OBIEZIONE DI COSCIENZA PER IL KOSOVO

Caro Bodrato, ricorro ad una lettera per non coinvolgere, nel mio giudizio personale sulla rischiosa situazione del Kosovo, il Popolo. Mi auguro però che la mia franchezza aiuti anche il PPI ad assumere posizioni meno ambigue di fronte ad una crisi tutt'altro che conclusa. Si è aperto, all'ultimo momento e non si sa per quanto, uno spiraglio per una soluzione politica e pacifica di un conflitto disastroso per i Balcani e pieno di incognite per la stessa pace mondiale. 

Non sembra ci sia in Italia una diffusa coscienza di questo rischio. Pare, al contrario, che una difficile scelta di politica estera sia stata ancora una volta strumentalizzata alle esigenze degli schieramenti interni in un semplicistico referendum pro o contro la Nato che ha finito con lo stravolgere il merito dei problemi. Vi è chi continua ad insistere, anche in vista di uno sbocco negoziale, sulla superiorità di una soluzione bellica, definitiva, che una diplomazia possibilista avrebbe evitato. 

Da più parti si è spinto, con straordinaria leggerezza, al ricorso ai bombardamenti aerei per mostrare i muscoli dell'Occidente, piegare con la forza il regime di Belgrado, tutelare i sacrosanti diritti degli albanesi del Kosovo e assicurare assistenza ai profughi. Eppure questa scelta, che solleva preoccupazioni di ordine etico e non è certo in sintonia con l'art. 11 della Costituzione  ("l'Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali"), è di quelle che giustificano, anche in Parlamento, fondate obiezioni di coscienza. 

Ma anche sotto il profilo politico c'è da riflettere più attentamente. E' del tutto condivisibile la fondata reazione della comunità internazionale di fronte ad un nuovo tentativo di pulizia etnica della Repubblica Jugoslava, con una brutale repressione dei diritti fondamentali della popolazione di origine albanese, che ha portato al dramma di trecentomila profughi nella propria patria. Giustamente l'ONU, considerando i rischi alla sicurezza mondiale derivanti dalla destabilizzazione dei Balcani, oltre che la difesa di diritti umani fondamentali, ha richiesto, con la risoluzione n. 1198, il ritiro delle truppe speciali di Belgrado dall'area, il cessate il fuoco delle parti belligeranti (guerriglia albanese compresa), il negoziato interno per dare al Kosovo non l'indipendenza ma un'autonomia rafforzata. 

Milosevic non ha mai attuato questa risoluzione. Pienamente giustificata la pressione internazionale, l'azione diplomatica del "gruppo di contatto" ed anche la disponibilità della Nato ad un possibile intervento di dissuasione su formale mandato dell'ONU. Questa è stata la linea ufficiale dell'Italia sostenuta dal Ministro degli esteri Dini all'ultima riunione a Londra del "gruppo di contatto". Ad un certo punto, nella Nato, ha avuto più spazio, su pressione degli Usa, la linea di intervento militare anche senza la specifica autorizzazione dell'ONU. 

A questa svolta di indirizzo non si è reagito, da parte dell'Italia e di altri Paesi perplessi sulla scelta, a cominciare dalla Francia, con sufficiente chiarezza. La coincidenza della crisi di governo ci ha fatto attestare su una posizione ambigua come quella della concessione all'uso delle basi Nato, un atto tutto sommato dovuto, con l'annuncio poi ridimensionato del Ministro Andreatta, inutilmente enfatico, di una partecipazione all'intervento con nostri uomini e mezzi prima ancora della decisione parlamentare. Saggio, come sempre, l'invito del presidente Scalfaro a maggiore prudenza. 

Ma, a prescindere da tutto ciò, sarebbe poi stata risolutiva la cosiddetta soluzione bellica? Persino Kissinger, il segretario di stato di Nixon, ha considerato un azzardo il ricorso ai bombardamenti che oltre a servire poco potevano portare a sviluppi incontrollati. Sarebbe stato più funzionale l'invio, in Kosovo, di truppe di terra con il duplice scopo di proteggere gli aiuti ai profughi e di garantire, insieme alle popolazioni, l'attuazione della risoluzione dell'ONU. Questo tipo di intervento, che solo il Consiglio di Sicurezza avrebbe potuto decidere, è stato scartato a priori dalla Nato anche a causa del suo elevato costo. 

