di un moderno Stato costituzionale, e non ha nulla a che vedere con le propensioni neo-integraliste, che sono una distorsione dell’autentico spirito post-conciliare, ad un compromesso concordatario a sinistra che baratti la libertà religiosa con l’accettazione passiva, a livello dell’ordinamento politico e civile, delle concezioni della società e dello Stato proprio dei comunismo. P- ancora valida, su questo punto, l’impostazione di Sturzo: la libertà religiosa è un aspetto della libertà politica ed i cattolici democratici, che sono scesi nell’agone politico in quanto cittadini e non come braccio secolare della Chiesa, non possono rinunciare alla seconda senza ridurre a vuoto formalismo anche la prima. Se così facessero i cattolici italiani si ridurrebbero, ancora una volta, ad una presenza di pura corporazione religiosa che chiede allo Stato garantista qualche particolare tutela dei propri interessi parziali e perderebbero, dopo decenni di vigorose battaglie politiche, il titolo ed i diritti ad essere considerati una grande forza nazionale democratica e popolare portatrice, a livello della società civile e delle istituzioni, di una propria concezione organica dell’ordinamento statuale. Assisteremmo, in questo caso, ad un assurdo cammino a ritroso nella nostra stessa esperienza storica che è stata assai significativa, dal Risorgimento all’antifascismo, dalla Resistenza alla Costituzione, proprio su questo punto.
Abbiamo sempre impostato il nostro discorso politico sul terreno delle istituzioni, dello Stato costituzionale autonomo nel suo ordine e pur rispettoso della sovranità della Chiesa per quanto le compete, ed è nostra intenzione svilupparlo con rigore a questo livello, che esprime il momento più significativo della vita politica dei nostro paese, senza alcuna concessione alle ritornanti tentazioni palingenetiche che riporterebbero ad una dannosa confusione tra politica e religione.
Sappiamo bene che, a differenza delle concezioni laiciste, l’autonomia dello Stato non è, per noi, separazione di derivazione positivistica e che il cattolico trova nella sua coscienza, in base all’insegnamento dottrinale e teologico, la sintesi e la conciliazione della duplice obbedienza alla sua condizione di cittadino e di credente, ma è proprio in virtù di questa concezione e di una positiva evoluzione storica che si è superato, in Italia, lo steccato tra guelfi e ghibellini aprendo la via, in campi diversi, a concrete possibilità di rinnovamento politico e religioso. Nessuna “Repubblica Conciliare” è dunque accettabile.
Così come non è pensabile, per noi, esaurire il problema del moderno Stato democratico e costituzionale con gli equilibri di potere all’interno degli ordinamenti esistenti o con forme tradizionali di garantismo che, valide nel passato, dimostrano sempre di più la loro incapacità a sanare la frattura tra società civile e istituzioni e a far superare la crisi attuale. I valori positivi dello Stato di diritto vanno salvati conciliando le istituzioni con le conquiste democratiche della lotta politica che si manifesta nella società. C questa l’indicazione più preziosa della nostra Costituzione repubblicana. Le istituzioni, di conseguenza, abbracciano una cerchia più ampia di rapporti tra le forze politiche di quella che può riguardare una comune alleanza di potere o di governo o, ancora, un puro equilibrio parlamentare. Lo svolgimento della lotta politica in Italia, lo scontro o l’incontro tra partiti diversi sia a livello di governo, sia sul più ampio terreno sociale e costituzionale, non possono essere considerati marginali o estranei al divenire storico dei paese e allo sviluppo e al consolidamento delle sue istituzioni democratiche.
3 – Le insufficienze di uno schema garantista
In questo intreccio di fattori, che a causa di una perdurante mentalità immobilistica e conservatrice non ha ancora espresso le sue potenzialità positive, sta una peculiarità non trascurabile della situazione italiana. Occorre stare in guardia dall’importazione acritica di certi modelli stranieri. Appare spesso astratta, a questo proposito, la controversia sui vantaggi dei bipartitismo più o meno perfetto e gli svantaggi di un pluripartitismo tipico della tradizione politica italiana. Anche se l’approfondimento di questa tematica porterebbe lontano, e non è certo questa la sede più adatta, non possiamo esimerci da qualche sintetica osservazione. La applicazione in Italia, ove fosse possibile, di uno schema di lotta politica analogo al bipartitismo di tipo anglosassone potrebbe, ad esempio, rivelarsi più funzionale alla conservazione delle nostre strutture istituzionali che non alla loro trasformazione ed al loro sviluppo. Anche negli Stati Uniti ed in Inghilterra, dei resto, si cominciano ad avvertire i segni di una crisi profonda che, a causa di un certo provincialismo nazionale, noi ci prepariamo a recepire con ritardo come con ritardo abbiamo esaltato la superiorità di quei sistemi per quanto si riferisce alle caratteristiche di ordinamenti considerati in astratto nelle loro espressioni formali e giuridiche e non al rapporto, per sua natura fondamentale, tra lotte civili e politiche ed istituzioni.
Il bipartitismo consente la logica delle alternative, con un più frequente ricambio di classi dirigenti, ma le alternative di potere all’interno di un sistema da tutti convenzionalmente accettato nelle sue caratteristiche di fondo sono alternative gestionali che appaiono, quasi sempre, prive della carica politica necessaria per promuovere una trasformazione ed una evoluzione delle istituzioni al di là della rigida dialettica bipartitica. Una valutazione attenta dell’esperienza concreta di governo dei conservatori e dei laburisti in Inghilterra, che pure si alternano al potere, è assai significativa al riguardo.
