SULLA NATO DECIDERA' IL PARLAMENTO

D'Alema è il primo "post-comunista" che guida un Governo europeo occidentale ad essere ricevuto alla Casa Bianca. Così ha scritto il New York Times alla vigilia dell'incontro con Clinton. Ed ha assicurato che il suo passato di comunista non avrebbe pesato. Anche le incomprensioni sull'Irak o sul caso Ocalan potevano passare in secondo piano con intese per il futuro, specie a proposito della Nato. La svolta è significativa. e pensare che proprio per aver favorito quell'evoluzione democratica dei comunisti italiani che ora viene apertamente riconosciuta. La preparazione della visita era stata intensa, ma l'inaccettabile sentenza per la strage del Cermis ha cambiato la scena. 

Sono rimasti in agenda, il problema curdo, la crisi con l'Iraq e nel medio Oriente, il ruolo dell'ONU, le forniture all'Iran, i rapporti commerciali tra gli Usa e l'Europa del dopo euro, il futuro della Nato. Anche le valutazioni sulla "globalizzazione" sono state rinviate da D'Alema ad un incontro più culturale che politico in Italia come aveva suggerito Prodi, criticato per questo, dopo il vertice con Clinton e Blair. Ma è stata la sentenza del proscioglimento del pilota Richard Ashby a tenere il primo posto. La fermezza conclusiva di D'Alema è stata apprezzabile. L'Italia ha in primo luogo diritto alla giustizia. L'impegno al risarcimento, che è un atto dovuto e previsto da accordi, non può sostituire l'accertamento della verità. 

Le iniziative da sviluppare sono impegnative. La revisione del Trattato di Londra del 1951 non è limitabile alle regole di funzionamento o alla definizione di elevati standard di sicurezza. Così come gli aggiornamenti dello "status" delle basi militari della Nato, o Usa, devono tener conto della fine della "guerra fredda". E' demagogico parlare, come fa Cossutta, di "sfratto". Si tratta di stabilire nuove e precise garanzie, anche per quanto riguarda la giurisdizione, per i diritti dei Paesi che ospitano una presenza militare alleata. Ha perciò fatto bene il capogruppo popolare alla Camera, Soro, a chiedere esplicitamente questa revisione. E' augurabile, ora, che gli atti concreti prendano il posto dello sdegno. Fuori discussione, invece, deve restare la scelta di fondo dell'Alleanza atlantica. Altro è discutere del futuro militare della Nato. Vi è motivo di credere che l'argomento trattato da D'Alema a Washington dovrebbe essere oggetto di informazione parlamentare. Alla vigilia del viaggio in Usa è stato usato un articolo di D'Alema, apparso su "Herald Tribune", per ipotizzare concessioni alla tesi americana di interventi alla Nato anche senza intesa con l'ONUu e favorire così una piena legittimazione del capo del governo italiano. La pressione è apparsa grossolana. E' la contropartita che non ha senso. La Repubblica italiana, come sosteneva Moro, non è sotto tutela e i nostri Presidenti del Consiglio non hanno bisogno di una legittimazione americana per il loro mandato. 

D'Alema ha anche diritto di esprimere dissenso quando è necessario. La chiarezza rafforza la lealtà dei rapporti tra Italia e Usa. Quanto ai nostri impegni verso l'Alleanza atlantica, liberamente sottoscritti, non si tratta certo di una novità. La fedeltà dell'Italia è costante da decenni, risale a prima del governo Amato richiamato dal presidente del Consiglio come spartiacque del passato. Dai tempi dello "strappo" di Berlinguer la collocazione internazionale scelta nel 1949 è condivisa anche da gran parte della sinistra. Il ruolo futuro della Nato si esaminerà al vertice di aprile, a Washington, nel suo 50° anniversario. Ed è il Parlamento italiano che dovrà pronunciarsi sulle varie proposte. La materia è troppo delicata per essere oggetto di "captatio benevolentiae" su "Herald Tribune". 

Non si tratta di ingaggiare una gara tra gli Stati Uniti e l'Italia per estendere i compiti dell'Alleanza. Né si può dare per risolto un problema come quello del futuro della Nato sul quale l'intera Europa sta riflettendo ed il Parlamento italiano dovrà pronunciarsi. Vanno comunque evitati equivoci di partenza. Nei rapporti con Washington è sempre latente la tentazione di ottenere simpatie abbondando in concessioni. Ricordo in proposito una istruttiva esperienza personale. Nel 1978 organizzai, quale dirigente esteri della DC, un viaggio negli Stati Uniti per spiegare le ragioni dell'apertura verso il PCI. L'obiettivo era ambizioso, data l'ostilità americana. 

