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By noviia agency5 Marzo 2024In Luigi

SCUOLA E INDUSTRIALIZZAZIONE IN CALABRIA

Il tema che mi è stato affidato costituisce una grossa sfida alle capacità di sintesi che ognuno pensa di avere in maggiore o minore grado. Sarebbe infatti indispensabile collocare il rapporto “Scuola e industria” in un contesto generale il più possibile definito, tratteggiando in esso il quadro economico meridionale nelle sue componenti fondamentali, nella sua dinamica, nelle sue insopprimibili esigenze di natura sociale e civile. Si profila così la tentazione di abbozzare in primo luogo la “questione meridionale” nei suoi termini storici e attuali, e di approfondire poi i problemi dell’industrializzazione nel Sud e i problemi della scuola (in parte autonomi, in parte connessi), soffermandosi infine sui problemi particolari della Calabria. Questo schema fa tuttavia intravvedere un tipo di relazione che eccede le capacità di sopportazione di un uditorio. Mi sforzerò perciò di fare un discorso il più possibile sintetico sugli argomenti di carattere generale, del resto già ben noti in questa sede, e di tentare invece, nei limiti del possibile, un’indagine approfondita e significativa sui temi più specifici.

Per avere un filo conduttore che impedisca di scivolare, più o meno avvertitamente, su di un piano meramente tecnicistico, mi pare basti ricordare l’importanza fondamentale che il complesso di problemi racchiusi nella “questione meridionale” ha avuto nella storia del nostro paese ed ha tuttora nella nostra vita nazionale; si tratta di una questione che non si esaurisce certo nell’arretratezza economica e, quindi, nel pesante squilibrio che indebolisce il nostro sistema produttivo nel suo complesso, ma piuttosto di una questione che investe principalmente la prospettiva del riscatto civile e politico del Mezzogiorno, indispensabile per il formarsi di una autentica coscienza unitaria e popolare dello Stato democratico sorto con la Resistenza e sancito dalla Costituzione repubblicana. E ciò vale, soprattutto, per le future generazioni esposte fatalmente al rischio di essere attratte più dalla necessità di conquistare col benessere una vita dignitosa, che dal dovere di contribuire direttamente a quella continua battaglia democratica che sola può garantire una effettiva libertà. Se, giustamente, preoccupa la strozzatura che potrebbe colpire con forti conseguenze negative di carattere generale il processo di sviluppo della nostra economia, qualora non venissero debellate in tempo le cause strutturali dell’arretratezza meridionale, non merita certo minore interesse l’esigenza di concepire la stessa evoluzione delle strutture economiche nel quadro di un profondo rinnovamento delle istituzioni e del costume che solleva, in una parola, il problema del diffondersi e del consolidarsi di una effettiva vita democratica contro ogni forma di sopruso o di dominio clientelare. Non può essere dimenticato, specialmente nel momento in cui comincia a sorgere anche in Italia la tentazione, per molti aspetti positiva, di un approccio tecnocratico ai problemi della nostra crescita civile, il messaggio di libertà, di promozione democratica, di riscatto popolare, che ispirava la vigorosa e positiva polemica di uomini che da Dorso a Gramsci, da Gobetti a Salvemini e a Sturzo, ai tanti sostenitori della battaglia meridionalistica nel dopoguerra, hanno sempre giustamente interpretato la “questione meridionale” come problema centrale della democrazia italiana; così come non può essere accettato, evidentemente, il criterio di chi tende a vivere di rendita sulle battaglie ideali e pratiche dei tempi dell’unità o del fascismo o sull’intuizione del necessario intervento dello Stato nel Mezzogiorno con la sola giustificazione culturale e politica del “torto storico” da riparare, senza prendere coscienza dei limiti di tale intervento e delle profonde trasformazioni in atto anche in questa parte della società italiana.

Le esigenze di libertà e di progresso democratico si intrecciano indissolubilmente con le esigenze di ripresa e di autosufficienza economica del Mezzogiorno. Perciò il problema della scuola, inteso come promozione civile e non solo come creazione degli addetti necessari a sostenere lo sviluppo economico, e il problema della industrializzazione, inteso non come importazione indiscriminata di modelli produttivi ma come mezzo concreto per avviare una ripresa economica che non dimentichi le particolari condizioni ambientali dell’Italia meridionale, rappresentano oggi – sia pure in termini di larga massima – i problemi più rappresentativi della configurazione attuale della “questione meridionale”. Di fronte ad una questione meridionale così concepita si è fatta strada, in Italia, la coscienza dei limiti di una politica economica puramente riparatrice che si proponga soltanto di creare una parità di condizioni tra le diverse zone del paese, facendo della effettiva unificazione economica e sociale un obiettivo indiretto, mentre la classe dirigente è venuta via via convincendosi, specie negli ultimi anni, della necessità di raggiungere nel quadro della programmazione economica e mediante interventi diretti, non più solamente infrastrutturali, il fine del superamento degli squilibri geografici e di settore condizionando e orientando il libero gioco delle forze di mercato.

1. Infrastrutture e interventi diretti nel sud.

Ma come si realizza in concreto, con riferimento al permanere dell’arretratezza meridionale, questo passaggio dalla fase infrastrutturale alla politica degli interventi diretti nel quadro della politica di piano? Quali problemi solleva questa nuova linea di intervento a livello della politica scolastica e degli sforzi messi in atto per industrializzare il Mezzogiorno? E’ questo il compito che mi pare necessario affrontare, senza peraltro dimenticare il contesto generale sinteticamente richiamato nel prendere in considerazione i temi più specifici della mia relazione.

La situazione di inferiorità delle regioni meridionali viene per la prima volta aggredita in modo organico con la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, abbandonando lo schema tradizionale dell’intervento rivolto frammentariamente ad ovviare alle più palesi insufficienze, o della legislazione di favore per rimediare a situazioni divenute insostenibili. La Cassa nasce con una esplicita impostazione programmatica a lungo termine (dieci anni, successivamente portati a dodici e poi ancora a quindici) per l’esecuzione di un piano generale di infrastrutture, prevalentemente rivolte al miglioramento dell’attività agricola e alla predisposizione delle condizioni idonee a favorire lo sviluppo dell’industria.

La dottrina sottesa alla creazione della Cassa è quella che indica nella mancanza di “capitale fisso sociale” (strade, ferrovie, porti, impianti elettrici, servizi di varia natura) l’ostacolo principale alla industrializzazione. “L’apprestamento di tali attrezzature avrebbe dovuto avere l’effetto di attenuare, se non eliminare, la non convenienza alla localizzazione industriale nel Mezzogiorno, riducendo almeno parte di quegli svantaggi che un operatore privato avrebbe incontrato nella costruzione e nella formale gestione di un impianto industriale. Tuttavia, avviata l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno, man mano che l’azione procedeva, si venivano a profilare con sempre maggiore chiarezza le possibili obiezioni a questa impostazione. L’approccio settoriale doveva fatalmente dimostrarsi insufficiente e, per conseguenza, quello globale si mostrava come il solo capace di essere risolutivo”. (1)

La fase della preindustrializzazione (“primo tempo”), sviluppatasi dal 1950 al 1957, ha avuto appunto, come principale obiettivo, la valorizzazione agraria da un lato, e la creazione delle infrastrutture generali dall’altro. Per quanto riguarda l’industrializzazione, si contò prevalentemente sull’intervento della privata iniziativa, varando un insieme di provvedimenti di carattere creditizio e di incentivazione fiscale.

