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Chi opera da anni nel campo della difesa delle esigenze vitali dei lavoratori migranti, i più esposti alle contraddizioni dello sviluppo economico
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Chi opera da anni nel campo della difesa delle esigenze vitali dei lavoratori migranti, i più esposti alle contraddizioni dello sviluppo economico spontaneo e ai contrasti di differenti legislazioni sociali, sa quanto sia difficile far comprendere all’opinione pubblica, oltre che ai governi interessati, gli esatti termini della “questione dell’emigrazione” nella società contemporanea. Eppure si deve a questa paziente sensibilizzazione, difficile e non sempre compresa, se oggi è possibile tra le forze sociali e politiche, nel mondo stesso dell’emigrazione, a livello parlamentare, governativo e diplomatico (se si guarda alla situazione italiana), un discorso per molti aspetti nuovo su questo importante problema.
Il riferimento alla situazione italiana non è d’obbligo. Di essa dobbiamo occuparci direttamente, per far fronte alle nostre responsabilità, ma non sfugge che l’Italia rappresenta un caso peculiare in quanto ha vissuto in diverse circostanze storiche, e ancora vive, il dramma di una emigrazione forzata certamente consistente ed ha accumulato esperienze al fine della ricerca di una terapia il più possibile risolutiva. In questo senso le indicazioni per una svolta di qualità nelle politiche richieste dal fenomeno dell’emigrazione, di una fase nuova per l’affermazione dei diritti dei lavoratori migranti, possono trascendere i confini nazionali e rappresentare un utile contributo anche ad altri paesi e ad azioni coerenti ed incisive sullo stesso piano internazionale.
1. Quello che conta, ai fini di una esatta valutazione della “questione dell’emigrazione”, è una visione d’insieme dei problemi dei lavoratori migranti. E’ un grave errore guardare a questi problemi in modo settoriale. Il lavoratore migrante è, anzitutto, una persona umana dotata di una pienezza di diritti e non solo un prestatore d’opera da tutelare, al massimo, sul piano dei rapporti economici e sociali. Una visione parziale di questo genere riduce fatalmente i lavoratori migranti alla condizione, inaccettabile, di moderno sottoproletariato esposto ad essere, nonostante talune conquiste economico-sociali, una massa di manovra marginale nel mercato della manodopera con evidente svantaggio anche per i lavoratori dei singoli paesi ospitanti emigrazione che vengono indeboliti da una poco edificante regola di concorrenzialità nel loro potere contrattuale.
Gli emigranti, ha scritto significativamente la Civiltà cattolica in un interessante articolo del dicembre 1973, sono «i servi del nostro tempo» ed è questo, in sostanza, il problema di fondo da affrontare con decisione. Il principio di una parità di trattamento che prescinda, in uguali condizioni di lavoro, dalla nazionalità emerge con drammatica urgenza nel campo dell’impiego, della retribuzione, delle provvidenze sociali, ma deve estendersi all’insieme dei diritti civili e democratici. La libertà dell’uomo, come l’affermazione della propria dignità, sono per loro natura indivisibili. Solo in questa prospettiva, del resto, problemi vitali come il ricongiungimento del lavoratore migrante con la propria famiglia, l’esercizio delle libertà individuali, la partecipazione alla vita sindacale e amministrativa, la fine delle discriminazioni esistenti di fatto all’esterno dei luoghi di lavoro anche nei paesi più progrediti, l’accesso paritario al mondo della scuola, della formazione professionale, della cultura, possono essere avviati a soluzione. La coscienza della globalità della “questione dell’emigrazione” nella società contemporanea va diffondendosi sempre di più, fortunatamente, anche a livello internazionale e l’Italia, interessata come è a questo fenomeno, può e deve contribuire con maggiore energia nel promuovere da ogni livello azioni,coerenti con una simile presa di coscienza.
E’ confortante, a questo proposito, l’insieme delle conclusioni cui è pervenuta una recente conferenza internazionale di giuristi europei e africani, svoltasi a Parigi nel gennaio del 1974, che sollecitano l’O.I.L. ad aggiornare e coordinare le direttive a tutela dei lavoratori migranti nel quadro di una visione organica e globale dei loro diritti. Tale documento, pubblicato dalla rivista trimestrale Studi-Emigrazione, allarga la sfera dei diritti del lavoratore migrante dal campo delle condizioni di impiego, dell’esercizio dell’attività sindacale, dell’armonizzazione delle legislazioni sociali, al campo delle libertà individuali e pubbliche, della partecipazione civile, della mobilità territoriale, dell’abolizione delle discriminazioni contenute nelle legislazioni xenofobe e anti-stranieri in coerenza con i principi contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Nessuno si nasconde le difficoltà che sorgono nel passare da queste interessanti e positive affermazioni di principio alla loro applicazione pratica, nel quadro di regimi sociali e politici assai differenti tra loro, ma la direzione di marcia è giusta e convalida l’esattezza di una visione globale, capace di staccarsi concettualmente dai perduranti settorialismi, della “questione dell’emigrazione” nella società contemporanea. Si tratta, quindi, di diffondere ad ogni livello questa importante presa di coscienza, di farne oggetto di mobilitazione, anche per collocare le conquiste graduali e parziali che non mancano in una strategia di più lungo respiro e, come si è detto, il più possibile risolutiva.
2. Accanto ad una visione globale e nuova dei diritti del lavoratore migrante è indispensabile, soprattutto per chi intende operare in concreto per la loro affermazione, una valutazione attenta delle condizioni storiche e strutturali entro cui si manifesta in situazioni spesso differenti il fenomeno dell’emigrazione. L’affermazione di principio risulta in molti casi impotente non per un vizio di astrattezza, come si usa dire, ma per la incapacità di calare concretamente tale principio in realtà storiche e strutturali diverse che richiedono concrete, anche se non facili, azioni di trasformazione e di riforme. Anche rispetto a questa non secondaria presa di coscienza il “caso italiano” ci sembra, per molti aspetti, peculiare. Il riferimento vale sia per la presa di coscienza delle cause storiche e strutturali del fenomeno dell’emigrazione, sia nel perdurare di luoghi comuni che impediscono, a molta parte della opinione pubblica e non solo di essa, di prendere atto dei cambiamenti significativi che hanno investito in più di cento anni di storia nazionale tale fenomeno.
