Intervento al Convegno di Lucca
1 - Valore a limiti del convegno.
2 - Gli orizzonti aperti dal Concilio.
3 - Il problema dell'unità politica dei cattolici.
4 - Lo sviluppo della democrazia per contenere i pericoli della società tecnologica.
5 - La prospettiva del pluralismo.
La preparazione di questo convegno, com'è noto, è stata accompagnata da vivaci polemiche. Ciò merita qualche chiarimento anche perché in questo caso l'assenza di dibattito non è mai una risposta. E' fuori discussione l'utilità di un confronto di tesi tra cattolici che pur richiamandosi ad una comune matrice religiosa sono portatori di una diversa esperienza culturale e politica. La preoccupazione, se mai, è che il dialogo sia effettivo, alieno da strumentalismi e da false schematizzazioni, ed è a questa costruttiva preoccupazione che vanno ricondotte le perplessità e le polemiche precedenti il convegno.
Lasciamo pure da parte l'impressione provocata dal pronto accoglimento in sede di partito della esortazione degli amici che presiedono il convegno, di cui abbiamo sempre apprezzato l'impegno culturale e la coerenza personale, per non esporci al sospetto in fondo giustificato di una critica maliziosa e aprioristica. E' comunque una positiva novità quella di accogliere senza fastidio, con uno sforzo di reciproca comprensione, le critiche che da più parti e da tempo vanno sviluppandosi fuori dal partito.
Se tutto ciò, come noi ci auguriamo, è il sintomo confortante di una reale disponibilità al dialogo, il fine del convegno, che equivale all'inizio di un processo di rielaborazione ideale e politica, non può non essere quello della massima apertura e del rispetto assoluto di ambiti di autonomia certamente non assorbibili da una logica di partito per sua natura limitata e circoscritta a scelte operative che non tutti condividono.
Non giova a questo fine, a nostro avviso, la formulazione in po' ambigua dei temi delle due relazioni che sottintendono, sia pure con l'orizzonte dei tempi nuovi della cristianità, una esperienza ed una responsabilità politica dei cattolici in quanto tali in una sede che, per la sua qualificazione democratico cristiana, non può e non deve pretendere l'esclusività della rappresentanza dei cattolici in un partito. Nè giova l'assenza di un discorso introduttivo più impegnato di esplicito orientamento democratico cristiano, anche se aperto al dialogo ed al confronto, che non può certo essere sostituito da interventi più marcatamente politici di altri e nemmeno dalle conclusioni finali del segretario politico che, anzi, difficilmente si sottrarranno alla interpretazione di strumentalizzazione del convegno.
Sarebbe stato meglio rovesciare l'impostazione, come abbiamo suggerito in varie occasioni, per dare una più netta conferma dello spirito nuovo che deve animare l'iniziativa di un convegno che apre e non conclude un dialogo, che guarda lontano, che vuole un confronto ideale nell'autonomia degli interlocutori e nel rispetto del dissenso anche se radicale quale prova concreta di pluralismo.
Perplessità e critiche, tuttavia, non intaccano l'idea in sé positiva del convegno ed intendono, anzi, sottolineare il valore della rottura di un diaframma e dell'inizio di un franco dialogo fra cattolici che sentono il forte richiamo al risveglio religioso, culturale, politico, scaturito dal Concilio in risposta ai drammatici problemi che il mondo moderno pone nell'attuale periodo storico. Ed è appunto allo sviluppo di questo dialogo che intendiamo dare un contributo critico franco e sereno, libero da nominalismi e da facili schemi, insieme alla prova della nostra disponibilità a comprendere anche le altrui inquietudini in un comune sforzo di ricerca e di approfondimento.
Una prima precisazione si impone. I1 nostro dibattito si svolge all'interno della suggestiva e stimolante problematica sollevata dal Concilio. Nuovi e impegnativi orizzonti di vita spirituale, di testimonianza concreta, di azione nel mondo moderno per sottrarlo ai rischi dell'egoismo conservatore e di un effimero progresso, si aprono di fronte ai cattolici. Sarebbe un errore ridurre la portata di un appello di questa ricchezza e di questa dimensione, che ancora una volta dimostra la lungimiranza della Chiesa, a modeste e strumentali finalità di natura politica o partitica. Non avrebbe senso vagheggiare, come frutto del Concilio, un partito progressista animato da un malinteso spirito di crociata, quasi ad implicitamente giustificare, nei periodi precedenti, l'esistenza di un partito conservatore o moderato. Ed alla stessa stregua sbagliano quanti, dopo aver preferito i1 conformismo clericaleggiante alla difesa del principio dell'autonomia in tempi difficili, sembrano oggi ricavare dal Concilio soltanto l'affermazione di una maggiore autonomia forse per giustificare un disinvolto pragmatismo che consenta al partito di muoversi a seconda delle necessità più che in armonia con precisi ideali.