Nella seconda fase si è passati ad una puntualizzazione più precisa degli obiettivi, dando priorità alla industrializzazione con la emanazione della legge 29 luglio 1957, n. 634, la quale però è entrata concretamente in azione solo verso la metà del 1959. Tale legge, insieme al potenziamento dei tre Istituti speciali di credito a medio termine Isveimer Irfis e Cis creati nel 1953, allargò la base creditizia autorizzando tutto il sistema nazionale del credito a medio termine ad intervenire nel finanziamento industriale del Mezzogiorno praticando lo stesso tasso di interesse dei tre Istituti speciali. Due anni dopo, con la legge 30 luglio 1959, n. 623, venne affrontato il problema delle medie e piccole industrie e dell’artigianato, consentendo finanziamenti al tasso del 3%, e introducendo un primo criterio selettivo, fondato su un sistema di priorità determinate in base al settore e alla localizzazione.

Proprio negli anni a noi più recenti si è venuto invece delineando un nuovo indirizzo nella politica di intervento a favore del Meridione. Pur continuando nella politica generale di infrastrutture, di valorizzazione dell’attività agricola, e di incentivazione creditizia e fiscale, e anzi proprio per assicurare agli investimenti infrastrutturali il massimo di effetti moltiplicativi collaterali, è apparso chiaro che la creazione di un meccanismo autonomo di sviluppo nelle regioni meridionali deve soprattutto puntare a cogliere le occasioni di investimento che talune “imprese motrici” pubbliche o private, quasi sempre di grandi dimensioni, hanno determinato con il loro insediamento in alcune zone meridionali.

Ci si propone cioè di stimolare la creazione di una piccola e media industria complementare e collaterale rispetto ai grandi complessi, nei quali si sostanzia il “polo di sviluppo”, e a tale scopo si tenta una prima discriminazione spaziale degli incentivi e un primo coordinamento tra gli incentivi, le misure creditizie e gli altri tipi di intervento, in particolare quello relativo all’assistenza tecnica ed alla formazione dell’elemento umano.

La materia delle aree e dei nuclei industriali che discende da tale impostazione, avviata fra il 1960 e il 1961, è tuttora in fase di realizzazione e sarebbe quindi prematuro dare giudizi sul grado di efficienza o di dinamismo delle singole aree, anche perché evidentemente esistono fra le stesse aree differenze di opportunità, di economie esterne, di tradizioni. Certo lo strumento dell’area, per essere efficiente nell’attrarre nuove iniziative industriali e nel promuovere e realizzare un’ampia trasformazione economico-ambientale, non deve essere viziato in partenza dalla pratica clientelistica più vieta tendente a dilatare i suoi confini oltre i limiti di ogni possibile azione (al fine di conglobare un numero sempre maggiore di collegi elettorali), ma anzi deve realizzare localmente una coagulazione di interessi tale da dar vita ad organismi dinamici, capaci di assumere effettivamente il compito di attrezzare e gestire convenientemente una determinata area territoriale.

D’altro lato il sistema economico che viene formandosi nel Sud non può risultare vincolato ad una pratica frattura fra “poli di sviluppo” e cosiddette “zone marginali”, che sono cioè quelle ove non è producente né serio prevedere investimenti industriali, ma deve poter contare sulla diffusione territoriale di centri intermedi adeguatamente attrezzati e capaci di regolare il processo di assestamento delle aree marginali e di evitare franamenti totali verso le aree industrializzate con iniziative di grande dimensione. E’ questa una delle ragioni che suggerisce di studiare per tempo anche i problemi della piccola e media industria nell’economia meridionale e di prevedere, nell’ambito della politica di piano, misure efficaci e tempestive riguardanti l’area intermedia tra le “zone marginali” ed i “poli di sviluppo”.

2. Investimenti e occupazione.

Limitandoci per ora ad un bilancio macroeconomico della politica a favore delle regioni meridionali (vedremo più avanti specificamente i dati riguardanti l’industria) notiamo per talune voci un peggioramento relativo della posizione del Sud-Isole rispetto al Centro-Nord.

La partecipazione del prodotto netto meridionale sul totale nazionale, dopo essere scesa al 22,7% alla fine del decennio 1951-60, sale al 23,5% nel 1962, risultando tuttavia inferiore al 24,2% del 1951. Il lieve miglioramento realizzato dal 1960 al 1962 è da ricollegare in gran parte al favorevole risultato delle due ultime annate agricole, mentre il prodotto netto derivante dal settore industriale manifesta una progressiva riduzione, dal 14,9% del totale nazionale del 1951, al 14% nel 1960 al 14,2% nel 1962.

La posizione produttiva del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord si presenta alla fine del 1962 ancor più debole che nel 1951, tanto che il reddito pro-capite delle regioni meridionali pur essendo più che raddoppiato tra il 1951 (110.900) e il 1962 (244.500 lire), scende nel periodo considerato dal 59,5% della media nazionale al 58,2%. Evidentemente lo sviluppo impetuoso realizzatosi nel Centro-Nord indebolisce la posizione relativa del Sud: infatti il reddito nazionale lordo è aumentato nel Sud ad un saggio medio annuo del 4,3% fra il 1951-57 e del 5,1% fra il 1957-62, contro aumenti del 5,5% e del 7,3 al Nord negli stessi periodi.

L’entità dello sforzo a favore delle regioni meridionali è tuttavia documentata dalla dinamica degli investimenti.

In tutto il periodo considerato gli investimenti nel Mezzogiorno sono aumentati ad un tasso superiore a quello registrato nel Centro-Nord, sia per quanto riguarda l’attività agricola, sia per quanto riguarda le attività industriali.

Nell’ultimo triennio, in particolare, essi hanno realizzato nel Mezzogiorno una accelerazione più marcata che nel resto del Paese; inoltre, mentre nel periodo 1951-57 gli investimenti nel Mezzogiorno erano concentrati essenzialmente nell’agricoltura, nel periodo successivo i saggi maggiori di incremento sono stati realizzati negli investimenti industriali che, nell’ultimo triennio, si sono accresciuti al saggio medio annuo del 26,7%.

L’incremento degli investimenti – come ha osservato il Ministro Pastore nella relazione sulle attività di coordinamento del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno – non ha peraltro determinato un andamento dell’occupazione altrettanto soddisfacente. L’aumento dell’occupazione extra-agricola è stato nel Mezzogiorno del 2,3% all’anno, contro una media nazionale del 2,8%.

Ciò delinea chiaramente il diverso tipo di investimenti nel periodo in esame: nel Nord destinati pressoché esclusivamente ad attrezzature produttive di immediata efficacia; nel Sud, invece, in prevalenza ad opere a lenta e graduale produttività.

Dei quattro milioni circa di nuovi posti di lavoro creati nei settori extra-agricoli nel periodo 1950-62: 1.700-1.750 mila unità sono state assorbite nell’Italia centro-orientale, 1.400 mila unità nell’Italia nord-occidentale, e soltanto 800 mila unità nel Mezzogiorno. Il ritmo inferiore di aumento registratosi nel Mezzogiorno è dovuto per le attività industriali in parte allo sviluppo dei settori di base (siderurgia e chimica) con elevato rapporto di capitale per addetto, in parte al carattere particolare dello sviluppo del Meridione che è avvenuto più in “profondità” che in “estensione”, come è testimoniato dalla riduzione delle unità produttive riscontratasi in alcuni settori (industrie estrattive, alimentari, abbigliamento, legno e materiali da costruzione).

Tuttavia, anche nell’occupazione, nell’ultimo quinquiennio il ritmo di incremento nel mezzogiorno è stato superiore a quello del periodo precedente: 430 mila unità nel 1957-62 contro le 370 mila del settennio 1950-57. Nello stesso periodo 1950-62, l’incremento naturale delle forze di lavoro meridionali (tenuto conto anche dell’aumento del lavoro femminile e dell’aumento della frequenza scolastica) è stato di 1.650 mila unità, di cui meno della metà hanno trovato lavoro nell’ambito del Mezzogiorno.

