È tutta da rivedere la leggenda che dipinge Giovanni Battista Montini come il «vescovo progressista», se non addirittura come il «cardinale rosso». Durante il suo episcopato milanese, Montini fu invece refrattario alle aperture a sinistra, sia su scala locale che su scala nazionale. E non per considerazioni politiche momentanee, ma per meditata e precisa scelta ideale. A sfatare la leggenda di un Montini favorevole al centrosinistra sono le sue carte private, gli appunti e la corrispondenza che Eliana Versace, docente di Storia contemporanea alla Cattolica di Milano, analizza nel suo Montini e l'apertura a sinistra, in uscita per Guerini. «Per la prima volta - illustra la Versace - è stato possibile studiare i carteggi privati dell'intero episcopato di Montini a Milano, dal 1954 al 1963, e quello che viene fuori è il grande equivoco che si era creato sulla sua posizione rispetto alla politica di questi anni».
Quale equivoco?
«Quello che presenta Montini come favorevole al
centrosinistra. Secondo certe definizioni de Il Borghese, era
il "vescovo progressista", addirittura il "cardinale rosso", che da
Milano favoriva e proteggeva l'apertura dei democristiani ai
socialisti, per estendere a loro l'area di governo sia nazionale sia
locale. Invece, Montini era il primo a lamentarsi dell'equivoco e a
sentirsi bersaglio di accuse menzognere e di insinuazioni di indole
sociale e politica. Si chiede: come si può dire che io sono così
favorevole all'apertura a sinistra, quando è vero il contrario?»
Qualche esempio?
«Emblematico è il caso Granelli. Nel 1958 la corrente di
sinistra della Dc, Base, propose la candidatura di Luigi Granelli:
Montini espresse la sua contrarietà, e Granelli non passò. Questo caso
era noto, ma fino a oggi era stato interpretato come un episodio
isolato; invece era proprio parte della linea che Montini avrebbe
mantenuto per tutto l'episcopato: ferma e costante refrattarietà a
ogni prospettiva di alleanza tra democristiani e socialisti.
L'arcivescovo si scontrò con i dirigenti democristiani di Base, come
Giovanni Marcora, Camillo Ripamonti, e non lo fece certo per questioni
di opportunità politica del momento - come dicevano i sostenitori
dell'immagine del "cardinale rosso", costretti a giustificare una
posizione che non si capiva».
Perché, allora?
«Dagli scritti emerge con chiarezza che la sua era una
posizione dottrinale: per Montini marxismo e cattolicesimo erano e
rimanevano inconciliabili. E marxisti considerava anche i socialisti,
che chiamava "social-comunisti"».
La sua opposizione quindi era valida anche davanti alle
ipotesi di centro-sinistra per il governo nazionale?
«Rimaneva contrario, come per Milano. Quando la Dc si decise
per l'alleanza con il Psi, Montini fu freddo anche con Aldo Moro, il
segretario nazionale del partito, tanto da scrivergli (30 gennaio
1961): "Se si vuole che le cose abbiano a riprendersi, prima che
avvenga qualche rottura irreparabile, occorre che qui [a Milano,
ndr] la Democrazia cristiana abbia espressione più conforme ai
principi, agli interessi ed ai metodi della causa cattolica". Anche
con Amintore Fanfani, dopo la convergenza degli anni Cinquanta, i
rapporti divennero tesi quando, nel 1960, il politico abbandonò il
centrismo degasperiano per fare il primo (fallito) tentativo di un
governo con astensione socialista. La vera Dc, per il futuro Paolo VI,
era quella di Alcide De Gasperi, lo statista al quale era legato anche
da vincoli personali e famigliari. La linea che doveva continuare a
perseguire era quella del centrismo, cioè l'alleanza con i partiti che
Montini stesso definiva "democratici": il liberale, il
socialdemocratico e il repubblicano».
Poi però il centrosinistra divenne fatto compiuto.
«Sì, e Montini dovette prendere atto della realtà. In questo
ebbe un ruolo importate Giuseppe Lazzati, che nel 1962 si pose come
mediatore tra le posizioni di Montini, sempre contra rio all'apertura
a sinistra, e quelle del partito. Lazzati, personalmente favorevole
all'alleanza con il Psi, la presenta a Montini come una via per
avvicinare quelle classi e quelle masse popolari che altrimenti la
Chiesa non sarebbe riuscita a raggiungere».
Come furono i rapporti con le amministrazioni di
centrosinistra a Milano?
«Cercò di evitare che nascessero, però non fece mai
interventi pubblici: una presa di posizione simile avrebbe significato
indebolire la Dc: un rischio da evitare. In privato, tuttavia, non
solo scrisse ripetutamente al segretario del partito, Moro, ma nel
1959 organizzò un comitato civico che sostenesse le candidature dei
democristiani moderati, contrari all'apertura a sinistra. Non ebbe
successo, e poco dopo Milano Montini fu amareggiato anche per Firenze,
dove si insediò Giorgio La Pira. L'arcivescovo gli scrisse per
esprimergli la sua contrarietà ».
E allora come è nata la leggenda del cardinale rosso?
«Nel 1960 Montini pubblicò una nota, che doveva rimanere
riservata e invece finì sui giornali, nella quale condannava
l'apertura a sinistra. Lo fece, usando una formula comune già usata
dal cardinale Giuseppe Siri e in diversi documenti ufficiali della Cei,
opponendosi al progetto "al momento presente e nella forma ora
prospettata". La grande maggioranza dei quotidiani lesse,
correttamente, la nota come una pubblica condanna; invece Il
Giorno di Enrico Mattei, molto vicino alla Base, ne diede
un'interpretazione opposta: amplificando questo piccolo inciso,
sostenne che in fondo non era una condanna, che in fondo
l'atteggiamento del vescovo avrebbe potuto cambiare… Fu la sinistra
democristiana di Base, che si sentiva attaccata, a diffondere l'idea
che quella di Montini fosse soltanto un'opposizione momentanea,
contingente».
Edoardo Castagna
Avvenire, 4 maggio 2007