Il pluripartitismo italiano può, all’opposto, apparire molto interessante sia per il variare delle combinazioni politiche in rapporto al dinamismo dei Paese, sia per l’influenza che potrebbe essere riservata all’opposizione, al di là delle intese che abbiano come oggetto la pura gestione dei potere, per l’evoluzione delle stesse istituzioni rappresentative in stretta connessione con le spinte allo sviluppo della società civile nel suo complesso. Non mancano, quindi, rilevanti e tipiche passibilità di dinamismo politico e istituzionale in un sistema pluralistico come quello italiano.
Se non vogliamo compiere pericolose fughe in avanti è in questo quadro storico e istituzionale che dobbiamo collocare la coraggiosa e positiva indicazione dei nuovo patto costituzionale. Traviseremmo l’impostazione di De Mita se considerassimo la proposta dei patto costituzionale come uno schema formalistico di lotta politica da applicare, in Italia, alla stessa stregua di un modello garantista tradizionale. Dobbiamo stare molto attenti su questo punto. Una esplicazione in termini garantisti dei patto costituzionale porterebbe ad una distinzione meramente formale che tende a confinare le forze che esercitano un’azione di governo in un ruolo di supplenza conservatrice riservando, all’opposto, alle forze dell’opposizione un ruolo permanente di spinta e di sollecitazione. Il risultato pratico sarebbe, fatalmente, quello di una radicalizzazione di fatto della lotta politica che porterebbe con se, aggravati dalla particolarità della situazione italiana, tutti ì lamentati inconvenienti dei bipartitismo. Ne deriverebbe, oltre tutto, una grave alterazione della natura e delle evoluzione storica delle forze politiche operanti nella democrazia italiana. Sarebbe innaturale, per la DC il ruolo dì ala conservatrice, alla tedesca per intenderci, di un bipartitismo di fatto; sarebbe inaccettabile, per il PCI, il ruolo dell’opposizione illuminata e responsabile dei sistema; sarebbe improvvida la riduzione a pure comparse, al governo o all’opposizione, delle forze democratiche minori che sono garanzia di effettivo pluralismo politico; sarebbe arbitraria – infine – la teorizzazione illuministica dei compiti all’interno di un sistema rappresentativo e garantista che ignorerebbe, in pratica, la naturale vocazione di ogni forza politica all’acquisizione dei potere per esercitare una funzione di governo e l’ipotesi, che nessun partito può escludere, di continuare la sua battaglia all’opposizione.
4 – Il binario della Costituzione repubblicana
Una concezione politica, e quindi evolutiva, dei patto costituzionale si ricollega ad una visione articolata, dinamica, pluralista della lotta politica in Italia, dei resto non nuova per i momenti più significativi della nostra storia nazionale, e non va certo confusa con astratti schemi bipartitici, con spregiudicate tattiche da “grande coalizione”, con modelli puramente garantisti. Nessuno può pensare, ci sembra, a meccanismi istituzionali che funzionino correttamente al di fuori della realtà storica e delle spinte che la lotta politica, per quello che è e non per quello che dovrebbe essere, imprime ad essa. L’esperienza bruciante della Costituzione di Weimar, una delle più perfette come impianto garantista ma al tempo stesso delle meno aderenti ai contrasti politici reali, rappresenta ancora un severo ammonimento per tutti.
La forza di una costituzione legale sta nella sua stretta aderenza alla costituzione reale dei paese e nella possibilità di far procedere di pari passo, senza mitologie costituzionalistiche, lo sviluppo politico e l’adeguamento dell’apparato giuridico e istituzionale. Per questo il discorso sui rapporti politici tra forze diverse a livello costituzionale, e non solo per quanto si riferisce ai problemi di potere o di governo, è in sostanza il discorso che per noi non è certo nuovo, sol che si pensi alle motivazioni di fondo della stessa battaglia condotta per l’apertura a sinistra, dello Stato democratico come espressione della società e dei potere liberamente espresso delle grandi classi popolari. Nessuna razionalizzazione degli ordinamenti usciti dall’esperienza storica liberale, prima, e fascista poi potrebbe – pur in una più larga intesa tra governo e opposizione per assicurare, ad esempio, la funzionalità dei parlamento – togliere dall’isolamento le forze politiche rispetto ad una società che appare sempre più consapevole dei propri diritti. Solo l’attuazione della Costituzione repubblicana, che nel suo complesso presuppone una trasformazione graduale ma effettiva degli ordinamenti pre-fascisti, può aprire la via della costruzione di uno Stato nuovo e diverso e porre ciascuna forza politica di fronte a precise responsabilità.
Non possono sfuggire le difficoltà ad affrontare un confronto aperto su questo terreno. Ma non c’è spazio per pseudo-soluzioni. E’ una illusione quella dì pensare che una qualsiasi intesa esplicita o sottobanco tra governo ed opposizione, su questa o quella riforma, consenta all’una ed all’altra di meglio fronteggiare la contestazione che cresce nel paese e minaccia di travolgere tutte le forze politiche; come non è possibile immaginare che un puro mutamento degli equilibri politici o di potere, od un migliore funzionamento dei Parlamento in una linea di riformismo episodico favorita da corretti rapporti tra governo ed opposizione, consentano di risolvere nella sua ampiezza l’attuale crisi dello Stato In una società in rapida trasformazione come quella italiana.
5 – Ili confronto politico sul tema dello Stato
ll discorso sul nuovo Stato democratico, avviato con la Resistenza e delineato nella Costituzione, è un discorso di grande respiro storico, di forte impegno ideale, e presuppone nelle forze politiche che lo affrontano una concreta capacità di confronto e di revisione delle loro stesse concezioni tradizionali. Non basta lo scontro o l’incontro sulle cose, come è insufficiente una intesa sui ruoli diversi in un regime costituzionale astratto o nell’ambito di uno Stato puramente garantista che non affonda le sue radici nella società e non tiene conto delle sue tensioni e dei suoi problemi. Questo non può essere dimenticato, soprattutto, quando il confronto necessario investe un partito di massa, classista e marxista, quale è il PCI Non giova nascondersi le difficoltà. Per, affrontare il problema con serietà non servono pretesti discriminatori, sui quali si è vissuti di rendita per anni, né semplicistiche illusioni.