3. Aspetti dell’industrializzazione meridionale.

Nel tratteggiare il quadro delle modificazioni intervenute nell’economia meridionale dal 1950 al 1962, abbiamo già avuto occasione di notare come la posizione relativa del prodotto netto derivante dall’industria meridionale si sia addirittura indebolita rispetto al Centro-Nord. Ciò evidentemente non significa un peggioramento in senso assoluto. Come osservammo all’inizio, la politica di industrializzazione nel Mezzogiorno è stata avviata con un certo ritardo rispetto alla politica generale di intervento, e probabilmente solo con la impostazione delle aree e dei nuclei di sviluppo opportunamente selezionati, nei quali deve concentrarsi e intensificarsi la politica di incentivi, è possibile intravedere un tono nuovo nella economia meridionale.

Certo le pubblicazioni ufficiali, con le lunghe cifre dei finanziamenti richiesti, istruiti, concessi, distinti  fra i vari enti e istituti abilitati al credito industriale, suddivisi fra i vari settori merceologici e ripartiti fra le varie regioni – pur testimoniando lo sforzo sin qui fatto – non riescono a darci il quadro di un settore vivo, in fase autentica di espansione. E’ appena il caso di osservare che sarebbe evidentemente semplicistico e illusorio attendersi dalle statistiche la delineazione di un quadro vivo, tuttavia credo si possa ammettere che la fase dell’industrializzazione nel Sud è appena iniziata.

Dalla grossa pubblicazione della Cassa per il Mezzogiorno, edita lo scorso anno (2), i cui dati analitici relativi all’industria occupano il periodo 1951-58, si rilevano incrementi anche sensibili negli indicatori “fisici” dell’apparato industriale del Mezzogiorno. I dati, che non riportiamo perché richiederebbero un troppo lungo discorso non essendo fra di loro rigorosamente comparabili, indicano un miglioramento della posizione relativa del Sud per quanto riguarda gli operai occupati, le unità industriali, la dimensione delle stesse e l’ammontare complessivo dei salari. Fu tuttavia solo nel 1957 che si produsse un mutamento sensibile nell’indirizzo di politica economica a favore del Mezzogiorno, con l’approvazione della legge che sanciva fra l’altro l’obbligo per le aziende a partecipazione statale di destinare il 40% dei loro investimenti ad iniziative del Mezzogiorno, cui si affiancarono gli incentivi offerti dal ritrovamento di fonti energetiche di grande importanza. Si determinarono così una serie di investimenti, pubblici e privati, di grandi dimensioni, destinati a rappresentare l’ossatura del sistema industriale in via di formazione nelle regioni meridionali. L’andamento dei dati statistici relativi al settore industriale ne risente però con circa due anni di sfasamento, a causa dei ritardi nell’esecuzione delle scelte imprenditoriali e ai tempi tecnici necessari per la realizzazione degli impianti produttivi.

La quota di investimenti lordi fissi realizzati nel Mezzogiorno è passata da una media del 16% del totale nazionale nel periodo 1951-59, al 20% nel 1960 e nel 1961. Tale percentuale è stata ancora maggiore nel 1962, raggiungendo il 24%. Il processo di espansione industriale si è basato, nei primi anni, su una serie di iniziative per la creazione di industrie di base di grandi dimensioni che copriranno, per i prossimi anni, il fabbisogno del Mezzogiorno delle principali materie prime. Infatti, nel periodo 1951-59, circa il 40% degli investimenti nell’industria manifatturiera si è diretto verso il settore chimico. Un ammontare di poco inferiore è stato assorbito dai settori tradizionali delle regioni meridionali, in quanto un certo processo di ampliamento e miglioramento degli aspetti organizzativi e tecnologici venne realizzato all’interno delle vecchie strutture produttive dei settori agricolo-alimentare e dei materiali da costruzione.

Un cambiamento di indirizzo nella concentrazione settoriale degli investimenti può essere rilevato negli anni più recenti: il settore agricolo-alimentare partecipa al totale degli investimenti con il 23% nel 1959, con il 22% nel 1960, con il 10% nel 1961 e con il 12% nel 1962. Quello dei prodotti tessili e dell’abbigliamento passa dal 12% nel 1959 al 4% nel 1962; i materiali da costruzione mostrano invece una lieve tendenza all’aumento, dopo la notevole flessione verificatasi nel 1960. Nuovamente in ascesa il settore chimico, che passa dal 10% nel 1959, al 24% nel 1960, al 25% nel 1961, al 38% nel 1962. Il settore sidero-metallurgico e meccanico presenta una flessione nei primi mesi del ’62, dopo la considerevole ascesa fatta registrare dal 13% del 1959 al 19% del 1961. Complessivamente, nel 1961 e nei primi otto mesi del 1962, i settori della meccanica, della metallurgia e della chimica rappresentano circa il 60% dell’investimento complessivo, mentre l’importanza relativa dei due settori tradizionali si è notevolmente ridotta, passando a quasi il 20% del totale.

Evidentemente in questi ultimi anni il processo di industrializzazione del Sud ha compiuto dei progressi sensibili, anche se la valutazione in termini di occupazione e soprattutto di reddito prodotto (rapportata agli investimenti lordi) non è altrettanto positiva. Si può però ricordare che si è trattato, per una larga quota, di investimenti in settori ad altissima intensità di capitale, e, in secondo luogo, che il numero dei nuovi posti di lavoro è in realtà più elevato dell’incremento di occupazione complessiva, poiché i processi di trasformazione e di ammodernamento, verificatisi nella struttura industriale preesistente, hanno provocato flessioni nell’occupazione in alcune attività industriali, in particolare nelle unità locali con meno di 6 addetti.

Per quanto riguarda la scarsa produttività degli investimenti, ci pare di poter cogliere un’osservazione avanzata nel I volume del bilancio di 12 anni della Cassa. E cioè che gli investimenti nell’industria meridionale non potevano produrre incrementi di reddito elevati poiché erano diretti ad un’industria nascente, incapace di condurre ad una redditività pari a quella che può derivare da un apparato industriale funzionante da decenni a pieno regime, con impianti ammortizzati, con mercati da tempo conquistati ed, in linea generale, con una salda tradizione su cui far leva per gli ulteriori sviluppi.

Dallo schematico panorama statistico tracciato risulta che l’industria meridionale ha dunque dovuto affrontare ostacoli veramente massicci: la teoria economica poteva indicare quelli relativi alla carenza di capitale fisso sociale, ma la gamma delle voci che si possono ricondurre sotto la dizione “economie esterne” è assai più ampia, e comprende fattori economici, sociali, culturali, ambientali. Un’indagine condotta dal Centro Studi della Cassa per il Mezzogiorno (3) ha esaminato le più interessanti modalità attraverso le quali si sviluppa il processo di industrializzazione. Sono stati intervistati gli stessi operatori industriali e ad essi sono state rivolte domande concernenti la localizzazione dell’impianto, la provenienza dei promotori, il reclutamento del personale occupato, le difficoltà incontrate nella fase di realizzazione degli impianti e nella successiva fase di funzionamento, il grado di utilizzo della capacità produttiva. Poiché evidentemente non è nostro compito esaminare tutti gli aspetti del problema della industrializzazione nel Sud, ci limiteremo ad esaminare quell’aspetto che più da vicino tocca il tema scuola-industria, e cioè il problema della manodopera. L’indagine ha rilevato che il 90% di tutto il complesso degli addetti negli stabilimenti esaminati è reperito nello stesso comune o nei comuni vicini; il 6% nel rimanente Mezzogiorno, ed il residuo 4% nel Centro-Nord, cui va incluso anche una quota modestissima di personale straniero.