L’Italia, infatti, ha vissuto in tempi diversi il fenomeno dell’emigrazione che si pone oggi a paesi di differente grado di sviluppo economico e sociale. A sostegno di questa tesi indicheremo sia pure schematicamente, per comodità di esposizione, i due grandi periodi storici in cui si è sviluppato in Italia, con caratteristiche diverse, il fenomeno dell’emigrazione: il primo, dall’unità nazionale (1861) agli anni trenta, tipico di un paese prevalentemente agricolo con forte eccedenza di popolazione, assai simile per condizioni strutturali e storiche all’esperienza attuale di molti paesi in via di sviluppo; il secondo, dal dopoguerra ad oggi, tipico di un paese ormai industrializzato e tuttavia lontano dal raggiungimento degli obiettivi del pieno impiego e del superamento dei propri squilibri interni, che pone in termini nuovi, validi anche per altri paesi industrializzati, il problema delle politiche di intervento a sostegno dei diritti dei lavoratori migranti.
Confondere i due periodi sarebbe profondamente sbagliato. Le trasmigrazioni di massa realizzatesi attorno al ‘900, drammatiche e brutali come è stato abbondantemente dimostrato, sono avvenute in un contesto interno ed internazionale assai arretrato. Le poche attività industriali localizzate al nord, spesso raramente protette e scarsamente competitive, e lo stato di quasi totale abbandono del Mezzogiorno hanno messo in luce in quel periodo, mentre andava affermandosi l’unità del paese, una struttura economica debole e prevalentemente agricola con una offerta di lavoro sproporzionata rispetto ad una consistente popolazione in cerca di occupazione. In più il richiamo a condizioni di impiego e di vita migliori, in paesi lontani ed avvantaggiati da intenso sviluppo e carenti di manodopera, ha spinto per ragioni evidenti di vita e di necessità, specialmente nel Mezzogiorno e nelle Isole, ingenti masse di connazionali, spesso incoraggiate da mediatori senza scrupoli, a cercare altrove l’affermazione di un diritto elementare come quello del lavoro.
Circa quindici milioni di persone abbandonano l’Italia in quel periodo, diretti più verso i paesi transoceanici che verso quelli europei. Sì aggiunga che le condizioni di accoglimento, per i più, si rivelarono meno vantaggiose di quanto previsto e che lungo e doloroso è stato il processo di conquista, in generale, di forme di tutela e di parziale parità di trattamento. Non sono mancati successi ma il costo umano è stato, in molti casi, altissimo.
Si può sostenere che l’insieme del fenomeno è stato frutto di una inevitabile fatalità? Quanti credono, anche in buona fede, a questa spiegazione ignorano che la causa di fondo, sin da allora, era da ricercarsi nel tipo di sviluppo economico del paese e nella difesa di strutture e arretratezze che altri paesi, sotto la spinta della rivoluzione industriale, avevano pur saputo modificare. L’osservazione vale anche per il ritardo, diverso da paese a paese, nel varo di legislazioni sociali adeguate e dalla mancanza di normative internazionali che successivamente, dopo lotte non facili, hanno visto la luce. Anche allora la “questione dell’emigrazione” era una “questione nazionale”, che richiedeva un diverso sviluppo economico ed una diversa tutela dei lavoratori italiani all’estero, e l’errore storico fu quello di ridurre il problema ad una generica assistenza e di ritenere facilitato, dalla minore pressione di una manodopera eccedente, uno sviluppo economico che conservasse, con gli squilibri interni, le posizioni parassitarie esistenti. Modificare le strutture che erano la causa storica delle trasmigrazioni di massa non era facile, tanto è vero che il fascismo ha lasciato in eredità lo stesso problema irrisolto e aggravato, ma non è certo fondata la tesi che fosse impossibile: in questo senso molti paesi in via di sviluppo, che a causa del colonialismo sono alle prese con un ritardato decollo economico, offrono oggi forzatamente molta parte della loro manodopera ai paesi industrializzati.
Si pensi, a questo proposito, che la CEE e cioè una comunità di paesi industrializzati anche se non priva di squilibri interni accoglie quasi dodici milioni di lavoratori migranti, in maggioranza extra-comunitari, che secondo talune previsioni, sconvolte dalla recessione e dalla crisi petrolifera, avrebbero dovuto raggiungere negli anni ’80 la cifra di circa venti milioni. Ecco dunque ripetersi, su scala internazionale, lo stesso squilibrio che ha investito l’Italia nel primo periodo della sua massiccia migrazione e che ripropone, insieme ad una più equilibrata distribuzione delle risorse ed una più razionale divisione del lavoro, l’esigenza di un diverso rapporto tra l’Europa ed i paesi emergenti del “terzo mondo”. E’ quindi velleitario pensare alla affermazione dei diritti dei lavoratori migranti al di fuori della realizzazione, all’interno dei singoli paesi e sul piano internazionale, di strutture economiche capaci di ricondurre a dimensioni fisiologiche e cioè ispirate ad una libera scelta un fenomeno migratorio che rimane, per molti aspetti, patologico e imposto da ragioni di necessità che possono e devono essere rimosse.