Non abbiamo dimenticato la lettura di “Stato e rivoluzione” che rimane, per molti aspetti, un testo fondamentale per comprendere, anche nelle sue evoluzioni successive, il nucleo fondamentale della strategia comunista nel nostro e negli altri paesi. Né si può ignorare, la famosa e classica polemica di Marx con Hegel fondata sul presupposto che non esiste uno Stato come istituzione che vive di vita propria al di fuori degli uomini, dei conflitti sociali, degli scontri di classe, e che – di conseguenza – l’evoluzione storica guidata dalla classe operaia non può non travolgere le sovrastrutture dell’assetto statuale di origine borghese. In base a questo principio l’analisi marxista tende a considerare lo Stato non un ordinamento neutrale, fondato su di un sistema di garanzie più o meno efficaci, ma uno strumento repressivo, immobilistico, rispetto alla società organizzata in classi sociali. ” Lo Stato – ha scritto F. Engels ne “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato ” – è un prodotto della società a una certa tappa del suo sviluppo; esso costituisce la confessione che questa società si è irretita in una contraddizione insanabile coi se stessa, che è venuta a trovarsi divisa da antagonismi inconciliabili di cui non può liberarsi. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici contraddittori, non si divorino l’un l’altro e non divorino in una sterile lotta la società, s’è resa necessaria una forza, in apparenza al di fuori della società, incaricata di moderare il conflitto, di mantenerlo nei limiti dell’ordine Questa forza uscita dalla società ma che si pone al di sopra c essa e se ne allontana sempre di più è lo Stato “.
Lenin, successivamente, rafforzò questa tesi tracciando una netta distinzione tra comunismo e socialdemocrazia proprio su questo terreno: nella concezione marx-leninista, infatti, il problema dello Stato è fondamentale nell’orientare la lotta rivoluzionaria nella conquista dei potere, nella trasformazione socialista, nel supera mento dei tradizionale riformismo. Si trattava, secondo Lenin, non solo di contestare, eliminare e distruggere lo Stato che era venuto assumendo un significato oppressivo, ma di creare addirittura le condizioni per evitare il suo ritorno burocratizzante e tendenzialmente soffocatore anche nel corso della rivoluzione e della edificazione socialista. Ritorna, anche qui, un principio classico dei marxismo. ” Lo Stato – è sempre Engels che scrive – non è esistito sempre. Ci furono delle società che ne facevano a meno, che non avevano la minima idea dello Stato, né dei potere statuale. Ad un certo grado dello sviluppo economico, che implicava necessariamente la scissione della società in classi, lo Stato divenne, in virtù di questa scissione, una necessità. Noi marciamo oggi a grandi passi verso uno sviluppo della produzione tale che l’esistenza delle classi non solo ha cessato di essere una necessità, ma diviene bensì un ostacolo diretto alla produzione. Le classi scompariranno inevitabilmente, cosi come sono comparse nel passato. Insieme con le classi scomparirà inevitabilmente lo Stato. La società, che riorganizza la produzione sulla base dei l’associazione libera ed eguale di tutti i produttori, relegherà tutta la macchina dello Stato nel posto che le si addice: nel museo delle anticaglie, accanto all’arcolaio e alla scuore di bronzo “.
Abbiamo voluto citare due affermazioni classiche dei pensiero marx-leninista sullo Stato per ricordare, al di là di certi risvolti utopistici che hanno avuto nel tempo un loro ridimensionamento, quanto radicata sia per i comunisti una concezione dell’ordinamento statale contrapposta al tradizionale garantismo ed espressiva, nella fase della contestazione al sistema come in quella della edificazione socialista, dei fatti sociali considerati in ogni caso come primari. L’esperienza storica, certamente, ha modificato con la prassi l’assolutezza di taluni principi.
Si assiste oggi infatti ad un tentativo di conciliazione tra la strategia comunista e le conquiste liberal-democratiche negli ordinamenti statali non comunisti, come è dimostrato dal significativo discorso pronunciato da Togliatti nel dopoguerra, per rivalutare l’opera di Giolitti, mentre nei paesi comunisti si verifica una involuzione statalistica che accentua il carattere burocratico, oppressivo, delle istituzioni sulla società e nel rapporto tra gli Stati nonostante i mutamenti intervenuti nel regime sociale ed economico. Forse anche per questo Berlinguer, al XII congresso dei PCI, ha auspicato una ripresa del metodo di analisi marxista nei paesi socialisti per individuare, a livello teorico oltre che politico, le lacune e gli arretramenti messi drammaticamente in luce dal nuovo corso cecoslovacco. La stessa strategia dei PCI, che con la svolta di Salerno teorizzata da Togliatti rappresenta in occidente il massimo di adeguamento alle condizioni di lotta in un ordinamento liberal-democratico, non ha tuttavia mai abbandonato la priorità dell’acquisizione dei potere come elemento qualificante della politica comunista, con una netta distinzione che riflette lo insegnamento marx-leninista rispetto al riformismo socialdemocratico, nell’elaborazione della cosiddetta via italiana alla costruzione democratica del socialismo.
Di qui derivano, in sostanze, le accuse di doppiezza alla strategia comunista in Italia e l’elevato grado di possibilismo che, in mancanza di un organico processo di revisione teorica e pratica, rischia di ridurre a tattica opportunistica le scelte compiute dal PCI nel dopoguerra e confermate, con indubbi accenti di novità, al recente congresso di Bologna. Gli accenni fatti, tuttavia, bastano a dimostrare come sia astratto immaginare che il PCI possa ridursi ad essere, in uno schema puramente garantista dell’ordinamento, il sindacato di minoranza che svolge soltanto un ruolo di sollecitazione dei bisogni insoddisfatti, di mediazione tra la protesta e le istituzioni, mentre in realtà il suo fine strategico consiste nell’utilizzare bisogno e proteste, spesso in modi indifferenziati e strumentali, non già per chiedere un illuminato paternalismo governativo che dia risposte riformistiche alle esigenze sollevate, ma per trarre da ciò forza per spingere verso la trasformazione dei sistema e per avanzare, in mutate condizioni, verso il socialismo.