E’ interessante rilevare che il reclutamento nella stessa zona in cui sorge l’impianto avviene secondo proporzioni sempre più forti man mano che si passa ai gradi meno elevati: è del 63% per i dirigenti, del 17% per gli impiegati, dell’88% per gli operai specializzati e qualificati, del 94% per gli operai comuni e i manovali.

E’ altresì rilevante che fra gli impiegati, se si opera la distinzione fra amministrativi e tecnici, la percentuale si modifica rispettivamente in 83% e 65%. Un andamento approssimativamente inverso hanno le percentuali del personale proveniente dalle regioni centro-settentrionali: il distacco fra le percentuali degli impiegati tecnici e di quelli amministrativi è ancora più forte: 23% e 7% rispettivamente. Risulta evidente la carenza di personale tecnico: gli impianti oggetto di studio hanno dovuto reclutare circa un quarto del loro personale impiegatizio tecnico fuori dell’area meridionale.

Se poi si distinguono le iniziative a seconda della dimensione economica dell’impianto, si osserva che quelle con investimenti superiori al miliardo hanno reclutato nel Centro-Nord l’83% dei dirigenti, il 23% degli impiegati (amministrativi e tecnici) e il 17% degli operai specializzati e qualificati. Questi valori si giustificano principalmente con due motivi: innanzitutto le aziende più grandi necessitano in maggior misura di personale specializzato e qualificato meno facilmente reperibile nel sud, inoltre queste stesse industrie, impiantate prevalentemente da operatori centro-settentrionali, hanno trovato più conveniente trasferire nei nuovi stabilimenti meridionali personale tecnico esperto, oltre a quello direttivo, già alle loro dipendenze.

La stessa indagine cita, nell’esaminare le difficoltà incontrate nel corso della realizzazione o dell’ampliamento degli impianti, che il 30% degli imprenditori che hanno incontrato difficoltà (71% degli intervistati) hanno lamentato mancanza di manodopera tecnicamente preparata per la costruzione degli impianti, mentre per il funzionamento degli impianti addirittura il 41% degli imprenditori lamenta l’irreperibilità in loco di manodopera qualificata e specializzata. Tuttavia la maggior parte degli industriali ha ammesso che, dopo un periodo di apprendistato anche abbastanza breve, le unità disponibili nella zona si adeguano alle nuove incombenze ed anzi si dimostrano volenterose di migliorare la propria posizione e la propria preparazione tecnica. Questa constatazione è certamente confortante, ma non ci può far dimenticare che il problema è gravissimo e richiede una soluzione tempestiva.

Non si possono ignorare i pericoli di una industrializzazione importata massicciamente con mentalità, metodi, personale direttivo, congeniali ad altre zone del paese. E’ da respingersi – sostiene l’Ing. Martinoli in una relazione presentata a Bruxelles nel 1961 ad una conferenza sulle economie regionali – un processo di industrializzazione legato a spinte esclusivamente esterne “sia come iniziativa, sia come dirigenti, quadri, tecnologie, macchine, impianti, istruttori, manodopera specializzata, senza magari neppure preoccuparsi di sviluppare contemporaneamente un mercato locale, considerando cioè gli stabilimenti del Sud solo come dei reparti staccati di maggiori aziende settentrionali occorre adoprarsi onde far partecipare in modo attivo le energie locali, renderle partecipi dell’azione, addestrarle attraverso una esperienza propria che non escluda nemmeno il commettere, almeno in una certa misura, degli errori iniziali. Si tratta di operare un “innesto”, ma questo potrebbe essere sterile se le linfe locali non venissero portate in circolo a rendere vivo e vitale il processo così attivato”. Queste considerazioni mi trovano totalmente consenziente; la creazione, nel Mezzogiorno, di un meccanismo autonomo di sviluppo presuppone il diffondersi di una mentalità imprenditoriale, l’accumularsi di un capitale fisso di esperienze tecniche, il crearsi di uno spontaneo senso del rischio e dell’iniziativa oltre al senso della partecipazione diretta anche nel personale generico necessariamente subordinato. Tutto ciò porta in primo piano il discorso sulla rispondenza della scuola alla trasformazione in atto e quelle prevedibili della società meridionale, sia dal punto di vista qualitativo e quantitativo che da quello dei tempi indispensabili a breve e a lungo periodo.

Ed è di fronte all’esigenza di superare a livello del fattore umano, le difficoltà del processo d’industrializzazione, che il discorso di politica economica si incontra con il discorso della politica scolastica.

4. Livelli di scolarità.

Nel 1951 si aveva ancora nel Mezzogiorno il 24,4% di analfabeti nella popolazione con oltre 6 anni di età, contro il 6,4% del Centro-Nord. I motivi che hanno agito nel senso di mantenere nel Sud questo grave stato di inferiorità sono di natura molteplice e probabilmente fra di loro interreagenti: fra di essi, senza dubbio, occorre ricordare la povertà della zona con conseguente scarsità di mezzi finanziari da parte dei comuni per l’approntamento di scuole in numero adeguato alla popolazione in età scolastica e mancanza di mezzi per l’assistenza agli alunni bisognosi, povertà di molte famiglie e scarsa consapevolezza dell’importanza dell’istruzione, carenze anche da parte dello Stato, che avrebbe dovuto intervenire già da diversi decenni per rimediare alle condizioni di arretratezza scolastica delle regioni meridionali.

Dalla ripartizione degli analfabeti per gruppo di età si ricava che più di 1/3 del totale degli analfabeti meridionali nel 1951 avevano più di 55 anni e quindi sono oggi in gran parte in età non lavorativa. Circa i restanti 2/3, che rappresentavano l’11,2% della classe di età compresa tra i 6 e i 14 anni, il 16,7% della classe di età compresa fra i 14 e i 25 anni, il 23,4% della classe di età compresa fra i 25 e 55 anni, è difficile dire – in mancanza dei risultati del censimento 1961 – quanti siano stati recuperati dall’azione della scuola popolare, o dei familiari, o personale, e quanti i nuovi entrati per non aver frequentato la scuola elementare in età dell’obbligo o per analfabetismo di ritorno a causa di istruzione elementare incompleta.

D’altra parte occorre ricordare (anche prescindendo da considerazioni sul valore intrinseco della cultura) che ai fini della stessa formazione professionale necessaria per l’inserimento nella vita produttiva ad un livello dignitoso non basta saper faticosamente leggere e scrivere ma occorre almeno avere completato gli 8 anni della scuola dell’obbligo. Un primo sforzo è stato compiuto nel settore delle scuole materne, ritenute da molti uomini della scuola un mezzo efficace per ottenere che i bambini appartenenti alle categorie più disagiate e con carenza di azione educativa familiare frequentino la scuola dell’obbligo. Rispetto al 1950-51, quando solo il 24,7% dei bambini meridionali in età da 3 a 6 anni frequentava una scuola materna, si è passati nel 1958-59 al 36%, che si mantiene tuttavia ancora sensibilmente inferiore alla percentuale del 53,6 conseguita nello stesso anno nel Centro-Nord.