Bisogna stare in guardia da queste semplicistiche posizioni post‑conciliari. La tentazione di servirsi della Chiesa, sia pure per fini nobili e giustizialisti, non scompare con il Concilio e può addirittura aumentare se i cattolici non saranno garantiti da tale pericolo attraverso una maggiore formazione teologica. Così come la tendenza a concepire l'autonomia del partito quale progressivo sganciamento da un impegnativo insieme di valori e obblighi morali, per dirigersi empiricamente verso generiche forme di umanesimo politico, rischia di risorgere ancor più minacciosa sotto la spinta del condizionamento storico, soprattutto laddove i cattolici sono portatori di specifiche responsabilità nella gestione del potere, può aprire la via ad una visione separatista o laicistica dell'impegno politico che nulla ha a che vedere con una corretta concezione dell'autonomia.
Il Magistero della Chiesa, con il Concilio, ci chiama invece a percorrere nel mondo la strada di una testimonianza ricca di spiritualità, pervasa di spirito di verità, agganciata a robusti principi morali, ordinata ad un disegno di salvezza trascendente. Tutto ciò traccia un limite di relatività per le realizzazioni temporali, per i sistemi sociali e politici, per le forme della vita economica, per le battaglie di partito, ma al tempo stesso impone ai cattolici il dovere di una presenza coerente, conquistata in autonomia e professata con fede, per avvicinare alla verità il "popolo di Dio" descritto nei testi conciliari, oltre che con la parola, con l'esempio di un lavoro storico espresso in termini positivi, di costruzione umana, come giustamente diceva nella sua relazione il prof. Cotta.
Non più, quindi, spirito di crociata per la conquista integralistica del mondo nel segno di una fallace esteriorità di vita cristiana, ma nemmeno fuga dalle responsabilità per inseguire la meta, tutto sommato egoistica, di una salvezza individuale accompagnata da uno sterile orgoglio intellettualistico.
Da qui discende, a mio avviso, l'appello spirituale ad un nuovo e diverso impegno del cattolico di fronte alla cultura, alla politica, alla testimonianza attiva, ricercata in autonomia e con comunità di intenti, in tutti i campi della vita umana. Da qui scaturisce l'esigenza di un autentico pluralismo di vita cristiana che evita ogni politicismo soffocatore, che consente una maggiore ricchezza di contributi personali, che toglie i cattolici dall'isolamento della cosiddetta "era costantiniana" e li apre al dialogo, alla comprensione, alla tolleranza, alla collaborazione anche con i non credenti per la costruzione di un ordine temporale che nella sostanza sia permeato di autentici valori di libertà, di moralità e di giustizia.
E' in questa problematica di vasto respiro che deve collocarsi senza forzature artificiose il nostro dibattito, per sua natura limitato e circoscritto, e a tale ampiezza di traguardi dobbiamo riferirci costantemente per evitare di ridurre il tutto a rinfacciarci vicendevolmente, con poca carità e molta presunzione, la maggiore o minore aderenza politica o culturale agli insegnamenti conciliari.
Il sintetico riferimento alla complessa ed ampia problematica sollevata dal Concilio ha dunque, per noi, lo scopo di evitare il rinchiudersi in una prospettiva angusta, strumentalistica, nel momento in cui si affrontano più specificamente quei temi di natura politica sui quali, a causa della nostra vocazione ed esperienza, abbiamo il dovere di esprimere con tutta sincerità la nostra opinione. Il tema più scottante, è inutile nasconderlo, è quello dell'unità politica dei cattolici. E' questo, secondo alcuni, il principale nodo da sciogliere dopo il Concilio per aprire una fase di movimento nella cattolicità italiana.
Noi riteniamo piuttosto improduttiva una polemica di principio su questo punto. Non v'è dubbio che, da un punto di vista dottrinale, non è sostenibile la tesi della unità di tutti i cattolici in un partito sulla base di una comune credenza religiosa. Per noi questo principio è riconosciuto da tempo, almeno da Sturzo in poi, ed ora - dopo il Concilio - dovrebbe essere riconosciuto da tutti e cioè anche da chi, in passato, non ha evitato di far leva sul sentimento religioso a fini di orientamento elettorale.