Non c’è dubbio, allora, che il confronto sui temi dello Stato, avviato dei resto in sede di Costituente, sollevi anche per i comunisti problemi di rilievo in ordine al revisionismo della loro strategia pur non escludendo per questo, a livello della politica e costituzionale, possibili convergenze con altre forze democratiche non sul terreno di una comune gestione dei potere di governo ostacolata anche dalla diversa collocazione internazionale, ma su quello di una attuazione piena e senza riserve della Costituzione repubblicana. In questa prospettiva il patto costituzionale non è una fuga in avanti, od un fantasioso ricambio di formule ma è più semplicemente un ritorno alla Costituzione che richiede a tutte le forze democratiche ed antifasciste, siano esse al governo o all’opposizione, precise assunzioni di responsabilità.
6 – Il valore dei patto costituzionale
Il confronto sul tema dello Stato rappresenta, per la Democrazia Cristiana, una scelta di fondo non nuova che ha trovato, infatti in sede di Assemblea Costituente, impegnati in prima posizione i nostri uomini migliori. La tradizione politica dei nostro movimento non è riconducibile al riformismo sociologico di marca a cattolica: i cattolici democratici si sono organizzati in partito, in Italia, non solo per modificare nel senso della giustizia le strutture economico-sociali, operazione per certi aspetti possibile anche in un regime autoritario, ma soprattutto per rivendicare una concezione organica, democratica e autonomistica dello Stato, lucidamente intuita da Sturzo e ripresa da De Gasperi, in sostituzione dell’ordinamento burocratico, centralista, uscito dal Risorgimento peggiorato dal fascismo, indebolito dall’estraneità delle grandi classi popolari e dall’ipoteca conservatrice di interessi particolari.
Questa tradizione è ancora interamente valida. Volevamo, e dobbiamo volere, uno Stato diverso, democratico e pluralista, in cui le forze popolari e democratiche, ciascuna per la propria parte, possano esercitare con pienezza – come ai tempi della Resistenza e della Costituente – il potere ottenuto da un libero mandato per trasformare il quadro istituzionale entro il quale si svolge in termini dialettici la lotta politica in Italia. L un obbligo politico di fondo, coerente con la nostra concezione dello Stato, quello dell’attuazione della Costituzione repubblicana: si tratta di smantellare il centralismo, la sclerosi burocratizzata dell’apparato statale, l’autoritarismo di strutture protezionistiche, per costruire un complesso organico ed articolato di istituzioni corrispondenti alle tensioni, ai problemi nuovi, della società italiana contemporanea. r= questa il senso dei patto costituzionale.
L’obiettivo non è quello di una nuova formula di governo, di un ennesimo compromesso di potere, di una intesa sul comportamenti delle diverse forze politiche all’interno dell’ordinamento attuale, secondo la logica trasformistica dell’occupazione dello Stato, ma è quello della assunzione di responsabilità di tutte le forze democratiche ed antifasciste che, nel binario della Costituzione, possono essere interessate ad una effettiva modifica dei quadro istituzionale per creare le condizioni più favorevoli, ad un livello di più alta civiltà democratica, allo svolgimento della libera competizione dei partiti. In questo quadro possono rimanere diverse, e addirittura inconciliabili, le strategie ed il finalismo delle varie forze politiche, come è dei resto dimostrato dalle manifeste intenzioni dei PCI di avanzare sulla via democratica verso l’edificazione dei socialismo, ma l’obiettivo intermedio dell’attuazione della Costituzione repubblicana non può non essere, in un momento di grave crisi dell’ordinamento ereditato dal liberalismo e dal fascismo, un impegno comune largamente condiviso da tutte le forze democratiche ed antifasciste. Sarebbe un grave errore quello di fuggire in avanti, verso revisioni costituzionali presidenzialistiche da seconda repubblica, anziché proporsi, come primo dovere, l’attuazione di una Costituzione che nonostante alcuni suoi limiti rappresenta il punto più alto della concordia nazionale e dello spirito democratico e di libertà di tutta la nostra storia nazionale. La Costituzione italiana, come tutte le costituzioni dei resto, non è certo un documento intoccabile: revisioni e aggiornamenti non possono essere esclusi, di fronte ai rapidi mutamenti che investono la società, ma solo l’attuazione delle sue parti più valide può creare il clima di fiducia e la spinta politica indispensabile anche per colmare lacune che il tempo ha messo in evidenza.
E’ tempo di avviare quella politica di disgelo costituzionale che il centrismo ha interrotto e che il centro-sinistra, spesso prigioniero della logica della spartizione a mezzadria del potere, doveva avviare e non ha avviato preferendo, ancora una volta, percorrere la via di un riformismo episodico, sempre più insufficiente ed in ritardo, anziché quella di una ampia e organica riforma dello Stato che mobiliti, nel Parlamento e nel paese, tutte le energie democratiche disponibili. Ecco quale è, per noi, la problematica di fondo dei patto costituzionale. Essa deve spingere tutte le forze politiche, nessuna esclusa, a trarre dalle loro spinte popolari l’energia per operare il confronto, ricercare alla luce dei sole le possibili convergenze, riprendere – ciascuna per la sua parte e senza confusioni dannose – il difficile ma positivo cammino avviato con la Resistenza e sancito dalla Costituzione. Senza un effettivo disgelo della politica costituzionale il rischio che corrono tutte le forze politiche, al governo o all’opposizione, è di risultare imprigionate ed impotenti in un ordinamento formale di democrazia parlamentare contestato sempre più violentemente, senza distinzione tra partito e partito, dalla società civile e dalle nuove generazioni.