Per quanto riguarda la scuola elementare, gli indici sono tuttora molto sconfortanti. Per effetto del sensibile aumento della popolazione scolastica, dovuto sia alla maggior natalità che al graduale diffondersi della consapevolezza dell’utilità dell’istruzione, cui non ha fatto riscontro un analogo ritmo di incremento delle aule e degli insegnanti, è aumentato l’indice di affollamento, il che rappresenta un dato pregiudizievole per l’efficacia didattica della scuola elementare. Tuttavia si è verificato un miglioramento nel rapporto iscritti per insegnante e una sia pur lenta e graduale riduzione nel numero di abbandoni che avvengono tra un anno e l’altro nelle singole scuole elementari. Infatti nel Mezzogiorno su 100 viventi in età media 10-13 anni, 69,4 hanno conseguito la licenza elementare nel 1958, contro 54,8 nel 1951. Nel Centro-Nord la corrispondente percentuale di licenziati ha raggiunto nel 1958 il 97,2% il che significa che si è abbastanza vicini al totale conseguimento della licenza elementare da parte di tutti i ragazzi.

La non disponibilità di rilevazioni analitiche più recenti ci costringe ad utilizzare dati che saranno ulteriormente migliorati – come auguriamo – negli anni a noi più vicini. La recentissima istituzione della scuola media unica per il completamento dell’obbligo scolastico, ad esempio, rende scarsamente significativi i dati che si riferiscono alla ripartizione degli alunni fra la scuola media e la scuola di avviamento. Ci limitiamo pertanto a ricordare che nel 1958, nel Mezzogiorno, su 100 viventi in età 14-16 anni, 21,5 hanno conseguito la licenza di scuola media o di avviamento, (14,3 nel 1951), contro 35,4 nel Centro-Nord (22,1 nel 1951). Le cifre testimoniano, anche per il Centro-Nord, il basso livello di scolarità esistente rispetto al disposto costituzionale sulla scuola dell’obbligo; un miglioramento si è avuto negli anni recenti, il tasso di scolarità è salito infatti nel 1960 al 65% nel Nord e al 42% nel Sud, tuttavia stime attendibili fanno salire la media nazionale dei licenziati al 40-42% nell’anno 1961-62 (31,1% nel 1958), il che indica che oltre la metà dei ragazzi non assolvono all’obbligo scolastico fino al 14° anno di età o comunque non conseguono una licenza di scuola media inferiore.

L’aumento del numero dei licenziati dalla scuola secondaria inferiore ha avuto come conseguenza l’incremento dei giovani in età 14-19 anni che proseguono gli studi del grado successivo (classico, scientifico, magistrale, tecnico e professionale). Il tasso di scolarità riferito al 1960 è tuttavia basso: nel Centro-Nord 20% e 17% nel Mezzogiorno. Questi dati sono un indice eloquente della scarsa entità delle leve che si preparano ad entrare nella categoria dei quadri intermedi e dei quadri superiori.

Dal 1951 al 1958 gli iscritti nelle scuole medie superiori in Italia sono aumentati del 62% (59% nel Centro-Nord e 60% nel Mezzogiorno), con una diminuzione, in termini percentuali, degli iscritti nelle scuole scientifico-umanistiche ed un aumento degli iscritti negli istituti tecnici. Ciò ha portato ad un livellamento fra i due indirizzi nel Centro-Nord, mentre nel Sud, pur essendosi attenuata la differenza fra i due indirizzi si è ancora lontani dalla parità delle posizioni, con una netta prevalenza degli iscritti nei licei e negli istituti magistrali (57,6%) su quelli degli istituti tecnici (37,4) e degli istituti professionali (5%). Un ulteriore progresso è stato compiuto negli anni più recenti. Nel periodo 1951-52 1959-60, infatti, l’espansione dei licenziati dalle scuole medie superiori appare particolarmente elevata, raggiungendo un incremento del 71% al Nord e del 64% nel Sud. Soprattutto notevole è l’incremento dei licenziati dagli Istituti tecnici: 116% al Nord e 172% al Sud, e dagli istituti professionali: 94% al Nord e 108% al Sud. Anche gli indici riguardanti l’aumento del numero delle scuole, delle classi e degli insegnamenti presentano incrementi considerevoli: se però si scende a valutazioni più analitiche risultano evidenti le gravi lacune che ancora sussistono sia nel rapporto alunni insegnanti che nel settore dell’edilizia scolastica.

L’istruzione universitaria ha fatto registrare una rilevante espansione nel periodo 1951-61, essendo pari al 22% nelle università settentrionali e al 9% nelle università meridionali per gli iscritti in corso e fuori corso. Per gruppi di facoltà si rileva un minore incremento nel sud rispetto al Nord sia negli iscritti del gruppo giuridico che in quelli del gruppo letterario. E’ diminuito invece nel Nord il gruppo agrario che nel Sud è rimasto pressoché stazionario. Scarsi risultano purtroppo gli incrementi per la facoltà di ingegneria sia al Nord che al Sud e addirittura molto negativo il decremento verificatosi nel Mezzogiorno nelle facoltà del gruppo scientifico (22%).

All’espansione verificatasi nell’ambito degli iscritti non corrisponde un incremento nel numero dei laureati: nel Nord si registra, nel decennio, un incremento medio del 2% – che appare assai modesto se lo si confronta con i tassi di espansione precedentemente segnalati – e nel Mezzogiorno si verifica addirittura una lieve diminuzione complessiva dello 0,1% in dieci anni. Al termine del periodo considerato, cioè nell’anno accademico 1959-60, i licenziati dall’Università nel complesso ammontano soltanto a 13.440 unità al Nord e a 7.183 unità nel Sud.

5. Il fattore umano nel processo di sviluppo.

Le cifre che abbiamo via via citato testimoniano i progressi conseguiti dalla scuola in Italia, e nel Mezzogiorno, nei dieci anni trascorsi, ma sono altresì indicativi del ritmo ancora scarso di incremento dei licenziati dei diversi ordini e gradi in rapporto alle esigenze di progresso della società italiana. Vi è stato infatti, anche indipendentemente da una specifica politica di scolarizzazione, un incremento spontaneo dei tassi di scolarità che è probabilmente destinato a continuare e rende quindi più urgente l’approntamento di strutture scolastiche adeguate. D’altro canto, prima a livello di studiosi e di esperti e successivamente anche a livello dell’opinione pubblica più attenta, si è andata maturando una più profonda consapevolezza dei rapporti esistenti fra processo di sviluppo economico e sociale e strumenti di formazione culturale e professionale, fra i quali la scuola occupa un posto certo preminente. Le trasformazioni in atto nel sistema produttivo italiano, il passaggio cioè da un’economia di tipo prevalentemente agricolo-artigianale ad un sistema economico industriale moderno, la fuga dalle campagne, le migrazioni interne, l’intensa urbanizzazione, l’aumento del benessere, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, il profilarsi di una civiltà dei consumi, hanno profondamente modificato nel corso del decennio 1951-61 i caratteri della società italiana.

Il mantenimento dell’elevato saggio di sviluppo realizzato negli ultimi anni richiede – fra l’altro – la disponibilità di manodopera qualificata: essendo ormai praticamente esaurita la riserva di manodopera costituita dalla disoccupazione (e coloro che ancora fossero disoccupati o che escono dall’agricoltura sempre più difficilmente potranno inserirsi nei circuiti produttivi tecnologicamente sempre più evoluti), i nuovi incrementi di produttività dovranno contare sulla qualificazione della manodopera a tutti i livelli e sui rapidi adattamenti ai nuovi procedimenti produttivi introdotti dal progresso tecnico.