Ma è la situazione di fatto che deve essere esaminata. Ha ragione De Rosa quando osserva che anche in sede storica, in Italia, non è mai esistita una unità politica dei cattolici da quando alcuni di essi si sono organizzati in partito. La conferma di ciò si ha analizzando tutte le scelte concrete di partito, dall'opposizione al fascismo alla Resistenza, dall'impegno repubblicano alla riforma agraria, dalla collaborazione di De Gasperi con i laici all'apertura a sinistra, che sempre sono avvenute in un clima di vivaci contrasti nell'ampio mondo dei cattolici italiani e, spesso, in posizione di diffidenza e di critica della stessa Gerarchia ecclesiastica. Questo non esclude però che, di fatto, si sia intrecciata attorno al partito una complessa realtà elettorale frutto di interventi anche esterni che ricava, certo inconsapevolmente, le motivazioni della propria scelta più da generiche esigenze d'ordine o da vaghi sentimenti religiosi che da una effettiva consapevolezza politica di adesione ai fini a ai programmi del partito stesso. Se si aggiunge poi che, per le stesse ragioni di scarsa maturità politica e di limitata formazione teologica, la confusione tra sacro a profano, tra Stato e Chiesa, tra milizia di partito ed azione sociale od apostolica, permane profondamente radicata anche per la storia particolare del nostro paese e per i legami concreti esistenti tra le diverse istituzioni, non si può non ammettere che nel fatto, e quindi al di là della controversia di principio, tale sorta di unità difensiva e grossolana provoca dannose conseguenze sia in campo religioso che in campo politico.
Sono in molti, infatti, ad attribuire la mancanza di un più intenso risveglio religioso alla identificazione tra cattolicesimo e pratica politica democratico-cristiana che, tra l'altro, può allontanare dalla Chiesa chi si trova in contrasto con il partito e sottrarre alla influenza del clero e dell'apostolato laico larghi strati di cittadini. D'altro lato è noto che, sul piano politico, il desiderio di mantenere un largo seguito elettorale porta frequentemente la classe dirigente di partito ad assumere atteggiamenti ambigui e ambivalenti, a sfumare programmi, ad evitare scelte, a ridursi progressivamente a blocco moderato di potere nonostante le origini di partito programmatico fieramente rivendicato in sede di ricostruzione storica.
Non a caso De Rosa osservava che, ai tempi del Partito Popolare, l'autonomia e l'indipendenza erano più marcate, mentre dalla D.C. in poi, e indipendentemente dalla sua analisi che è apparsa per questo periodo meno penetrante, questa sensazione appare meno nettamente ed è accompagnata, quanto meno, da episodi contraddittori.
E' incontestabile, quindi, che l'unità dei cattolici, così come si manifesta oggi in Italia, può rappresentare un ostacolo sia al risveglio religioso postulato dal Concilio - e non l'unica causa come notava Gozzini nel suo intervento - sia un freno ad una qualificata e laica battaglia politica dei cattolici democratici organizzati in partito.
Come superare, allora, questa situazione? Non certo attraverso il dibattito sui principi che, come abbiamo già detto, si può risolvere solo nella scontata riaffermazione della insostenibilità della tesi della unità dei cattolici in quanto credenti in un unico partito.
La nostra impressione è che ciò che appare confuso di fatto e per ragioni storiche precise, in quanto l'arretratezza culturale e religiosa della cattolicità italiana è fatto precedente che condiziona la stessa unità e azione politica, vada sciolto e sradicato in sede storica eliminando cioè le cause che determinano la situazione attuale. Nascono qui, dunque, l'esigenza di definire obiettivi precisi a seconda delle varie vocazioni e di porsi problemi operativi, non solo di predicazione, che investono piani diversi.
Cade in un imperdonabile vizio illuminista chi pensa di cancellare con un colpo di spugna l'intreccio di equivoci che vincolano religiosamente, culturalmente e politicamente la cattolicità italiana contemporanea.