3. Può essere istruttivo, a questo scopo, l’analisi delle caratteristiche in gran parte diverse del già ricordato secondo periodo dell’emigrazione italiana. Ciò che colpisce è che il fenomeno emigratorio, nonostante il “boom” economico degli anni’50 e 1’apertura dell’Italia al mercato internazionale, che hanno sancito il passaggio dalla condizione di paese prevalentemente agricolo a quello di paese industrializzato, è continuato e continua in dimensioni non trascurabili. Sono oltre cinque milioni i connazionali sparsi, oggi, nelle varie parti del mondo per svolgere una attività lavorativa preclusa in Italia dalla mancanza di una corrispondente offerta di occupazione. Quasi la metà di questa massa di lavoratori migranti si è orientata, comprensibilmente, verso la CEE e per la logica stessa della libera circolazione della manodopera che è alla base della Comunità è potenzialmente disponibile ad un rientro che, in un paese lontano dal pieno impiego e minacciato da possibili ondate di disoccupazione, aggraverebbe in modo massiccio la situazione italiana.
Altri paesi europei, caratterizzati da eccedenza di manodopera e da squilibri interni, sono in analoghe condizioni, mentre i paesi extra-comunitari hanno già cominciato a subire le conseguenze delle misure restrittive che, inconseguenza della crisi energetica e dell’inflazione, i paesi europei ad alto tasso di immigrazione hanno cominciato ad applicare. E’ bastata quindi una avversa congiuntura economica in Europa, che si pensa possa ridurre notevolmente la massa dei lavoratori migranti sia pure cominciando dagli extra-comunitari, per riproporre in Italia il timore di una consistente disoccupazione aggiuntiva. Tale pericolo non è imminente, grazie alla tutela prevista dai trattati della CEE per i lavoratori comunitari, ma il problema che è alla sua base è unproblema reale che si collega, anche in periodo di normalità o di congiuntura favorevole, all’avvio urgente di un nuovo modello di sviluppo dell’economia italiana.
La partecipazione dell’Italia alla CEE non esclude, anzi presuppone, un riequilibrio nell’ambito della stessa Comunità della localizzazione delle attività produttive e la creazione, in conseguenza di una incisiva e non più rinviabile politica regionale a livello europeo, di nuovi posti di lavoro nelle zone in cui continua a manifestarsi una eccedenza di manodopera. In questo senso, oggi, il problema del Mezzogiorno italiano è anche un problema europeo. La politica dei rientri, per rendere effettivo e non a senso unico il principio della libera circolazione della manodopera, è dunque un obiettivo da raggiungere anche se in questo momento viene visto dai più come una insopportabile minaccia. Ma il raggiungimento di tale obiettivo strategico, riconducibile alla logica del pieno impiego del complesso della manodopera italiana (quindi anche di quella temporaneamente occupata all’estero) e del superamento degli squilibri interni al nostro sistema economico, non può essere attribuito soltanto ad una diversa e più equilibrata politica cella CEE: esso richiede, contemporaneamente, una correzione profonda a tempi ravvicinati del nostro modello di sviluppo, uno spostamento di risorse dai settori parassitari alla creazione di nuovi posti di lavoro nel Mezzogiorno, una diversa qualificazione della domanda che privilegi i servizi pubblici rispetto ad effimeri e dispersivi consumi sociali, un riordinamento radicale dell’agricoltura e del settore della distribuzione, un deciso riequilibrio dei nostri conti con l’estero attraverso una più attenta qualificazione delle esportazioni e delle importazioni ed una lotta inflessibile, di fronte alla carenza dei mezzi di investimento, alla fuga dei capitali ed alle evasioni fiscali.
Tutto ciò dimostra, sia pure sinteticamente, che non è bastato il passaggio da una economia prevalentemente agricola ad una economia industriale ad eliminare le cause strutturali di un fenomeno di emigrazione forzata che, pur ridimensionato dal significativo sviluppo degli ultimi decenni, permane in termini certamente non trascurabili. E’ dunque evidente lo stretto legame che unisce la tutela effettiva dei diritti dei nostri lavoratori migranti e la correzione, soprattutto in Italia e nell’ambito della CEE, di strutture economiche, sociali, civili, che sono indispensabili alla applicazione concreta, non solo formalistica, di una parità di diritti di tutti i lavoratori intesi come persone, non solo come prestatori d’opera, senza discriminazione alcuna per i lavoratori migranti. In questo senso l’esperienza italiana in più di un secolo di vita nazionale è peculiare, tanto nel primo periodo che nel secondo, per collocare la “questione dell’emigrazione” nel contesto storico e strutturale, illuminato ovviamente da giudizi di valore discendenti da chiare enunciazioni di principio, se si vuole agire con concretezza non disgiunta da prospettive di lungo periodo.
Porre come problemi decisivi per il superamento del fenomeno dell’emigrazione forzata quelli di un diverso “modello di sviluppo dell’economia italiana” e di una diversa politica europea, non meno importante anche per i rapporti esterni alla CEE, non significa compiere una fuga in avanti. A parte che i problemi concreti ricordati implicano, nell’immediato, scelte e comportamenti assai precisi, rimane da osservare che non si intende con questo trascurare la fase transitoria, anch’essa urgente, che richiede in vista di tali traguardi una tutela decisa dei diritti dei lavoratori migranti attraverso l’impiego degli strumenti esistenti o di strumenti nuovi da realizzare in coerenza con la prospettiva strategica enunciata. Il richiamo alla incidenza reale delle condizioni storiche e strutturali, molto diverse tra loro (si pensi alla logica della CEE e a quella dei paesi transoceanici o africani), aiuta anzi a superare nella fase transitoria l’errore di considerare le politiche d’intervento a tutela dei lavoratori migranti, per quanto riguarda l’Italia, come un tutto unico e indifferenziato. Questo errore deve essere decisamente superato.