Gli incontri furono di buon livello. Una conferenza alla "Columbia University", a New York, colloqui con importanti centri di ricerca a Washington, udienza alla Commissione esteri del Senato e incontri con autorevoli membri del Congresso, con Consiglieri della Casa Bianca e con organi di stampa e riviste specializzate, furono le occasioni dell'impegnativo confronto. In tutti quei colloqui, non facili, era presente l'eco di precedenti visite di dirigenti del PSI che avevano assicurato fede atlantica senza riserve, anticomunismo, piena intesa con gli Usa rispetto alle velleità di autonomia di una DC non più in grado di fornire garanzie. La cosa mi apparve molto sgradevole. Ma serve oggi a sottolineare quanto siano dannose strumentali concorrenze nell'illusione di migliorare, con eccessi di condiscendenza, i rapporti con la Casa Bianca. 

I fatti hanno poi dimostrato che la corsa a mettersi a disposizione non garantisce esiti migliori dell'esposizione franca, leale, animata da maggiore dignità di eventuali dissensi. Seppi, più tardi, di giudizi lusinghieri sulle mie non reticenti spiegazioni, pur accompagnati da riserve per la tenace difesa della politica di Aldo Moro. Ne fui turbato. Il tempo avrebbe fatto giustizia anche di questa diffidenza. Il richiamo alla realtà era stato più utile, per gli stessi americani, di furbeschi allineamenti di corta durata. Anche D'Alema ha raccolto i frutti di questa semina e l'onestà dei rapporti tra Italia e Stati Uniti è ancora garanzia di amicizia e di affidabilità. 

Il Dipartimento di Stato americano, per tornare in argomento, ha predisposto un "dossier" sulle nuove "dottrine strategiche" per estendere, senza autorizzazione dell'ONU, il concetto di difesa ad interventi fuori dall'area di pertinenza. Già il tentativo di sperimentare sul campo, in Kosovo, questa nuova "dottrina" ha diviso e divide gli europei. Nella sua visita a Washington, prima di D'Alema, il presidente Chirac ha condizionato l'adesione della Francia ad un impegno militare della Nato, sia pure a scopi di pace, alla legittimazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Il Trattato del Nord Atlantico è assai chiaro nelle sue finalità. Lo scopo esplicito dell'Alleanza (art. 5) è quello della difesa dei suoi membri da aggressioni con l'impegno di immediato aiuto al Paese aggredito, in attesa che "l'ONU possa ricondurre il conflitto in un ambito di legittimità". 

Le iniziative militari "saranno interrotte appena il Consiglio di Sicurezza avrà preso le iniziative necessarie per restaurare e mantenere la pace e la sicurezza internazionale". E i compiti della Nato sono strettamente collegati al "diritto di autodifesa individuale e collettiva riconosciuto dall'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite". La filosofia del Trattato non lascia dubbi. "Le parti (art. 1) si impegnano a regolare ogni controversia internazionale, in cui possano essere coinvolte, con mezzi pacifici, di modo che la pace, la sicurezza e la giustizia internazionale non ne siano danneggiate; e ad evitare nelle loro relazioni internazionali la minaccia o l'uso della forza quando siano incompatibili con gli scopi delle Nazioni Unite". De Gasperi, nei suoi discorsi parlamentari per l'approvazione del Trattato nel 1949, sostenne con forza, quali limiti invalicabili, le finalità esclusivamente difensive dell'Alleanza e la sua conformità con l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Essa, in cinquant'anni, ha scoraggiato aggressioni, salvato la pace, nel rispetto dei dispositivi del Trattato. La mutata situazione internazionale richiede un aggiornamento per consentire, con riferimento alla sicurezza più che alla difesa, interventi di pacificazione, come in Bosnia, che minacciano l'ordine internazionale. Ma ciò richiede, sulla base del Trattato, l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU ed il consenso delle parti in conflitto. E' difficile andare oltre senza rivedere gli articoli 1 e 5 del Trattato vigente. Non basta certo una "dottrina strategica", frutto di una tecnica militare, per modificare norme di diritto che sono di competenza esclusiva delle Parti contraenti. Il presidente D'Alema ha del resto già annunciato, il 17 dicembre scorso, un confronto parlamentare "sulla politica estera in vista del vertice della Nato a Washington dove si discuteranno questioni rilevantissime come il nuovo concetto strategico". Non viene meno l'impegno dell'Italia a concorrere, anche con la Nato, alla tutela della sicurezza e della pace, in cooperazione con l'ONU, ma tocca anche a noi, con la Francia, difendere il Trattato in vigore e le procedure corrette per la sua eventuale revisione. La scelta non è tra filo e anti americanismo. Per contribuire ad un ordine mondiale pacificato, libero, più giusto, c'è bisogno di una forte partnership tra Europa e Stati Uniti più che di una sola potenza mondiale circondata da satelliti. Il coordinamento in sede europea è più importante di qualsiasi gara a chi arriva prima ad allinearsi agli Usa con scarsa dignità.

Il Popolo
9 marzo 1999
Luigi Granelli