Tra le terapie in circolazione per sciogliere il nodo di una equivoca e improduttiva unità politica dei cattolici vi è, anzitutto, quella dell'autoscioglimento, del rompere le righe. A parte che resta difficile individuare l'autorità dotata di poteri reali per ordinare, con soddisfazione dei sostenitori di questa tesi, la liquidazione di una consistente realtà politica e di un patrimonio accumulato in decenni di storia, vale la pena di chiederci quali sarebbero le conseguenze di una simile eventualità.
Vi sarebbe, forse, come conseguenza immediata quella di un improvviso e benefico risveglio religioso che compenserebbe certamente più delle effimere fortune politiche di un partito? Noi abbiamo molti dubbi in proposito. A parte il vuoto politico che si creerebbe nel paese, con rischi evidenti per le nostre libere istituzioni democratiche e con quei non trascurabili problemi di coscienza per i politici cui alludeva giustamente l'on. Forlani, vi sarebbe certamente una corsa per accattivarsi da parte di tutti gli altri partiti i voti cattolici disponibili. Si tornerebbe al clima del "patto Gentiloni" come ha recentemente notato in un interessante editoriale la rivista "Relazioni Sociali", e la gara per dare maggiori garanzie di lealismo confessionale, se non a forme di clericalismo di ritorno, aprirebbe la via ad un nuovo e ancor più deteriore strumentalismo politico teso, da un lato, alla fagocitazione dei cattolici dispersi in vari partiti e, dall'altro, alla realizzazione di prospettive concordatarie che comprometterebbero comunque la Chiesa nel suo inevitabile rapporto con il nuovo regime.
In questa ipotesi, a nostro avviso, pochi sarebbero i vantaggi sia dal punto di vista religioso, che sarebbe poi il principale obiettivo, e ancora minori sarebbero i vantaggi politici tanto per i cattolici militanti quanto per la democrazia italiana.
Vi è poi un'altra terapia: quella della pluralità delle espressioni politiche dei cattolici italiani. Questa prospettiva è, senz'altro, più realistica. Nessuna difficoltà esiste, in via di principio, alla pluralità di partiti politici tendenti a organizzare i cattolici in base a diversi programmi. Non è certo possibile aspettare, per questa ipotesi, una investitura dall'alto o il mandato per eventualmente sostituire i cavalli logori con altri più freschi, ma non meno equivoci. Un partito che intenda operare sul terreno democratico non può nascere d'incanto o per infantili calcoli machiavellici. Esso deve conquistarsi un posto reale nella società, prospettare una funzione valida nazionalmente e non solo interessi di categoria o di classe sociale, conquistarsi esplicitamente nella lotta politica una cittadinanza credibile e costruttiva. E' possibile tutto ciò?
I cattolici che ritenessero di doversi muovere in questa prospettiva, in polemica con la stessa Democrazia Cristiana, hanno il pieno diritto di farlo e, se avessero il coraggio di non aspettare comodamente l'ora X e di correre gli inevitabili rischi personali e di gruppo continuerebbero certamente a far decantare la situazione molto più che con le prediche velleitarie e moralistiche contro una equivoca società.
Ma anche in questa ipotesi, quali sarebbero le conseguenze? Forse che più partiti di cattolici, in concorrenza tra loro, eliminerebbero il rischio di richiamarsi strumentalmente all'insegnamento della Chiesa provocando, di conseguenza, una ennesima e ancor più grave confusione tra sacro e profano, tra religione e politica?
Quali sarebbero, allora i vantaggi al fine di una ripresa religiosa o di un diverso tipo di presenza politica dei cattolici nella società italiana? Dal punto di vista religioso la compromissione politica, sia come partecipazione individuale che come pluralità di partiti, cambierebbe soltanto di forma e sarebbe necessario ricercare su altri piani, peraltro non inibiti nemmeno nella situazione presente, le spinte per una ripresa di tensioni morali e religiose; da un punto di vista politico la polverizzazione, sia individuale che di partiti, porterebbe alla difesa di interessi parziali e settoriali e, comunque, alla subordinazione verso altre forze politiche che acquisirebbero di fatto la "leadership" della vita nazionale con una innaturale inversione della storia nazionale degli ultimi cinquant'anni.
Le cose, dunque, devono restare così? Sono in molti quelli che, anche tra noi, prendono a pretesto la mancanza di alternative per perpetuare una situazione di equivoco sempre meno accettabile. Noi non siamo tra quelli. La nostra convinzione è che occorre imboccare, al più presto, la via del superamento di una unità equivoca dei cattolici che provoca danni in campo religioso e in campo politico. Ma per fare questo è necessario operare con decisione in più settori.