Soprattutto la capacità di adattarsi rapidamente alle modificazioni tecnologiche può essere ottenuta su di una base di preparazione scolastica che, anche per le mansioni generiche, richiede il completamento della scuola dell’obbligo. Le note previsioni della Svimez sul fabbisogno di mano d’opera al 1975 forniscono dei dati impressionanti. Ci limitiamo evidentemente alle cifre globali, per dare il senso della dimensione del fenomeno, ma – come è noto – lo studio della Svimez scende ad analisi molto particolareggiate. Tra il 1959 e il 1975 il personale generico dovrebbe ridursi da 11 milioni e 375 mila unità a 4 milioni e 325 mila unità, il personale qualificato dovrebbe passare da 4 milioni e 700 mila unità a 10 milioni e 235 mila unità, i capi subalterni da 178 mila a 850 mila, gli addetti al coordinamento dovrebbero aumentare di mezzo milione di unità, i tecnici da poco più di mezzo milione  a più di due milioni, i quadri superiori da poco più di mezzo milione a 1 milione e 250 mila unità.

Lo sforzo che la scuola dovrebbe compiere a tutti i livelli per evitare strozzature al progresso produttivo è talmente imponente che non ha bisogno di essere ulteriormente sottolineato. L’adempimento dell’obbligo scolastico fino al 14° anno di età da parte di tutti i ragazzi, l’aumento dei tassi di scolarizzazione, la possibilità concreta per tutti i ragazzi meritevoli di accedere ai livelli superiori dell’istruzione, sono obiettivi sul cui valore intrinseco, democratico e civile, è appena il caso di insistere. Lo sviluppo pieno della personalità, il superamento della condizione d’inferiorità e di subordinazione rispetto al proprietario terriero di ieri o all’imprenditore e al tecnico di domani, l’acquisizione di uno spirito d’iniziativa pronto ad affrontare, senza frustrazioni psicologiche, le trasformazioni dell’ambiente sociale e della tecnologia ( si pensi, ad esempio, all’introduzione della meccanizzazione nell’agricoltura), richiedono una formazione di base e la possibilità per tutti, al di là di chiusure di classe o di censo, di accedere ai più elevati livelli scolastici e di aggiornare con periodicità la propria preparazione. Del resto l’istruzione professionale, persino nelle forme più elementari di addestramento, non può oggi prescindere da un indirizzo didattico legato più a cognizioni teoriche generali, a dimensioni generalizzate di cultura tecnica per intenderci, che non all’insegnamento manuale di un mestiere che ostacolerebbe la mobilità professionale del lavoratore. Ecco perché è necessario abbandonare il criterio di chi vorrebbe mantenere separate, innalzando lo steccato della competenza amministrativa, la funzione della scuola, dalla formazione di base alla ricerca scientifica, dalla funzione di qualificazione professionale, con strumenti più flessibili  e di transizione, della manodopera generica e dei quadri tecnici intermedi. Respingere tale criterio non significa voler annullare autonomie giustificate e rispettabili, specialmente per chi crede nel pluralismo scolastico e nella necessità di mantenere un collegamento stretto e permanente tra scuola e società intesa in tutte le sue espressioni, ma significa – più semplicemente – auspicare un maggior coordinamento e una documentata visione degli obiettivi da raggiungere a breve e a lungo periodo fra quanti operano, sia pure con strumenti diversi, nel vasto campo della formazione scolastica e professionale. Sorgono qui problemi complessi, anche di natura istituzionale, relativi alla struttura e agli indirizzi della scuola italiana, specie per quanto riguarda gli istituti professionali, alla struttura e alla funzione di istituti o enti pubblici e privati che, in stretto rapporto con il mondo della produzione e del lavoro, adempiono a compiti di qualificazione e di riqualificazione della manodopera, al contributo che le imprese possono dare direttamente per migliorare il livello di preparazione professionale della forza lavoro, alla localizzazione delle diverse iniziative in materia per evitare sprechi, polverizzazione, arretratezza negli indirizzi didattici. Non è questa la sede, evidentemente, per affrontare una tematica di questo tipo; l’accenno serve solo a ricordare che anche nel Mezzogiorno, di fronte all’inevitabile gradualismo necessario per risolvere il problema scolastico in modo soddisfacente e di fronte alle pressanti richieste di lavoratori qualificati e di tecnici del processo d’industrializzazione, che crea contemporaneamente il problema della modernizzazione del settore agricolo e di quello della distribuzione, non può non essere avvertita l’esigenza di uno sforzo massiccio, straordinario, coordinato, per fronteggiare a livello di una formazione di base e professionale minima il crescente fabbisogno di manodopera preparata. A che servirebbero le infrastrutture, i poli di sviluppo, gli interventi diretti per regolare ed estendere il processo di industrializzazione se i medesimi criteri di urgenza e di straordinarietà non venissero applicati, nel campo della scuola e della preparazione professionale, al fattore umano che è determinante nella prospettiva di un autonomo sviluppo economico del Mezzogiorno? Non va dimenticato che i lavoratori che trovano occupazione nell’attuale fase nonostante la mancanza di preparazione scolastica e professionale, oltre ad incidere fortemente sul grado di produttività e di convenienza delle nuove imprese, sono sostanzialmente dei sottoccupati che presto o tardi, sotto la spinta del progresso tecnologico e a costi elevatissimi, dovranno essere recuperati dal punto di vista del culturale e riqualificati sotto il profilo professionale. Sempre secondo i dati Svimez sono più di due milioni i lavoratori da riqualificare sia pure a livello modesto entro il 1957, mentre – anche accettando una previsione ottimistica circa la soluzione completa del problema scolastico italiano a quel periodo – 490.000 unità di personale qualificato e 285.000 unità di tecnici intermedi dovranno ottenersi annualmente attraverso la riqualificazione del personale generico attualmente addetto a mansioni di grado inferiore. Tutto ciò fornisce, sia pure in maniera approssimativa, l’ordine di grandezza del compito imponente che uno sviluppo equilibrato dell’economia nazionale, con la soluzione della “questione meridionale”, richiede alla scuola e agli strumenti transitori e permanenti di formazione professionale ai diversi livelli.

6. Osservazioni sui problemi specifici della Calabria.

Temo di essermi già eccessivamente dilungato nell’esporre i dati di raffronto tra il Mezzogiorno e il  Centro-Nord, che d’altronde so essere solo parzialmente significativi, sia intrinsecamente – poiché le statistiche non possono mai dare il senso di una realtà viva – sia nella fattispecie – poiché la politica di intervento a favore delle regioni meridionali si è negli ultimi tempi diretta soprattutto a intensificare la crescita dei poli dimostratisi suscettibili di un più rapido sviluppo. Non è il caso, mi sembra, di affrontare a questo punto la polemica, alla quale non è certo estranea la Calabria, sulle zone prevalentemente collinose o di montagna che risulterebbero in tal modo ineluttabilmente condannate alla degradazione economica e sociale. Ma c’è un problema urgente e drammatico che non può essere ignorato. L’emigrazione dal Sud è risultata negli ultimi anni un fatto talmente rilevante – nonostante la politica di infrastrutture genericamente diffusa in tutto il Meridione – che l’insistere anche in una politica di industrializzazione altrettanto genericamente diffusa (uno stabilimento in ogni campanile) significherebbe veramente rendere impossibile nel Sud la creazione di un autentico processo autonomo di sviluppo. Se si vuole realisticamente evitare un irreparabile impoverimento di popolazione attiva e ridurre il flusso migratorio dal Meridione – evitando ovviamente provvedimenti legislativi sul tipo di quello fascista – occorre potenziare anche nel Sud dei poli di attrazione, sia perché il Mezzogiorno stesso non diventi (come scriveva efficacemente il Saraceno) “un cimitero di opere pubbliche”, e nel Nord una specie di “continuo” urbano-industriale congestionato e caotico, sia perché le popolazioni meridionali, muovendosi all’interno di un ambiente almeno parzialmente loro proprio, abbiano a sopportare forme di sradicamento e di alienazione di minor intensità, almeno in parte compensate dalla consapevolezza di contribuire al progresso economico e civile della loro terra.