Le politiche d’intervento a difesa dei diritti dei lavoratori migranti, per essere realmente incisive, devono articolarsi almeno in tre campi distinti:
4. L’esperienza europea, pur nelle sue difficoltà e contraddizioni, è da considerarsi tra la più avanzata per il superamento delle discriminazioni tradizionalmente subite dai lavoratori migranti. L’idea della costruzione di una grande comunità economica tra paesi diversi, con la volontà di realizzare un’area sovranazionale caratterizzata dalla libera circolazione delle persone, dei capitali, dei prodotti, è senz’altro una idea importante che pone lo stesso lavoratore migrante in una prospettiva nuova rispetto alle discriminazioni discendenti dalla diversa nazionalità. E’ noto che l’avvio della costruzione europea è stato il frutto di un compromesso tra due concezioni diverse, sancito alla Conferenza di Messina, e cioè tra chi poneva l’accento sulla costruzione di una comunità economica, che richiede incisive politiche sovranazionali, e chi tendeva alla creazione di un mercato comune spontaneo e liberato dal peso delle restrizioni di tipo nazionale, più vicino all’idea di una area di libero scambio, che è poi quanto nei fatti si è realizzato. La debolezza politica della costruzione europea, infatti, è la conseguenza di questa perdurante ambiguità che è ancora oggi il nodo da sciogliere per un effettivo rilancio dei propositi iniziali. Pur in questo quadro di precarietà, aggravato dal lungo periodo della ostilità di De Gaulle, sono state raggiunte conquiste di grande significato per la tutela dei lavoratori migranti.
Il trattato sulla libera circolazione della manodopera riduttivo rispetto all’ambizioso proposito riguardante l’insieme dei diritti della persona del lavoratore, ha sancito il principio della fine di ogni discriminazione dovuta alla nazionalità dei lavoratori dei paesi aderenti alla CEE per quanto attiene l’impiego, le retribuzioni, le condizioni di lavoro e l’armonizzazione delle legislazioni sociali. Gli articoli 45/48 del trattato sulla libera circolazione della manodopera sono assai precisi al riguardo anche se rinviano a normative particolari, in una parola alla politica sociale la creazione di condizioni favorevoli ai principi enunciati. Le lacune sono dunque da riscontrare non nel trattato, ma nella sua applicazione almeno nella parte che esso regola. La politica sociale comunitaria, come l’aggiornamento delle legislazioni nazionali, sono stati modesti e francamente deludenti in tutti questi anni.
Il lavoratore dei paesi della CEE, ovunque presti la sua opera, è considerato un lavoratore comunitario quanto alle condizioni essenziali del suo trattamento (il problema sorge, se mai, per la rilevante massa dei lavoratori extra-comunitari), ma non vi è dubbio che permangono gravi discriminazioni di fatto se non si realizza una politica comune dell’occupazione e delle provvidenze in caso di perdita del posto di lavoro, se non si consente praticamente il ricongiungimento con la famiglia da parte del lavoratore migrante, se non si risolve il problema degli alloggi in modo decoroso, se non si collabora nel campo di una scuola aperta all’integrazione e al ritorno nelpaese di origine soprattutto per i figli, se non si mette il Fondo Sociale Europeo nellacondizione di svolgere una azione integrale nel settore dell’assistenza e della formazione e riqualificazione professionale che favorisce – soprattutto – i paesi ricchi di manodopera, se non si armonizzano i sistemi nazionali di sicurezza sociale, se – infine – non si opera un effettivo riequilibrio territoriale della localizzazione delle attività produttive attraverso una incisiva politica regionale.
L’elenco dei se è lungo, ma senza rimuovere questi ostacoli di fatto discriminatori l’importante conquista della libera circolazione della manodopera, della parità dì trattamento dei lavoratori comunitari, è destinata a rimanere sulla carta. Sono molti gli espedienti in vigore, nei singoli paesi della comunità, per aggirare almeno formalmente le contraddizioni tra le indicazioni dei trattati e la situazione di fatto. Non giova soffermarsi su questa casistica, peraltro conosciuta, ed è più costruttivo ricordare che solo una vigorosa politica sociale comunitaria e il corrispondente adeguamento delle legislazioni nazionali nei vari campi possono, in concreto, rimuovere le discriminazioni contrastanti con l’applicazione integrale del trattato sulla libera circolazione della manodopera.
Solo al vertice di Parigi, nel 1972, si è solennemente affermato che la politica sociale doveva avere, nell’opera di costruzione della comunità, una importanza pari alla politica monetaria e a quella economica. Da allora in poi si sono fatti alcuni passi avanti significativi, come ad esempio l’apertura del Fondo Sociale Europeo (dotato di scarsi mezzi) ad un ciclo integrale in favore dei lavoratori migranti, ma l’insieme di tutte le altre richieste rimane in attesa di scelte coraggiose, sollecitata dall’Italia e dai paesi della comunità che si trovano nelle nostre condizioni, per la realizzazione di una decisa e organica politica sociale. E’ questa, in sostanza, la politica d’intervento da sostenere con vigore, nella CEE, in difesa dei diritti dei lavoratori migranti europei.
In questi ultimi tempi si nota, positivamente, un fervore di iniziative anche per rilanciare il tema della costruzione dell’unione politica europea. L’ipotesi è positiva non solo per l’impulso necessario alla stessa politica sociale, che avrebbe tutto da guadagnare da un rafforzamento delle istituzioni e dalla elezione diretta del Parlamento europeo, ma anche per aprire la via ad un futuro aggiornamento dello stesso trattato sulla libera circolazione della manodopera. Come ho avuto modo di notare a Bruxelles, alla conferenza europea dell’emigrazione italiana, il lavoratore migrante non puòpartecipare a pieno titolo alla costruzione comunitaria. Il trattato sulla libera circolazione si limita, naturalmente, alla parità delle condizioni economico-sociali e si ferma sulla soglia dei diritti civili e democratici del lavoratore migrante. I problemi della partecipazione alla vita sindacale, a talune forme di corresponsabilità amministrativa, all’esercizio dei diritti civili e di libertà, sono strettamente connessi ai diritti sociali ed economici se si guarda al lavoratore migrante come persona e non solo come prestatore d’opera.