In primo luogo nel campo religioso. Siamo tutti responsabili del ritardo con il quale i frutti del Concilio si manifestano in Italia, perché siamo tutti figli della Chiesa ed il nostro compito di credenti è di contribuire con impegno a quel risveglio religioso che, a nostro avviso, deve essere un obiettivo primario dei cattolici italiani. Tutto ciò che consente di avvicinare questo traguardo va messo in atto. Non nascondiamo le nostre colpe di credenti, in rapporto ai problemi della vita religiosa, dietro l'alibi dell'esistenza di un partito di cattolici.
Dal rinnovamento liturgico alla preparazione teologica, dalla mistica all'apostolato dei laici, dalla testimonianza civile alle battaglie per la moralizzazione del costume, dalla critica alla stessa "opposizione cattolica" alla Democrazia Cristiana in senso religioso - se occorre - come accennava Gozzini, purché si pervenga attraverso un consapevole impegno comune a quella maturazione religiosa della cattolicità italiana che è non ultima ragione della povertà culturale e della scarsa chiarezza politica.
In secondo luogo nel campo culturale; al di là della stessa Democrazia Cristiana, che non può certo trascurare i problemi della cultura anche se deve rifiutare una visione puramente politicistica di essi, esiste un largo spazio di presenza pluralistica, autonoma, per iniziative di ricerca, di studio, di elaborazione, sugli aspetti più importanti della nostra società e del nostro tempo, che deve essere - e gia in parte lo è - occupato da cattolici che sappiano muoversi con serietà e in armonia con lo spirito del Concilio. Chi non sente il peso del condizionamento politico, per la diversità della propria vocazione, ha il dovere di essere anticipatore, fortemente polemico e stimolatore, più aperto al dialogo ed al confronto, per dare prova di una testimonianza concreta di presenza culturale viva e costruttiva che tanta parte ha nello sviluppo civile e politico dei cattolici e della società italiana.
E, infine, nel campo politico. Si è già detto della tendenza allo sfruttamento dell'attuale unità come elemento di forza, come investitura che deriva le proprie motivazioni da fattori molteplici, e dei rischi che tutto ciò comporta per la alterazione dello stesso concetto di partito politico a base programmatica. Occorre rovesciare questa tendenza, che porta all'unità degli interessi, al moderatismo, alla pura difesa del potere acquisito, per ricreare attorno ad un chiaro e non ambivalente programma di riforma della società e dello Stato i presupposti di una autentica unità politica. Non l'unità di tutti i cattolici, ma di quelli che accettano il metodo della democrazia e gli obiettivi che il partito si pone come finalità propria. Va da sé che un partito deve poi ricercare il massimo di consensi attorno alla sua azione, ma è chiara la funzione di maturazione politica, di demistificazione di una falsa e metapolitica unità, che una siffatta azione porta con sé. Ha ragione Almirante: l'unità politica non è più un dato pacifico - se mai lo è stato - ma è un obiettivo da conquistare autonomamente e con le sole armi della politica. I1 problema dell'unità, dunque, riguarda i democratici cristiani, ed esclusivamente loro, investe il loro programma di azione e richiede un impegno a raccogliere forze sulla base di un consenso motivato che lasci comunque al cattolico in quanto tale la propria libertà e autonomia di opzione. Può riguardare anche altri indirettamente, se si accetta la logica della chiarezza e non quella - mi sembrava accennare 1'amico Labor stamane - di un generico movimento cattolico che annullerebbe, riportandoci ai tempi dell'Opera dei Congressi, il vero valore del pluralismo. E questa responsabilità di altri investe un solo punto: quello della rinuncia a chiedere, dall'esterno alla Democrazia Cristiana di essere la rappresentanza corporativa di settori e gruppi di interesse in base ad una concezione dell'unità largamente superata, soprattutto dopo il Concilio.
Non è questa la sede per entrare nel merito di quest'ultimo punto. Certo è che la Democrazia Cristiana ha bisogno, per raggiungere questo obiettivo, di un largo processo di revisione nel suo metodo interno, nelle idee e nei programmi, nella classe dirigente, nel concepire il suo rapporto con lo Stato e con le istituzioni in genere, nel costruire con decisione il modello di un partito aperto in una società pluralista in evoluzione. E a questo proposito vi sono alcuni spunti nella seconda parte della relazione De Rosa che per quanto generici a sfumati, quali ad esempio quelli relativi al moderatismo e alle condizioni di una moderna politica di sviluppo, vanno attentamente considerati.