Mi rendo conto che questo discorso non è facile: tuttavia è da tener presente che tra il 1951 e il 1961 sono emigrati dal Sud oltre due milioni di persone, il flusso non è diminuito ma è stato semmai più intenso negli ultimi anni, e sembra destinato a continuare se nello stesso Mezzogiorno poli di attrazione non eserciteranno una influenza rapida e consistente.

A proposito della Calabria il discorso diviene, se possibile, ancora più amaro. L’indagine del Tagliacarne sul reddito prodotto nelle singole zone d’Italia nel 1962 colloca ancora una volta la Calabria all’ultimo posto con il reddito netto pro-capite più basso d’Italia: L. 165.811, contro le 521.392 della Lombardia e la media di 229.545 del Sud-Isole. Fra le provincie, lo sgradevole primato è detenuto ancora una volta da Cosenza.

Non è il caso che io mi dilunghi in questa sede – dove il problema è ben noto – nella descrizione analitica dell’economia calabrese, o nella ricerca delle motivazioni storiche, politiche, ambientali e certamente anche geofisiche che hanno determinato tale stato di grave inferiorità all’interno della stessa arretratezza meridionale. Ricorderò solo, quasi per farne memoria a me stesso, alcuni dei dati più significativi. L’isolamento secolare, innanzitutto. La Calabria, che allunga la già di per sé faticosamente lunga penisola italiana, è stata dopo lo splendore della Magna Grecia a brevi intervalli di ripresa lungo il Medioevo, la più isolata fra le grandi regioni italiane. Si arrivava in Calabria, sin quasi alla fine dell’800, per via di mare da Napoli o dalla Sicilia, e gli approdi alla costa tirrenica, ricca di rupi, ma senza porti, non erano certo agevoli. Ma forse ancora più faticoso e rischioso era raggiungere la Calabria via terra; il viaggio da Napoli a Catanzaro, attraverso Salerno, Eboli, Lagonegro, Castrovillari e Cosenza durava quasi una settimana. Solo dopo il 1875 con un percorso ferroviario di quasi una giornata da Napoli a Taranto, si raggiungeva la Calabria attraverso la piatta, malaricissima costiera ionica.

Un’altra grave causa di inferiorità è stata determinata, specialmente nell’età moderna, dai terremoti: su 80 calcolati dal Mercalli dalla fine del Medioevo al 1908, trentuno furono di intensità disastrosa o disastrosissima e contribuirono, insieme con l’instabilità dei terreni, riscontrabile in quasi tutte le zone della regione a distruggere monumenti urbanistici e architettonici e a rendere pericolosa l’abitabilità di vaste zone. Ai movimenti dei terreni vanno collegate anche le alluvioni, favorite dalla intensità delle piogge invernali, dalla natura impermeabile dei terreni, dai disboscamenti secolari, intensificatisi soprattutto durante l’ultima guerra e il dopoguerra, per avere un primo quadro degli elementi che rendono peculiare la situazione della Calabria.

L’agricoltura è l’attività economica di gran lunga preminente nella regione: secondo il censimento del 1951 il 63,3% della popolazione attiva è dedito all’agricoltura. I dati del nuovo censimento daranno una percentuale forse lievemente inferiore, tuttavia non sembra che l’industrializzazione abbia fatto in Calabria progressi sensibili. D’altronde anche l’agricoltura presenta i caratteri tipici delle aree arretrate: e cioè eccessiva polverizzazione da un lato (nella provincia di Cosenza, su 97.409 aziende agricole, ben 80.572 sono di estensione inferiore ai 5 ettari), e forte accentramento dall’altro (sempre in provincia di Cosenza meno di mille aziende accentrano oltre il 40% della superficie agraria della provincia); lento sviluppo tecnico dell’agricoltura, dovuto sia alle condizioni del suolo, sia alla insufficiente preparazione tecnico-professionale dei ceti agricoli, sia alla insufficienza di investimenti pubblici e privati per migliorare le condizioni della produzione. Le cause e gli effetti, come è noto, si intersecano e interreagiscono le une sugli altri: la carenza di meccanizzazione nell’agricoltura calabra è certo in parte dovuta alla natura del terreno, ma anche all’individualismo dei contadini, che non si uniscono in cooperative. D’altronde è impensabile che sorgano spontaneamente cooperative, se da parte degli organi pubblici non vi è un’intensa opera diretta a far conoscere lo strumento della cooperazione e ad aiutare concretamente il suo sorgere e svilupparsi.

Il basso reddito derivante dal settore agricolo, soprattutto se lo si rapporta al settore industriale, è un fenomeno di natura strutturale, tuttavia miglioramenti sono ottenibili se si imposta chiaramente e coraggiosamente il problema della destinazione economica e funzionale dei diversi tipi di terreni. Il Rossi Doria ha chiaramente delineato per tutta l’agricoltura meridionale – ma riteniamo che il discorso sia valido anche e soprattutto per la Calabria – le tre linee fondamentali di riorganizzazione dell’agricoltura: ordinamenti intensivi, ordinamenti estensivi (cerealicolo-foraggeri e allevamenti) ordinamenti silvo-pastorali. E’ tuttavia difficilmente concepibile che i ceti agricoli sappiano da soli operare tali scelte, anche perché obiettivamente non sono realizzabili sul piano della privata iniziativa, ma comportano l’iniziativa, l’assistenza e la spinta delle pubbliche amministrazioni. Mi sembra cioè di dover sottolineare che la situazione dell’agricoltura calabrese richiede un intervento ben più massiccio e coordinato di quello attualmente esistente. Non intendo suscitare polemiche sulla Legge Speciale, che ha un suo ambito ben preciso, né tanto meno sull’azione della “Cassa”, che è andata precisando e chiarendo i suoi compiti nel corso della concreta sperimentazione della sua azione di intervento. So benissimo che quando si opera a livello pubblico sorgono difficoltà massicce per superare i tempi tecnici e i “tempi burocratici”, per attuare il coordinamento fra i vari enti, per ridurre i campanilismi e le pressioni clientelari. 

Se la riorganizzazione dell’agricoltura appare difficile, ma non di impossibile realizzazione, piuttosto debole sembra invece, almeno fino ad ora, il processo di industrializzazione. Lo sviluppo della politica dei nuclei procede a rilento: il nucleo di Reggio Calabria, se non vado errato, è l’unico che sinora ha inoltrato richiesta alla “Cassa” per ottenere il finanziamento per la redazione del piano regolatore, gli altri si trovano, dal punto di vista “legale-amministrativo” in una fase ancora più arretrata, anche se in taluni di essi è già in corso un certo processo di sviluppo industriale, ad esempio nel nucleo di S. Eufemia Lamezia (zuccherifici), della Piana di Sibari (alimentari, carta e cellulosa), di Crotone (chimici e metalmeccanici) e del Golfo di Policastro (tessili). 

L’inventario delle iniziative realizzate o in corso di realizzazione è tuttavia scarsamente significativo, anche perché – non conoscendo di prima mano la realtà calabrese – potrei incorrere in grossolani errori di omissione (per i quali comunque mi scuso anticipatamente).