Anche questi problemi, per quanto difficili, sono da affrontare con coraggio inuna prospettiva di largo respiro. Non mancano, in proposito, tentativi pratici lodevoli che cercano di sopperire alle lacune attuali. In alcuni casi, ad esempio, è ammessa la partecipazione del lavoratore migrante alla vita del sindacato del paese in cui opera ma, con una evidente discriminazione, viene impedita la partecipazione all’amministrazione o alla direzione del sindacato stesso. In altre situazioni è assai differenziata la condizione del lavoratore nazionale e del lavoratore migrante al fine di poter essere eletto in un consiglio di impresa o in comitati a scopi civili di vario genere. Esperimenti interessanti sono stati avviati, in alcuni paesi, per una partecipazione diretta o indiretta, a latere dei consigli municipali, dei lavoratori migranti alla vita pubblica amministrativa. Ma tutti questi sforzi di buona volontà, da incoraggiare comunque per il loro alto valore morale e civile, si scontrano obiettivamente con la rigidità delle legislazioni che non hanno affrontato il problema della parità anche in materia di libertà individuali e pubbliche. Interessante in questo quadro, per avviare a soluzione lo stesso problema di una migliore tutela dei lavoratori extracomunitari, è la presentazione e la discussione in sede di Parlamento Europeo di uno “statuto” dei diritti dei lavoratori migranti. E’ evidente la necessità di intervenire con più decisione anche in questo campo. «Il problema dell’integrazione sociopolitica delle popolazioni migranti nell’ambiente civile delle comunità ospitanti – ha acutamente osservato il prof. Mario Grandi (dell’Università di Modena) in una stimolante relazione svolta ad un seminario di studio tenuto a Lovanio nel febbraio 1972 – si presenta delicato, complesso, ma ormai indilazionabile». Non si può che concordare con questa affermazione. Si tratta di una tappa importante per la costruzione di una Europa intesa quale comunità di persone socialmente e democraticamente integrate. Vasto è, quindi, il campo delle politiche di intervento a breve e a lungo periodo per realizzare in Europa una fase nuova, assai importante per l’Italia, nella difesa dei diritti complessivi dei lavoratori migranti.
5. Le politiche d’intervento nei paesi extra-comunitari, dove operano consistenti collettività di connazionali, si pongono in una logica del tutto diversa e tuttavia non trascurabile. I problemi, dalla sicurezza sociale alla scuola, dal trattamento economico-sociale ai diritti civili, non sono dissimili, ma il modo di risolverli e gli strumenti cui ricorrere sono profondamente differenti. Il lavoratore migrante che si orienta, sia pure meno del passato, verso paesi dell’America Latina, dell’Africa, del Canada, dell’Australia, o degli Stati Uniti, tende ad una stabilizzazione di lungo periodo e non a processi di mobilità e di libera circolazione. Anche la diversità dei regimi sociali e politici non è sottovalutabile. In Africa, ad esempio, è evidente la priorità – di fronte ad un processo irreversibile di decolonizzazione che va incoraggiato – di una adeguata legislazione sui profughi per il reinserimento, in Italia o nei paesi di nuova indipendenza, dei nostri connazionali. In America Latina gli sforzi di cooperazione per un autonomo sviluppo economico, o in molti casi la difesa dei diritti dell’uomo, offre un quadro in cui si colloca la tutela del lavoratore migrante del tutto specifico. Nei paesi di lingua anglo-sassone già citati – infine – le condizioni di intenso sviluppo economico, di strutture civili avanzate, richiedono forme di tutela molto particolari e di diritti degli italiani che ivi prestano la loro attività.
E’ dunque indiscutibile la necessità di una adeguata articolazione delle politiche di tutela dei connazionali in tutti questi paesi, da parte dell’Italia, come condizione stessa del successo della nostra iniziativa. Gli strumenti di intervento si presentano, tuttavia, più complessi e per molti aspetti difficili. Essi sono, come noto, gli accordi o le convenzioni bilaterali e multilaterali. Non sono mancate direttive internazionali interessanti per uniformare, attorno a principi di carattere generale obiettivamente validi, la necessaria evoluzione di tali strumenti. Il riferimento riguarda le molte direttive dell’O.I.L., l’organizzazione dell’ONU specializzata nel campo dei rapporti di lavoro, ed in particolare la Convenzione n. 97 e la raccomandazione n. 86 che, oltre a disciplinare i servizi di immigrazione, impegna gli Stati aderenti a realizzare la parità di trattamento tra lavoratori nazionali e lavoratori migranti nel campo delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro, a risolvere in modo adeguato il problema degli alloggi, a garantire la partecipazione alle organizzazioni sindacali e l’esercizio dei diritti conseguenti, a favorire il miglioramento delle legislazioni sociali.
Si tratta di direttive e raccomandazioni autorevoli e positive ma essendo, come tali, non vincolanti (in taluni casi nemmeno ratificate) rimane aperto il problema della loro applicazione pratica che richiede, necessariamente, complesse trattative bilaterali e multilaterali per la stipulazione di accordi o convenzioni. La circostanza non è, di per sé, dannosa in quanto consente una flessibilità di applicazione in corrispondenza alle diverse situazioni concrete; la difficoltà nasce dal carattere discrezionale delle direttive di carattere internazionale, facilmente eludibili, e dalla diversa logica che ispira tali raccomandazioni e la natura della convenzione. Mentre le prime si ricollegano ai principi della parità di trattamento, in generale, la seconda è ancorata alla regola della reciprocità ed è abbastanza comprensibile che la diversità delle legislazioni, spesso rigide, consentano accordi modesti e parziali nei vari campi. Una analisi comparata delle convenzioni o degli accordi vigenti dimostra, in generale, non solo il carattere limitato delle intese raggiunte ma anche la lentezza della loro evoluzione nel tempo anche in conseguenza, in molti casi, della scarsa volontà politica delle parti contraenti.