Ma dopo il tema dell'unità, o quantomeno del modo di concepirla correttamente, viene come urgenza e importanza quello dei contenuti qualificanti la nostra azione politica per la costruzione di un nuovo ordine temporale. I testi conciliari sono espliciti in materia. "Sbagliano - essi dicono - coloro che, sapendo che sul piano temporale noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono invece che proprio la fede li obbliga ancor di più a compierli, secondo 1a vocazione di ciascuno".
Si tratta, quindi, di ricavare da una seria analisi della realtà e dei suoi problemi le indicazioni per una azione politica di trasformazione della situazione presente sia interna che internazionale. I grandi temi della riforma organica e strutturale dello Stato, della modifica dei meccanismi di sviluppo dell'economia, della costruzione di un pluralismo istituzionale nella società, della difesa con atti concreti della pace quale condizione primaria della evoluzione dell'ordinamento internazionale, devono cessare di essere occasione di esercitazioni verbali per divenire metro di scelte operative coerenti ed incisive. Non è il caso, anche per mancanza di tempo, di entrare in questa sede nei singoli aspetti di tale programma politico. Conta, invece, riflettere sulle motivazioni ideali di questo sforzo di rinnovamento.
I1 fine, è stato detto più volte, è quello di liberare l'uomo e le classi sociali da ogni sorta di schiavitù, di dominare razionalmente lo sviluppo storico, di garantire la convivenza e la collaborazione tra tutti gli uomini di buona volontà per raggiungere, con l'uso di tutto le risorse disponibili, un più alto grado di civiltà: l'umanesimo plenario di cui parla, appunto, la "Populorum progressio".
Ci sono, a questo proposito, molte cose interessanti nella relazione del prof. Cotta; ma vi sono anche alcuni pericoli che ci sembra doveroso sottolineare.
Siamo d'accordo che il benessere, il riformismo economico, la civiltà dei consumi, non rappresentano né la risposta al marxismo, né la risposta all'ansia di libertà dell'uomo; siamo anche d'accordo che viviamo in un tempo che segna la fine delle ideologie astratte, prefabbricate, di derivazione ottocentesca. Occorre tuttavia ricordare che se tutto ciò è vero sul piano filosofico, o più modestamente su quello della storia delle idee, tutto ciò tarda ancora a verificarsi sul piano storico del movimento reale degli uomini, delle forze organizzate, degli ordinamenti economici e politici. Stiamo attraversando, a nostro avviso, una travagliata fase di transizione che ha bisogno di dure lotte, di dialogo e di confronto più che di disarmo ideale, di presenze qualificanti, per essere indirizzata nella direzione giusta.
Può essere estremamente pericoloso inventare a tavolino dei nuovi miti. Noi non crediamo che la civiltà tecnologica, con tutto il suo affascinante bagaglio di scoperte scientifiche e i suoi mezzi per liberare l'umanità dal suo malessere, possa rappresentare la via d'uscita dal travaglio attuale, l'approdo finale di un mondo che si è liberato dalle ideologie. I1 concetto di civiltà tecnologica non è meno mistificante di quello della civiltà del benessere.
A parte la constatazione che anche la rivoluzione tecnologica, oggi e specie in Italia, è solo una aspirazione da avvicinare con una concreta politica, le nostre riserve sulle possibilità di palingenesi del progresso tecnico e scientifico permangono.
Intendiamoci: non rifiutiamo le immense possibilità che il progresso tecnologico mette a disposizione dell'uomo per il raggiungimento dei fini temporali, e nemmeno il contributo che esso può dare a porre in crisi modelli chiusi e ideologizzanti della società umana, ma riteniamo che in assenza di precise condizioni di partecipazione, di sostanziale democrazia, di autentica libertà, la civiltà tecnologica può tradursi in una ulteriore spinta ad asservire l'uomo anziché a liberarlo. Poniamoci, realisticamente, una domanda.
Chi, infatti, se non i grandi gruppi economici, i detentori del potere negli Stati, i paesi più ricchi e progrediti, può concretamente utilizzare il progresso tecnologico che richiede grandi mezzi, possibilità organizzative, intese tra gruppi oligarchici e potenti? Tutto ciò porta con sé, evidentemente, un rischio tremendo di estensione del dominio di chi già detiene il potere, in funzione di conservazione del proprio modello ideologico o di vita, a danno delle forze sociali più deboli, dei paesi meno progrediti, dell'uomo e delle classi sociali che cercano libertà e non solo affrancamento dal bisogno, razionalità ed efficienza.