Ciò comporta un nuovo metodo di lotta politica: non una sorta di perbenismo parlamentare soltanto, ma la chiara volontà di impostare – nel pieno rispetto delle regole della libertà e della democrazia – un confronto aperto e privo di discriminazioni aprioristiche tra i partiti, che vanno rispettati per quello che sono e valorizzati nella loro diversità, e nuovi e più costruttivi rapporti tra governo ed opposizione nel quadro di una rinnovata dialettica parlamentare. Non sono in gioco, dunque, intese di potere, accordi sottobanco, compromessi ideologici o impensabili cedimenti di principio, ma è in gioco – più semplicemente – la capacità delle forze che hanno tratto legittimità dalla Resistenza ed hanno realizzato, senza snaturare la loro fisionomia ideale e politica, la Costituzione, di attuarla con reciproco anche se differenziato impegno per riavvicinare le istituzioni alla società civile e rafforzare in tale prospettiva, in un clima di sempre più intensa partecipazione popolare, la democrazia italiana.
7 – Nuovi rapporti tra governo e opposizione
Per muoversi in questa direzione è indispensabile un vigoroso aggiornamento della concezione politica dei centro-sinistra. E’ da questa esigenza che nasce il problema della impostazione di nuovi rapporti tra governo ed opposizione. Anche l’ori. Moro ha sottolineato, giustamente, che se si vuole ascoltare il paese non si può non ascoltare l’opposizione che dei paese rappresenta larghi settori. Ma ciò non è possibile se non si supera, nella concezione e nei fatti, quella tesi oltranzista della delimitazione della maggioranza parlamentare, tipico dell’immobilismo centrista, che l’on. La Malfa si ostina a difendere per circondare con una anacronistica cintura sanitaria la coalizione di centro-sinistra.
Occorre certamente chiarire con tutti i partiti, ed in particolare con il PCI, che alla tesi schematica della delimitazione della maggioranza parlamentare non si può contrapporre la tesi, altrettanto schematica, dei governo assembleare. Parlamento e Governo hanno funzioni costituzionalmente definite, e insurrogabili, nel nostro ordinamento. La maggioranza parlamentare sui cui si fonda l’investitura di legittimità dei governo non può non esprimere, con chiarezza, l’intesa tra partiti che hanno una comune valutazione dei problemi di politica interna, internazionale ed economica. E pienamente corretta, dunque, la distinzione costituzionalmente rilevante tra partiti legati da una intesa di governo e partiti che svolgono il ruolo dei l’opposizione. Ma distinzione non significa incomunicabilità. Vi sono materie nelle quali è indiscutibile la responsabilità complessiva dei Parlamento e la possibilità di coinvolgere, senza alterazione delle reciproche funzioni, governo ed opposizione. L’attuazione della Costituzione, ad esempio, implica con le responsabilità della maggioranza anche i diritti delle minoranze; la funzionalità dei Parlamento, l’esercizio dei poteri di controllo, il varo di riforme che interessano la complessità del paese e non mettono in discussione l’equilibrio politico, possono coinvolgere senza confusione alcun governo di opposizione. Non mancano, certamente, materie sulle quali il governo deve mantenere ferme le ragioni della sua investitura parlamentare, perché in caso diverso dovrebbe cedere il passo a nuove e diverse coalizioni, ma questa linea di condotta non può essere generalizzata acriticamente. Nell’affrontare il tema della riforma universitaria, tanto per limitarci ad un esempio significativo, occorre liberarsi da ogni complesso di inferiorità e responsabilizzare nel suo insieme il Parlamento dai momento che sarebbe una dimostrazione di forza, non già di debolezza, quella di riuscire ad ottenere anche il consenso dell’opposizione in una materia di così largo interesse nazionale.
Ecco perché siamo critici, in eguale misura, rispetto alla tradizionale delimitazione della maggioranza e al fallace rimedio dei governo di assemblea. Siamo per una concezione aperta anche all’apporto esterno dei governo di centro-sinistra, per nuovi rapporti tra governo ed opposizione, per un pluralismo autentico della lotta politica, per l’abbandono di quello schematismo asfittico che, applicando meccanicamente alla periferia la stessa formula dei governo nazionale, ha finito con li paralizzare o coi ridurre alla solita spartizione dei potere la vita democratica degli enti locali. Anche in questo campo, che dovrebbe essere ispirato a criteri di ampia articolazione democratica, il centralismo istituzionale ed il verticismo politico vengono ad avere conseguenze sempre più negative. Si tratta non già di spingere la vita locale sulla china dei qualunquismo o dei caso per caso ispirato a puri equilibri di potere, perché non vi è amministrazione che non sia politica, ma di sostituire all’automatismo delle formule l’incontro o lo scontro sui problemi reali che devono essere affrontati in sede locale e che sono, per loro natura, diversi da quelli che Parlamento e governo sono chiamati a risolvere a livello nazionale o regionale in chiave legislativa.
Il maggiore respiro pluralistico della lotta politica, che il centrosinistra dovrebbe fare proprio senza falsi schematismi, è in altri termini un modo per favorire al massimo lo sviluppo ad ogni livello della democrazia italiana. Bisogna sconfiggere, su questo punto, la tradizione trasformista che è purtroppo penetrata in tutti i partiti. Al tempo della battaglia per l’apertura a sinistra erano in molti a sostenere che i socialisti, per il solo fatto che erano all’opposizione, non potevano essere considerati democratici, ma è bastato attirarli nell’area di governo per riconoscere loro la patente di democrazia. Va superata la mentalità di chi continua a valutare la disponibilità democratica dei partiti nella misura in cui stanno o no al governo. I partiti, invece, sono democratici anche quando lottano all’opposizione e la loro battaglia non può non essere obiettivamente considerata, indipendentemente dalle finalità più o meno condivisibili, un apporto fisiologico allo sviluppo della democrazia.