E’ evidente che si impone, in questo campo, un maggiore impulso da parte dell’Italia per la revisione e l’aggiornamento delle convenzioni vigenti per generalizzare i risultati positivi che, in talune di esse, sono stati raggiunti nei vari settori (cittadinanza, scuola, sicurezza sociale, scambi tra funzionari, ecc.). Si deve osservare, tuttavia, che non basta una iniziativa unilaterale per stipulare accordi che richiedono un incontro di volontà tra le parti contraenti. A tal fine, oltre alle iniziative da incoraggiare per coordinare e rendere più vincolanti le raccomandazioni elaborate in sede O.I.L., può risultare opportuno e produttivo collegare strettamente le trattative per le intese che investono i rapporti di cooperazione economica e tecnologica, o di scambio commerciale, che risultano di maggior interesse reciproco con le trattative riguardanti la tutela dei diritti dei connazionali in genere e dei lavoratori migranti in particolare. In taluni paesi dell’America Latina e dell’Africa, ad esempio, una condotta procedurale di questo genere, che presuppone un maggiore coordinamento delle diverse competenze a livello del Ministero degli Esteri, porterebbe certamente a risultati più soddisfacenti.
Ma, al di là di questi suggerimenti metodologici, rimangono i problemi di sostanza specifici per il secondo gruppo di paesi sottoposti al nostro esame. Le priorità più significative riguardano, in una prospettiva diversa da quella europea, la scuola e la vita culturale, la reciprocità in materia di sicurezza sociale, il regime della cittadinanza con l’esercizio dei diritti ad essa connessi. Per la scuola e la cultura in molti di questi paesi le difficoltà per i nostri connazionali, a cominciare dalla conoscenza della lingua per arrivare alla profonda diversità dei contenuti culturali si traducono in pesanti discriminazioni e in gravi difficoltà di inserimento. E’ chiaro che occorre fare molto di più in questo campo sia con nostre autonome iniziative, flessibili e tali da non chiudersi in sterili “ghetti”, sia con la richiesta di un maggior pluralismo culturale e linguistico degli ordinamenti dei paesi ospitanti nostri connazionali. Per la sicurezza sociale l’impegno deve essere massimo in quanto il lavoratore migrante stabilizzato per lunghi anni tende, naturalmente, a rientrare nel paese d’origine alla fine dell’attività: se non esiste la possibilità di cumulare i contributi, frequentemente corrisposti in ordinamenti diversi, vengono meno le possibilità di godere per intero le prestazioni pensionistiche e di sicurezza sociale con grave danno e con l’impedimento a pensare con tranquillità al rientro. La difformità dei regimi di sicurezza sociale, delle procedure burocratiche, delle prestazioni assicurate, rendono la materia assai complessa, ma taluni risultati sia pure parziali che sono stati raggiunti consentono di perseguire con maggiore tenacia la loro generalizzazione, che presuppongono anche lo snellimento e la riforma del sistema vigente in Italia, e di puntare con continuità ad un ulteriore miglioramento delle convenzioni già soddisfacenti. Per la cittadinanza il problema è vitale se si considera che, di norma, si tratta di una emigrazione di lungo periodo. Se si vogliono raggiungere risultati positivi occorre affrontare con coraggio, vincendo molte resistenze, la soluzione della doppia cittadinanza che altri paesi moderni, come ad esempio la Francia, hanno da tempo introdotto. Un precedente interessante è la convenzione stipulata in materia tra l’Italia e l’Argentina (un paese dove esistono un milione e mezzo circa di italiani), che per essere valutato nei suoi effetti richiede un sollecito scambio delle ratifiche ed una revisione della nostra legge sulla cittadinanza, o almeno di parte di essa, che risale come è noto al 1912.
Non mancano le polemiche su questo argomento. Taluni studiosi considerano addirittura un “mostro giuridico” ogni ipotesi di doppia cittadinanza e trascurano l’esigenza, umanamente rilevante rispetto al rigore astratto della dottrina, per un lavoratore costretto ad emigrare per lungo tempo di poter avere pienezza di diritti nel paese che lo ospita e di poter riacquistare, senza discriminazioni burocratiche, la condizione giuridica di partenza nel momento in cui torna al paese d’origine. A tutte le osservazioni, certamente degne di attenzione per approfondire la materia, si può ricordare quanto il CNEL, nella sua indagine sull’emigrazione, ha affermato in proposito sin dal giugno del 1970. «Per garantire i diritti civili e politici degli emigranti – si afferma nel documento conclusivo dell’indagine – occorre, anche attraverso intese ed accordi bilaterali ed internazionali, mettere i lavoratori italiani all’estero in grado di partecipare alla vita democratica e sindacale e di scegliere liberamente la cittadinanza di gradimento. Ciò si può ottenere riducendo al minimo le formalità per l’esercizio dei diritti civili e per ottenere una nuova cittadinanza e godere di maggiori diritti in caso di insediamento prolungato all’estero, sia facilitando al massimo la riacquisizione della cittadinanza italiana quando l’emigrato desidera e deve rimpatriare. Date le diverse legislazioni vigenti nei vari paesi, ciò può anche comportare, in certi casi e per un certo periodo, una doppia cittadinanza anche per garantire i diritti dei lavoratori emigrati nelle consultazioni amministrative». Ogni commento sarebbe superfluo.
E’ comunque chiaro che, anche nei paesi extra-europei, è vastissimo il campo di una rinnovata iniziativa per rafforzare, con politiche differenziate e strumenti adeguati, la tutela dei nostri connazionali ed in particolare dei lavoratori migranti.
6. Può apparire curioso che tra le varie politiche d’intervento in favore dei lavoratori migranti si sia definita un’area mista, in cui operano stagionali e frontalieri, indubbiamente priva di connotati certi. L’esigenza è nata da una esperienza pratica. Questi lavoratori migranti esposti, come “pendolari” dei confini, ad un permanente stato di incertezze rischiano di occupare una specie di “zona di nessuno” nel grande fenomeno dell’emigrazione. Ad essi, infatti, non è applicabile la normativa della libera circolazione della manodopera, in quanto operano in gran parte in paesi esterni alla CEE o soltanto associati e con un rapporto saltuario e precario di difficile definizione, e non si addicono – a maggior ragione – le forme di tutela previste per l’emigrazione di lunga durata. La materia è in effetti mista. Essa è oggetto di accordi o convenzioni bilaterali, per la verità il più delle volte insoddisfacenti, ma la difficoltà maggiore consiste non nel prevedere la figura dello stagionale o del frontaliere, ed il loro particolare trattamento, ma nello stroncare la diffusa pratica degli abusi che nascondono in realtà prestazioni di lavoro continuativo in condizioni di inaccettabile sfruttamento.