Non si è sufficientemente considerato che l'avventuroso calcolo di distruggere, con missili e bombe, una parte consistente dell'apparato militare di Belgrado non poteva escludere, con sicurezza, ritorsioni militari a catena, con ulteriori rischi di guerra generalizzata. E poi l'intera area era investita dal rischio di pagare anche con vittime innocenti il ricorso alle armi. Il solo annuncio dei bombardamenti ha fatto chiudere Ambasciate, allontanare diplomatici e contingenti dell'ONU, lasciando le popolazioni albanesi ancora più sole ed esposte a sofferenze e distruzioni. 

E ancora, non si è tenuto conto, in sede Nato, che Milosevic avrebbe usato la dignità nazionale per trasformarsi in vittima, costringendo tutti i serbi a far quadrato a sé, e a mettere in campo, insieme al rinvio sine die di ogni negoziato, operazioni di ordine pubblico in un Kosovo ancora più abbandonato e disperato. Le conseguenze disastrose non si sarebbero limitate al teatro delle operazioni. La rottura con la Russia, ripetutamente contraria ad interventi militari senza la copertura di una specifica risoluzione dell'ONU, porta alla crisi del Trattato di "partnership per la pace" con la Nato, mette in pericolo l'allargamento ad est dell'alleanza atlantica, rilancia un clima da "guerra fredda" per effetto degli aiuti militari alla Repubblica Jugoslava e del congelamento degli articoli in disarmo. 

Non è il caso di riflettere maggiormente? E' lecito, tenendo conto dei Trattati istitutivi, tendere a trasformare la Nato in una sorta di polizia internazionale, in strumento militare di potenza a prevalente discrezione degli Stati Uniti, in contrasto con la stessa scelta, condivisibile, di farne uno strumento di sicurezza paneuropea? Non si può pensare, in Europa, a forme più autonome e adeguate di iniziativa diplomatica, di dissuasione, di intervento anche militare a disposizione dell'ONU ? 

Il forse scampato pericolo non esime da un esame approfondito che sappia trarre le necessarie conclusioni. La tenacia negoziale di Holbrooke ha salvato tutti da una situazione ad alto rischio. L'impegno al ritiro delle truppe speciali di Belgrado, la presenza sul territorio di una forza multinazionale di duemila osservatori dell'Organizzazione della Sicurezza in Europa, (che oltre a coinvolgere la Russia impegna tutti i paesi membri a rinunciare all'uso e alla minaccia della forza), il vincolo alla cessazione del fuoco di tutte le parti in causa, l'avvio di un impegnativo negoziato per l'autonomia rafforzata del Kosovo, corrispondono alla risoluzione 1198 dell'ONU. Anche la pressione della Nato, depurata dalle compiacenze per i venti di guerra, ha avuto dei meriti in questo sbocco che sarebbe sbagliato bruciare ora, con la insostenibile filosofia della superiorità della trattativa con la pistola puntata alle tempie rispetto al paziente impegno diplomatico. 

Il lavoro di costruzione della pace non è certo esaurito. Anche l'Italia deve fare la sua parte. La lezione di La Pira, ma anche l'ispirazione di fondo della politica estera che ha animato, nel rispetto delle alleanze contratte, l'azione di governo di Fanfani e Moro non va archiviata dal PPI. Anche oggi ci è richiesto qualcosa di più di una pericolosa gara di acritica fedeltà alla Nato, non in discussione, quando la posta in gioco è molto più alta ed esige lungimiranza e determinazione politica. Sotto questo profilo il legame tra intervento della Nato e autorizzazione dell'ONU, difeso con coerenza dal Presidente Prodi, va rivendicato anche per il futuro.

Il Popolo
14 ottobre 1998
Luigi Granelli