Perciò il problema della democrazia nelle sue varie forme storiche, che è poi in radice il problema della libertà e della generalizzazione del potere, è a nostro avviso prevalente e condizionante la stessa utilizzazione più alta, meno dispotica, delle conquiste tecnologiche.
E questa constatazione ne porta con sé un'altra. Si intravede, nella parte finale della relazione Cotta, il rischio di una nuova forma di integralismo non più legato ad una ideologia definita, ma permeato di astrattezza storica. La posizione del cattolico è portata, dopo il Concilio, a porsi più correttamente che nel passato di fronte alla meta della salvezza trascendente e a far discendere da ciò il dovere di una illuminazione spirituale dell'umanità con un senso, giusto, della relatività dell'ordine temporale. Si è già detto del dovere, evidentemente condiviso anche da Cotta, di contribuire attivamente alla costruzione di questo ordine temporale; ma a nostro avviso non basta. Ci sono anche altri uomini, con le loro idee, con la loro storia, che si muovono nel mondo e che condizionano lo sviluppo futuro. Esiste quindi un problema di dialogo, di incontro, di una collaborazione reciproca per favorire un processo di revisione delle rispettive ideologie e per costruire, con 1'apporto di tutti gli uomini di buona volontà, una nuova realtà umana.
Non si può dare per scontata la fine del marxismo e dei movimenti politici che ad esso si richiamano, né si può ritenere superata una tradizione di liberalismo pratico che ha finito con l'assorbire anche molti di noi: occorre, in altri termini, fare i conti con il mondo moderno e con le sue espressioni politiche, per decantarle a farle crescere, anziché rifugiarsi in una nuova forma di integralismo che fugge dalla realtà.
E qui l'esigenza del dialogo senza restrizione alcuna - come ha significativamente sottolineato il Presidente del Consiglio on. Moro, del confronto e della collaborazione tra forze diverse, che è poi il metodo della democrazia politica, presuppone e richiede più che il disarmo ideologico nella direzione di un pragmatismo più o meno storicizzato, una revisione profonda delle ideologie tradizionali che faccia tuttavia posto ad un sistema di valori che conservi alla politica, all'azione concreta, la forza di un orientamento ideale. E ciò, ripetiamo, non solo per dare a noi stessi un senso storico più preciso alla nostra presenza nel mondo, ma anche per aiutare gli altri - senza alcuna velleità di crociata ideologica a portare innanzi sotto lo stimolo altrui anche la propria revisione ideologica. Forse che la lentezza con la quale, per fare solo un esempio, si va sviluppando nel comunismo italiano un processo benefico di revisionismo non dipende anche, almeno in parte, dalla nostra incapacità di svolgere una funzione stimolante in tale direzione?
Ciò vale anche per altri campi e non v'è dubbio che la caduta verticale delle speranze sollevate dalla politica di centro-sinistra, il suo appiattirsi in un ambito di riformismo settoriale e di semplice occupazione e mezzadria del potere, si deve in gran parte alla sottovalutazione, all'interno dell'alleanza, dei problemi di natura ideale e delle revisioni che le trasformazioni in corso sollecitano.
Per questo noi auspichiamo che la salutare presa di coscienza che la relazione del prof. Cotta sollecita non spinga e delle pericolose evasioni, e delle facili fughe in avanti, ma si arricchisca di una maggiore consapevolezza storica per metterci nelle condizioni di compiere, anche nel rapporto con gli altri uomini di buona volontà, interamente il nostro dovere.
La conclusione che vorremmo trarre da questo nostro contributo è tuttavia una sola: al di là delle opinioni di ciascuno, necessariamente differenziate, è importante che emerga per tutti il dovere di una testimonianza reale della nostra disponibilità a raccogliere l'appello del Concilio. C'è molto da fare, per tutti, in campi diversi a seconda delle rispettive vocazioni: se avremo coraggio, capacità di dialogo, tolleranza e autentico spirito di carità, potremo contribuire ad avvicinare in unità di intenti quei tempi nuovi che sono al fondo delle aspirazioni di ogni cattolico che voglia testimoniare nel mondo la propria fede ed il proprio impegno civile.
Lucca, 29 aprile 1967
Luigi Granelli