Mi sembra invece che sia opportuno cercar di cogliere quello che le cifre statistiche non sono in grado di darci, e cioè il senso delle modificazioni che sia pur lentamente e faticosamente si vanno facendo strada anche nella vostra Calabria. Credo cioè di poter affermare che, se è vero che la situazione di arretratezza è gravissima, e i dati più drammatici non si riferiscono a mio avviso alla lentezza di avvio del processo di industrializzazione ma piuttosto alla percentuale ancora forte di analfabeti, e – correlativamente – alla bassa percentuale di coloro che conseguono la licenza elementare e dei ragazzi che proseguono gli studi, tuttavia un motivo di speranza può essere ricavato dal livello di consapevolezza cui il problema della regione calabra è giunto. E’ un motivo di speranza forse tenue, ma io credo che costituisca un fatto irreversibile. Non è assolutamente più concepibile lo stato di isolamento e di abbandono sofferto dalla Calabria nei secoli e purtroppo anche nei decenni appena trascorsi. E mi sembra che l’iniziativa di questa conferenza, che segue a quella pure validissima dello scorso anno, sia una testimonianza viva e concreta dell’impegno delle amministrazioni locali ad approfondire i problemi al di fuori di uno sterile senso di vittimismo, per poter operare dall’interno della realtà e muoverla dal suo tradizionale individualismo e dalla sua secolare apatia, e renderla così più consapevole e idonea a ricevere e a collaborare con gli interventi che, per una certa dimensione, spettano indubbiamente allo Stato, come nel caso dell’università. 

Personalmente sono tra coloro che non si aspettano troppo dall’intervento statale, e anzi vedo proprio nell’Ente Regione la dimensione politica e amministrativa più adeguata alla soluzione dei problemi di sviluppo, ma mi rendo conto che il caso della Calabria è peculiare e – almeno nell’attesa dell’istituzione delle regioni – è necessario che lo Stato compia uno sforzo massiccio. E ritengo che il settore che deve essere aggredito con maggior vigore sia quello della scuola. Praticamente tutta l’Italia, lo abbiamo già osservato, è un Paese arretrato sul piano della scuola, e ci auguriamo che gli anni ’60 segnino un progresso decisivo nella completa scolarizzazione dei ragazzi in età 6-14 anni. Tale meta deve, a mio avviso, essere tenacemente perseguita anche in Calabria. La stessa agricoltura richiede oramai, in misura sempre maggiore, manodopera qualificata che sappia impadronirsi dei progressi della tecnica, che sappia sopperire all’esodo dalle campagne, che sappia affrontare i problemi della cooperazione, della trasformazione, della conservazione e della vendita dei prodotti agricoli.

La formazione professionale della manodopera industriale – come si è già detto – può innestarsi con successo solo sui giovani che abbiano compiuto almeno la scuola dell’obbligo, per il carattere polivalente che essa tende sempre più ad assumere in vista delle future incessanti modificazioni tecnologiche. Le attività terziarie, e ricordo soprattutto il turismo che potrebbe avere nella Calabria sviluppi interessantissimi, richiedono anch’esse personale tecnicamente qualificato, che non si può improvvisare, come è avvenuto per una parte abbastanza considerevole della attrezzatura turistica nazionale, se si vuole evitare il rischio di una espansione tumultuosa seguita da una altrettanto rapida decadenza. La scuola è oggi più che mai a fondamento di ogni attività economica efficiente e duratura. Non vorrei, con questa affermazione, far riemergere il sospetto che io concepisco la scuola solo in funzione dell’attività produttiva. Se dovessi fare questo discorso in qualche zona particolarmente “efficiente e produttiva” del Nord sottolineerei soprattutto il valore di arricchimento umano e civile che la scuola apporta all’individuo, ma in una società come la vostra forse ancora troppo malata di individualismo, dove il simbolo del privilegio e del prestigio è dato ancora dagli studi classici e magari dalla laurea in legge, lasciatemi insistere sull’importanza che la scuola può avere nel favorire lo sviluppo produttivo. Si tratta di un fattore decisivo in genere in tutto il Mezzogiorno, ma particolarmente determinante in Calabria ove il carattere composto di una prevedibile struttura economica che abbraccia agricoltura, industria, turismo e conseguenti attività terziarie, richiede un’articolazione dinamica e qualificata della forza lavoro disponibile.

7. Considerazioni finali sulla “questione meridionale”.

Il panorama sintetico e certamente parziale che ho cercato di delineare dello sviluppo meridionale in rapporto al problema scolastico e alla industrializzazione, che altri con maggiore conoscenza diretta provvederà ad integrare in questa stessa sede, riporta il discorso sul terreno delle considerazioni generali e lo riallaccia alle osservazioni che facevo all’inizio della relazione. E’ ormai acquisito che spetti allo Stato, alla classe dirigente del paese, farsi carico in termini generali della battaglia ingaggiata da tempo contro l’arretratezza meridionale, ma questo non basta a garantire che i problemi sul tappeto e quelli che sorgeranno nei prossimi anni trovino facilmente la loro corretta soluzione. Si tratta ora di accompagnare la politica meridionalistica con la volontà di verificarne sistematicamente il contenuto ed i riflessi in rapporto agli obiettivi che si intendono raggiungere. Impegnativi compiti di analisi, di studio, di orientamento e di scelta attendono, a questo proposito, le forze politiche, i sindacati, le energie imprenditoriali; le leggi che il Parlamento può approvare, le opere concrete che un governo stabile e a larga base democratica può realizzare, gli interventi di tipo economico che possono accelerare e orientare il processo di sviluppo, devono ritrovare un elemento unificatore nella spinta di un dibattito vivace e costruttivo di natura culturale e politica e nell’apporto diretto della classe dirigente locale e dell’intero popolo meridionale. Il riscatto civile e democratico del Mezzogiorno non passa per la via del paternalismo centralizzato e burocratico; la trasformazione della società meridionale, con le sue lacerazioni ed i suoi contrasti inevitabili, richiede anche un movimento dal basso, una partecipazione responsabile delle forze locali, un potenziamento reale delle autonomie amministrative. Il nuovo non si afferma senza una battaglia aperta contro il vecchio anche a livello del costume e delle istituzioni, specialmente quando il vecchio significa stratificazione sociale, clientelismo, passività e pregiudizio, concezione arretrata, assistenzialistica o repressiva, della stessa funzione dello Stato e dei pubblici poteri. Non mancano, non sono mai mancate, energie locali positive, dirigenti impegnati e dinamici, decisi a conquistarsi un migliore avvenire, ma si tratta di fare a questo processo spontaneo, oggi favorito da una politica di governo non più assenteista, una matura prospettiva di concreta responsabilità libera da dannosi campanilismi.

Ecco perché, anche da voi, il discorso sulla trasformazione in senso democratico e autonomistico dello Stato unitario è un discorso essenziale e politicamente determinante; esso rappresenta l’unico contrappeso democratico che può condizionare una politica economica non aliena da rischi dirigistici e tecnocratici, un processo indiscriminato d’industrializzazione  che può dissolvere taluni valori autentici della vostra civiltà, una marcia verso un benessere standardizzato e importato a prezzo di una grave e irreparabile perdita della libertà. “Il Mezzogiorno – scrisse un giorno con visione sicura e lungimirante Luigi Sturzo – non può essere guardato come una colonia economica, o come un campo di sfruttamento politico, o come una regione povera e frusta alla quale lo Stato fa la concessione di una particolare benevolenza. No, il Mezzogiorno è vivo come un’entità integrante la vita stessa nazionale, come una forza reale da sviluppare nella sintesi delle forze italiane. Il suo travaglio economico o morale è il travaglio dell’intera nazione”. E’ ancora in questa direzione che occorre conquistare con l’apporto di tutti l’unificazione economica, sociale, politicamente moderna, dell’Italia democratica di oggi. 

Dalla rivista: “Qualificazione”
(Relazione tenuta al Convegno di Cosenza del 6-7 dicembre 1963 su: Scuola e Industria nel Mezzogiorno e in Calabria)
Luigi Granelli

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