Il problema è rilevante, sotto il profilo della giustizia ancor prima che della parità di trattamento con gli altri lavoratori migranti, anche perché è notevole l’aliquota dei frontalieri e degli stagionali che incide sull’insieme della nostra emigrazione. La cifra si aggira, secondo le più recenti statistiche, attorno alle centotrentamila unità. Si aggiunga che le rilevazioni non sono facili e quindi sono da considerare verosimili per difetto. Questo particolare fenomeno determina conseguenze negative a più livelli. Si assiste, anzitutto, ad una fase di migrazioni interne in vista di ottenere nella drammatica ricerca di un posto di lavoro la possibilità di fare almeno lo stagionale o il frontaliere. Ciò provoca un incremento artificioso della popolazione residente nei Comuni di confine, con un forte aggravio delle spese relative ai servizi pubblici spesso carenti, e nella fase successiva determina un impoverimento nella produzione di reddito in quanto questi lavoratori migranti prestano poi, saltuariamente, la loro attività oltre il confine. A loro volta i paesi che sono in grado di utilizzare consistenti gruppi di frontalieri e di stagionali, senza avere gli oneri della residenza e di contratti di lavoro continuativo, godono il vantaggio di imprese che introducono un elemento di distorsione della concorrenza per la disponibilità di manodopera a minor costo. Nel quadro di questi gravi squilibri l’incertezza giuridica del frontaliere e dello stagionale, anche ai fini della residenza, il prolungarsi delle prestazioni con contratti interrotti ogni anno per evitare il configurarsi di un lavoro continuativo, il disagio dei ripetuti spostamenti e dei periodi forzati di attività, rendono assai precaria ogni forma di normativa sociale o assicurativa per questi lavoratori migranti spesso danneggiati anche da anacronistici regimi di doppia imposizione fiscale.
Si aggiunga che il fenomeno si verifica in qualche caso (vedi la Svizzera) in paesi che, tendendo a ridurre il numero dei lavoratori migranti a rapporto continuativo, subiscono frequentemente le tentazioni di ricorrere a legislazione anti-stranieri di marca xenofoba. Tutto ciò aggrava, evidentemente, una situazione già precaria. Ancora più condannabile si presenta, poi, il fenomeno dell’emigrazione clandestina attraverso le frontiere che da luogo ad un vero e proprio “mercato nero” della manodopera. Anche qui i controlli sono insufficienti e mancano, nella normativa internazionale, sanzioni severe per punire esemplarmente i responsabili di questo commercio di forza lavoro ridotta brutalmente a merce.
Convenzioni bilaterali e raccomandazioni dell’O.I.L. hanno cercato di contenere, in qualche misura, le conseguenze più negative dell’insieme di questi fenomeni. Tentativi per ottenere, con accordi ad hoc, una graduale trasformazione dei contratti degli stagionali, quando la loro attività risulti prolungata neltempo, sono stati fatti ma la loro applicazione spesso evitata con espedienti è insoddisfacente. Proposte di “ristorni” fiscali sul reddito dei frontalieri per mettere i Comuni di frontiera nelle condizioni di predisporre con le entrate aggiuntive, maggiori servizi pubblici e nuovi posti di lavoro sono allo studio, ma la loro attuazione si presenta faticosa. La ricerca di mezzi per garantire, a questi lavoratori migranti, pensioni e prestazioni di sicurezza sociale, diritto all’indennità di disoccupazione, alloggi a particolari condizioni, trasporti più rapidi e confortevoli, facilitazioni nei passaggi di frontiera (che a volte si prestano ad abusi), ha portato in taluni settori a risultati soddisfacenti ma nell’istante siamo molto lontani da soluzioni positive.
Tutti questi problemi, diversi da quelli che si pongono per altri lavoratori migranti, richiedono dunque una politica particolare e iniziative che si scontrano molte volte, purtroppo, con la scarsa volontà della controparte. Di quila necessità che l’azione bilaterale sia accompagnata, in sede CEE ed internazionale, da strumenti di accertamento, da controlli, di interventi di organismi autorevoli e obiettivi rispetto alle parti in causa, in modo da colpire con sanzioni severe e vincolanti le distorsioni più gravi derivanti da questi fenomeni e da incoraggiare migliori intese, con garanzie di applicazione, nell’ambito unilaterale. Un compito particolare spetta, di fronte a questi fenomeni, all’O.I.L. che ha allo studio da tempo i problemi più urgenti, anche nel campo del “mercato nero” della manodopera, e proprio l’anno prossimo avrà a Ginevra una occasione importante per concludere il proprio lavoro con direttive e raccomandazioni che ci si augura possano essere il più possibile vincolanti.
L’Italia, soprattutto per l’incidenza degli stagionali e dei frontalieri nel complesso della propria emigrazione, deve dunque operare con una adeguata specificità di interventi, nel campo delle relazioni bilaterali e nelle sedi internazionali competenti, anche in questa area mista che sta a cavallo tra l’area della libera circolazione della manodopera e quella della emigrazione di lunga durata tendente all’integrazione.
7. A conclusione di questa ampia panoramica dei problemi connessi alla “questione dell’emigrazione”, per certi aspetti necessariamente schematica e tuttavia abbastanza completa, sorge naturale una domanda: cosa fa, cosa dovrebbe fare l’Italia per contribuire a migliorare la situazione? Il discorso ritorna all’inizio. Si tratta di aprire, con una svolta politica adeguata, una fase nuova per la difesa dei diritti globali dei lavoratori migranti ad ogni livello. Si tratta, ancora, di eliminare le cause strutturali che nel sistema economico e sociale italiano provocano una emigrazione forzata lontana, per qualità e quantità, da quella normale tendenza alla mobilità dei lavoratori ispirata a consapevole e libera scelta che è certamente auspicabile. Si tratta – infine – di essere coerenti con queste premesse nella nostra politica estera.