In questa prospettiva c’è spazio per tutti i partiti, può svolgere una funzione decisiva un rinnovato centro-sinistra, assume un significato di crescita e di sviluppo democratico il nuovo rapporto tra governo ed opposizione. 1 comunisti polemizzano con noi quando, in forza di queste valutazioni, difendiamo la politica di centro-sinistra che non può essere identificata con una particolare formula di governo. Galloni ha detto, nel suo interessante intervento, che il centro-sinistra, quanto ad autosufficiente presunzione riformista, di svuotamento delle opposizioni o di recupero elettorale, è finito. Si può aggiungere che per noi, che abbiamo avuto una funzione determinante nella battaglia per l’apertura a sinistra, questa concezione del centro-sinistra non è mai esistita: il centro-sinistra non poteva, ne può, essere la variante riformista dei centrismo. Ma questa giusta critica deve portare a modificare impostazioni politiche, programmi, modi di essere della coalizione di governo. Non possiamo teorizzare, ora, il centro-sinistra “modesto” magari per coprire in qualche misura la nostra corresponsabilità e per rinchiuderci, come usano fare i moderati, nella constatazione che mancano alternative.
Il problema dei governo, in una efficiente democrazia parlamentare, non è un problema secondario o trascurabile: esso è la principale dimostrazione della capacità dei partiti di rappresentare il massimo di potenzialità politica di rinnovamento dei paese. Il centro-sinistra è diventato “modesto” perché i partiti che ad esso hanno dato vita non hanno dominato, a causa dei mancato chiarimento interno, la crescente involuzione che lo ha afferrato e sta per travolgerlo. Se non si opera, al più presto, una radicale inversione di tendenza è fatale che il centro-sinistra si riduca ad un neo-centrismo che ha minore spazio e dignità della stessa politica degasperiana. E’ dei resto impensabile che i nuovi rapporti tra governo ed opposizione, il confronto con il PCI, possano essere correttamente impostati sull’onda dei fallimento dei centrosinistra e nell’impotenza delle forze democratiche italiane.
Il centro-sinistra è ancora una coalizione parlamentare, e però appare sempre meno l’espressione coerente e lungimirante di una grande politica di rinnovamento nazionale. Ma è proprio per questo che una concezione rinnovata di questa politica, e il mutamento dei rapporti con l’opposizione e con i partiti che la rappresentano, devono essere il banco di prova di un reale cambiamento interno della DC e di tutte le altre forze democratiche.
E’ sul terreno politico e strategico che il centro-sinistra deve riprendere la direzione di marcia che noi, alle sue origini, avevamo indicato e che un’attuazione trasformista che non si è ancora conclusa ha progressivamente svuotato di contenuti; non si tratta solo di accentuare programmi, di supplire alla mancanza di fantasia politica con l’attivismo ministeriale, né di trovare intese parlamentari sottobanco tutte le volte che votazioni rischiose espongono il governo all’insuccesso come è capitato, ad esempio, nel caso dell’inchiesta parlamentare sul Sifar in cui la maggioranza si è rimangiata clamorosamente le tesi baldanzosamente difese nella commissione Affari Costituzionali.
Occorre qualcosa di sostanzialmente diverso: si tratta di superare la filosofia centrista che ha riassorbito, dopo la svolta iniziale, il centro-sinistra; di abbandonare una concezione ossessiva e di pura difesa della delimitazione della maggioranza parlamentare; di ravvivare il dialogo politico e l’intesa strategica tra i partiti della coalizione; di mutare il rapporto con le opposizioni e fra esse, in virtù della sua rilevante rappresentanza popolare, con il PCI favorendo e non rifiutando – nella politica costituzionale ed in tutte le materie che non coinvolgono l’equilibrio di governo – larghe convergenze parlamentari. Questo è il nuovo corso dei centro-sinistra che il voto dei 19 maggio ha richiesto e che il paese ancora attende. In questo senso non possiamo continuare a vedere nel centro-sinistra il vecchio mito riformista, né possiamo pensare ai nuovi rapporti tra governo ed opposizione, tra forze democratiche e PCI, come alla furbesca preparazione di una “grande coalizione” che polverizzi tutte le posizioni delle forze democratiche intermedie. Il vero obiettivo è quello di una valorizzazione complessiva, di uno sviluppo pieno, della democrazia italiana in tutte le sue componenti nell’ambito di un processo storico che coinvolge governo ed opposizione, ciascuno per la sua parte, nella costruzione di un moderno Stato democratico e costituzionale. Dal congresso comunista di Bologna sembra essere uscito un PCI deciso a conquistarsi una maggiore autonomia sul piano dei rapporti internazionali e disponibile, pur nella sua opposizione al centro-sinistra, per essere messo alla prova nell’attuazione della Costituzione repubblicana. Ma sono i partiti democratici pronti al confronto, alla sfida, alle distinzioni che non escludono possibili convergenze? La DC, in primo luogo, pronta a mettersi sulla strada di questa nuova politica? La risposta a questi interrogativi riporta in primo piano il tema dei rinnovamento interno di tutte le forze democratiche italiane.
8 – Revisionismo e via italiana al socialismo
Per queste ragioni il nuovo rapporto con il PCI investe, insieme ad una diversa condotta parlamentare dei governi, il modo di porsi delle stesse forze politiche. Il rapporto con i comunisti non può essere un rapporto idealmente disarmato. Occorre sviluppare un discorso politico generale culturalmente fondato, attento alle novità ed ai problemi interni ed internazionali, non un puro dialogo tra un governo disposto a salvare il proprio potere concedendo riforme ed una opposizione ridotta in modo indifferenziato a sindacato della protesta popolare. Per mettersi in questa direzione è necessario porre fine all’anticomunismo tradizionale. I partiti democratici, e prima fra tutti la DC devono tornare ad essere pur nella loro articolazione ideale interlocutori seri, preparati, che non accantonano i temi difficili, ma anzi si avvalgono di essi per favorire nel confronto un positivo revisionismo interno al comunismo italiano. Dopo un decennio di anticomunismo viscerale, in un paese in cui il dibattito culturale ha avuto grande influenza sulla stessa lotta politica, assistiamo al fatto singolare che sui grandi temi della libertà, dei pluralismo politico, dell’umanesimo socialista, il PCI riceve più spinte al revisionismo dal nuovo corso cecoslovacco che non dalla capacità delle forze democratiche italiane di porre con serietà culturale e politica questi problemi.
Eppure siamo nel paese in cui, fin dal suo sorgere il movimento marxista ha tratto dalla presenza culturalmente e politicamente viva dei Croce, dei Salvemini, degli Sturzo e dei Gobetti, spinte che hanno indiscutibilmente contribuito alla sua stessa evoluzione. Possiamo continuare a rinchiuderci, in un momento così aperto all’evoluzione che coinvolge anche le forze politiche, in rozzi schemi propagandistici o trovare evasione in nuovi e spregiudicati compromessi di potere?
La posta in gioco non è quella di gestire meglio il potere, di svolgere tra governo ed opposizione un gioco Celle parti finalizzato a tenere indietro lo spettro della contestazione, ma è quella di ricercare e costruire nuovi meccanismi istituzionali, economici, sociali, in corrispondenza alle inquietudini che sconvolgono la società contemporanea.
Per questo il dialogo deve prendere il posto della consueta rissa ideologica. Solo nel confronto leale, nella dialettica effettiva, le forze politiche possono essere sospinte sulla via di una concreta evoluzione ideale e storica.
C’è un interrogativo da porre con estrema chiarezza: cosa significa proporre, al nostro paese, una via democratica al socialismo? Abbiamo già detto che le forze politiche italiane, per costruire un moderno Stato democratico e costituzionale, devono fare i conti con il PCI e con le forze popolari che esso rappresenta, ma non è meno vero che i comunisti, se vogliono definire in concreto e non solo propagandisticamente una via al socialismo in Italia che sia effettivamente democratica, debbono cominciare a fare seriamente i conti con le forze politiche che comuniste non sono. La alternativa frontista alla DC, fatta di larghe concessioni al laicismo, alla stessa socialdemocrazia, alle frange più inquiete e meno espressive della tradizione politica dei cattolici democratici, è una prospettiva che rifugge da un confronto vero. Si può giungere, su questa via, all’alternativa di potere, che l’on. Amendola sembra preferire, ma il rischio è quello di preferire il vecchio alla costruzione dei nuovo.
Su questo punto essenziale deve svilupparsi un coerente revisionismo all’interno dei PCI. Non alludiamo, certamente, ad un revisionismo di marca socialdemocratica, ma alla necessità di meglio comprendere la peculiarità della situazione italiana evitando di tutto ridurre, dogmaticamente, ad un semplicistico schema di lotta di classe. Se, infatti, i parti dei governo vengono unicamente visti come forze di classe espressive dei capitalismo o del neo-capitalismo da superare mediante l’antagonismo, e l’unico antagonismo possibile è quello di una rigida egemonia comunista, per la sua posizione classista e di opposizione creativa, si cade in uno schema artificioso ed estremamente semplificato della realtà politica italiana.
Dalla svolta di Salerno in poi l’on. Togliatti, prima, e gli on. Ingrao e Berlinguer poi, hanno cercato in talune occasioni di cogliere la complessità positiva della realtà nazionale per elaborare un modello credibile di via italiana al socialismo. Ma le intuizioni e le riflessioni sporadiche non fanno, anche per i comunisti, una organica prospettiva politica. Il confronto non può prescindere da questa problematica.
Anche i comunisti devono valutare per quel che sono le forze laiche, il movimento socialista, la Democrazia Cristiana in una comprensione più profonda, meno contingente, della storia nazionale. Essi non possono ignorare che noi stessi, nel momento in cui poniamo il problema dei nuovi rapporti con il PCI, non possiamo essere considerati strumentalmente una pattuglia velleitaria e disponibile per il frontismo di domani dal momento che tendiamo a rappresentare, con la nostra proposta politica, l’intera Democrazia Cristiana per quanto di valido, e non di passeggero o di arbitrario, essa rappresenta nella tradizione pluralistica e democratica della politica italiana. I cattolici democratici non sono nati alla politica nel nostro paese per volontà dei Vaticano, né per essere il sostegno di massa ad un ordinamento economico e politico ingiusto e discriminatorio, ma si sono costituiti in partito popolare autonomo, aconfessionale, per trasformare lo Stato e costruire un nuovo tipo di società e rappresentano più che un antagonismo di classe un antagonismo di valori con i quali anche il PCI, al di là delle facili propagande, ha l’obbligo di misurarsi culturalmente e politicamente.
La Democrazia Cristiana, da questo punto di vista, rappresenta un anello essenziale della partecipazione popolare al potere di una rinnovata democrazia italiana uscita dal travaglio dei Risorgimento e della Resistenza ed ha storicamente una sua specifica ragion d’essere senza della quale le masse cattoliche, sganciate da una impostazione politica popolare e democratica, potrebbero tornare ad essere facile preda elettoralistica della conservazione e strumento di sostegno ad una svolta autoritaria. E’ questo un discorso che facciamo senza integralismi di sorta, lontani dalla pretesa di esercitare all’infinito un potere di governo dal momento che nessuna forza politica degna di questo nome può esaurirsi in questa funzione, ma con la ferma convinzione di essere stati nel passato e di voler continuare ad essere una grande forza popolare e democratica che, insieme ad altre forze popolari, si propone di trasformare la società e di costruire uno Stato effettivamente democratico.