L’epoca delle indagini, degli studi, delle discussioni teoriche, è finito. Da anni il fenomeno dell’emigrazione italiana è al centro di pregevoli indagini condotte dai due rami del Parlamento, dal CNEL, dalle forze sociali e sindacali, da istituzioni europee ed internazionali, da partiti politici e dalle stesse associazioni dei lavoratori migranti. Le conclusioni di questo intenso lavoro di ricerca sono in larga misura apprezzabili, anche se suscettibili di aggiornamento, e ciò che occorre oggi è tradurre nei fatti, con maggiore rigore e con una necessaria visione d’insieme, una politica nuova dotata di mezzi finanziari e strumentali adeguati e tendente a far camminare di pari passo la tutela dei diritti dei lavoratori migranti, in Europa e altrove, con la trasformazione profonda della società italiana e del suo stesso modo di porsi nel campo delle relazioni internazionali.
Il compito, come si vede, è assai impegnativo. Ad esso è rivolta, in particolare modo, la convocazione della Conferenza Nazionale dell’Emigrazione che – promessa da anni e sempre rinviata – è ora indetta con legge della Repubblica entro il 1974. L’occasione è importante, trattandosi della prima manifestazione del genere in oltre cento anni di vita nazionale, e non deve essere sciupata. Essa cade in un momento difficile sia sul piano interno che su quello internazionale, ma l’emergenza drammatica dei problemi non è un ostacolo: è un richiamo realistico a recuperare, anche nel campo della politica dell’emigrazione, il tempo perduto per portare a soluzione problemi a lungo disattesi. Torna qui il valore della valutazione iniziale circa la necessità di affrontare la “questione dell’emigrazione” non come all’insieme dei problemi di una categoria contrapposta alla società italiana, o bisognosa di protezione nei paesi in cui presta la propria opera, ma come questione nazionale ed internazionale strettamente connessa alla politica generale, interna ed estera, del nostro paese. E’ in questo quadro politico preciso che, poi, la riforma ed il potenziamento delle strutture di presenza all’estero, a cominciare dalla rete consolare per giungere all’organizzazione scolastica e culturale, lo stanziamento di maggiori mezzi finanziari per il settore dell’emigrazione, l’utilizzo razionale e organico delle rimesse per creare nuovi posti di lavoro o servizi per i lavoratori migranti, l’aggiornamento della legislazione, il coordinamento tra i ministeri che intervengono a vario titolo in questo campo, le iniziative da adottare per rivedere accordi e convenzioni sul piano europeo bilaterale o negli organismi internazionali, le correzioni della politica economica per rendere il nostro sviluppo compatibile con le finalità del pieno impiego, del riequilibrio territoriale, della creazione di posti di lavoro aggiuntivi in vista di rientri eccezionali o normali di connazionali occupati in altri paesi, diventano non l’occasione di interventi sporadici e settoriali, ma le prove concrete di una politica nuova unitaria ed organica.
Per questo la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione rappresenta un impegno politico di grande importanza, non una ennesima e deludente sede di studio o di evasioni tecnocratiche, capace sia di indicare obiettivi precisi, sia di mobilitare le forze che, pur con ruoli diversi, sono interessate alla loro attuazione. Una grande novità che occorre registrare in proposito con favore è che il mondo dell’emigrazione, oggi, non è un mondo inerte o privo di maturità, ma è al contrario un mondo pieno di fermenti, ricco di iniziative, cosciente dei propri diritti, organizzato nel segno di un positivo pluralismo, e quindi pronto a partecipare direttamente con l’insieme delle sue forze, alla soluzione dei propri problemi.
Il tempo del paternalismo o della pura assistenza al lavoratore migrante è finito. Così come tende a finire, e deve finire al più presto, la propensione all’isolamento e alla contrapposizione. Anche nelle forze sociali e politiche italiane, nel Parlamento e nel Governo, nelle Regioni, nelle associazioni, è maturata e viene rafforzandosi la coscienza di una visione nuova nell’affrontare i problemi dell’emigrazione. Vi è qui un punto d’incontro importante, di cui la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione è una sede naturale, per valorizzare, oltre al merito delle proposte concrete che scaturiranno, anche il significato di mobilitazione generale per le azioni concrete che ad essa devono seguire. La Costituzione repubblicana sancisce una parità dei cittadini di fronte alle leggi, siano essi in Italia o all’estero, che è una condizione democratica e unitaria da ricreare dopo tanti anni d’abbandono proprio per dare forza ad una politica nuova di tutela dei diritti dei lavoratori migranti in ogni parte del mondo.
Il traguardo è ambizioso, richiederà anni di sforzi, ma l’importante è muoversi nella direzione giusta facendo ciascuno la propria parte con serietà per il concreto riscatto di quanti pagano l’alto costo umano di intollerabili discriminazioni, di palesi ingiustizie, di squilibri cherendono drammatico il confronto tra la miseria e lo spreco: si tratta, in altre parole, di costruire con pazienza, evitando le tentazioni retoriche, un mondodi uomini liberi ed uguali che si rifiutino, nei fatti, di condannare altri uomini alla condizione di esclusi dalla società di oggi e di domani. L’Italia democratica è interessata, più di ogni altro paese, a dare con la propria Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, ed oltre, una testimonianza concreta di un nuovo e diverso impegno per rendere possibile, con la partecipazione diretta dei lavoratori migranti, le soluzioni coraggiose e a lungo attese di quei problemi che sono stati oggetto della nostra riflessione.
Luigi Granelli
estratto dal volume “Gli esclusi. Oltre 5 milioni di emigranti all’estero”
Edizioni Ucei, Roma, 1974