Siamo, non meno di altri, interessati al superamento della logica razionalizzatrice e meramente consumista del neocapitalismo, che estende anziché ridurre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma riteniamo inseparabile la difesa della libertà, della dignità della persona in tutte le sue manifestazioni culturali o morali, da ogni trasformazione delle strutture economiche, sociali e giuridiche. La stessa esperienza cecoslovacca dimostra, anche ai comunisti italiani, che non basta eliminare le cause economiche dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo per rendere liberi poiché si assiste spesso nei paesi socialisti, alla generazione burocratica e poliziesca dei potere rivoluzionario quando mancano, a livello delle istituzioni e della società, autentiche garanzie. Giustamente Dubcek accusava i comunisti sovietici di avere, nel XX congresso, abbattuto il mito di Stalin ma di non avere creato le condizioni giuridiche, istituzionali, politiche, che evitassero allo stalinismo di ripetersi nella sua pratica assolutistica. E le stesse considerazioni valgono al livello dei movimento comunista internazionale dove la difesa della tesi dell’unità nella diversità, teorizzata dall’on. Togliatti nel memoriale di Yalta, rischia di diventare un alibi insufficiente se non è accompagnata dalla costruzione delle condizioni storiche e politiche, soprattutto in Europa, che consentono l’autonoma elaborazione ed il conseguente sviluppo delle vie nazionali e democratiche al socialismo.
Non è pretestuoso, quindi, ricordare al PCI che la elaborazione di un modello nazionale di via democratica ed una strategia internazionale pluralistica richiedono non tanto apprezzabili affermazioni di principio, quanto comprensione piena delle articolazioni politiche esistenti in Italia, come in Europa e nel più vasto arco mondiale, e confronto aperto e non puramente tatticistico con tutte le forze in campo. Ritorna, qui, l’esigenza di fondo di un dialogo fatto di serio confronto ideale, di onesta ricerca, che porti a misurarci con coraggio sulle rispettive posizioni culturali e politiche ed eviti la facile scorciatoia, spesso praticata dal PCI, di preferire la sollecitazione e l’assorbimento di frange inquiete ed eversive che quasi sempre esprimono quella dimensione sociologica, integrista, populista dei cattolici che rappresenta, alla luce dell’esperienza storica, la dimensione politicamente e culturalmente più arretrata nel complesso della vita democratica italiana.
9 – Il rinnovamento politico della DC
La problematica dei dialogo e dei confronto, che si intreccia con l’impostazione di nuovi rapporti tra governo ed opposizione nella dialettica parlamentare, richiede una diversa Democrazia Cristiana. Richiede, certamente, un analogo rinnovamento interno di concezioni politiche oltre che di classi dirigenti, in tutte le forze democratiche italiane. Ma non può sfuggire che la linea di condotta della Democrazia Cristiana è determinante nella caratterizzazione dentro e fuori l’area delle coalizioni di governo, dei dialogo politico nella società italiana.
Quando mai la Democrazia Cristiana sui temi di una problematica che passa anche all’interno dei PCI, sul tipo di società da costruire nel superamento dei consumismo neo-capitalista, sulle linee della politica internazionale, sulla necessità di uscire dai blocchi militari contrapposti per costruire una Europa diversa dove il pluralismo delle esperienze nazionali possa svolgersi con pienezza ad Est come ad Ovest, ha svolto con la necessaria dignità culturale e politica un autentico confronto di valori? La strategia dell’attenzione dell’on. Moro sembra essere, in questa direzione, un interessante avvio, ma tocca ancora una volta al coraggio ed all’iniziativa della sinistra politica del partito liberarla da talune ambiguità che permangono. Per questo il nostro impegno è rivolto, insieme ad altri obiettivi di rinnovamento interno, a liberare il discorso della Democrazia Cristiana verso il comunismo italiano ed internazionale da tutto ciò che è propagandistico, pretestuoso, finalizzato a mantenere contrapposizioni sterili e improduttivo politicamente. Non si può continuare a non riconoscere mai nulla di ciò che accade nel PCI dimenticando che dipende anche da noi, dalla nostra capacità di dialogo e di confronto, lo sviluppo di un revisionismo interno che può essere un elemento decisivo di evoluzione e di crescita della democrazia italiana.
Non è tempo né di scontri puramente propagandistici, né di confusioni sul terreno dei principi. E’ tempo di riprendere con slancio una battaglia ideale e politica che rinvigorisca e apra nuove frontiere alla democrazia italiana per rendere possibile un profondo rinnovamento delle istituzioni ed uno sbocco costruttivo alle tensioni della società civile: per questo noi chiediamo da tempo, nella Democrazia Cristiana, non un mero cambio di potere nella gestione interna, ma un effettivo cambiamento politico ed è per questo che poniamo sul tappeto anche i temi difficili sui quali tutti sono chiamati ad assumere precise posizioni. Non è la prima volta che ci assumiamo l’onere, nonostante le incomprensioni che possono derivarne, di aprire con coraggio prospettive nuove a tutto il partito. H nostro convegno vuole rispondere a questa esigenza e soltanto ad essa. Il disgelo della politica costituzionale, l’avvio di una nuova fase costituente, il rilancio dei patto di solidarietà che ha consentito dalla Resistenza in poi di far riprendere alla democrazia italiana il suo difficile cammino possono ancora valere, sia pure nelle distinzioni dei compiti, per trasformare le istituzioni e costruire uno Stato democratico in cui le grandi classi popolari svolgano con pienezza la loro funzione di protagoniste della storia dei nostro paese.
Luigi Granelli