“SI, MORO E’ STATO MINACCIATO PER LA POLITICA DELL’APERTURA”

 

«Questo delitto non può essere isolato dalla complessiva strategia della tensione.  Proprio il presidente del partito ci insegnò che l'unica risposta positiva ai tentativi di destabilizzazione andava cercata in un allargamento del consenso. Ora dobbiamo misurarci con la questione comunista»

 

 

ROMA - Se non fosse intervenuto personalmente Moro, i parlamentari democristiani non avrebbero accettato, alla vigilia del 16 marzo, una formula governativa che prevedeva l'appoggio del PCI.  Fu Moro che convinse anche i più riottosi, ed era l'unico che poteva farlo. Per farlo, si mise dalla parte loro, dalla parte degli incerti, riconoscendone legittime le incertezze, le paure, i sospetti e offrendosi come garante del successo e dei limiti dell'operazione.  Alla fine, ottenne il consenso dei gruppi. Ma prima, quando tutto sembrava ancora incerto e si discuteva, a Piazza del Gesù, su chi potesse andare all'assemblea dei gruppi, Moro, rivolgendosi a coloro che si accingevano a prendere la decisione chiese, guardandoli uno per uno: «Ma voi, almeno voi, siete davvero convinti che bisogna andare avanti?». La tragedia che si è consumata da allora fa sì che questa normale riunione con Moro a capotavola e gli altri attorno appaia conte un'Ultima Cena laica; al centro il predestinato al sacrificio chiede il conforto degli apostoli, o tenta invece, guardandoli uno per uno in faccia, di individuare chi lo tradirà? Sono passati cinque mesi dal rapimento di Moro.  Le indagini. nonostante brusche impennate o deviazioni, ristagnano.  La proposta di inchiesta parlamentare ha subito avviato un gioco complesso di consensi, polemiche e sospetti. E i sospetti non risparmiano nessuno. Alcuni consiglieri nazionali hanno fatto propria, nei confronti della segreteria DC, la stessa accusa che è già stata rivolta da Craxi, da alcuni ambienti cattolici e dalla famiglia: Zaccagnini e i suoi non avrebbero fatto tutto il possibile per salvare Moro. Dunque, per tornare all'immagine evangelica dell'Ultima Cena c'era tra loro qualcuno che tradiva?

 

Per chiarire meglio come nella DC sono state prese quelle decisioni. come sono stati vissuti quei tragici 55 giorni, quali siano le conseguenze della sparizione di Moro nella vita politica italiana, abbiamo rivolto una serie di domande a Luigi Granelli, della direzione della DC, l'uomo alle cui «intelligenti sottigliezze» Moro, fa appello nella sua lettera del 23 aprile (così come alle «robuste argomentazioni di Misasi») perché prevalga nella DC la linea della trattativa e dello scambio.

 

In quella stessa lettera Moro accusa la DC di rifiutare la linea dello scambio non per scelta autonoma, ma sotto la pressione incalzante della  «forza comunista entrata in campo».

 

«Non siamo mai stati succubi dei comunisti; voglio dire che non c'è stata né una loro pressione in questo senso né un nostro complesso d'inferiorità rispetto a una loro più rigorosa concezione dello Stato. La linea della fermezza, com'è stata definita, l'abbiamo scelta insieme tutti, all'unanimità. Certo, ci sono stati dubbi e sofferenza, tremori e crisi nel sentirsi chiamare in causa direttamente, uno per uno. Ma sulla linea di fondo tutto il gruppo dirigente è stato compatto.  Le decisioni di fondo le abbiamo prese all’unanimità, compresa quella di non convocare il Consiglio Nazionale».

 

E in periferia?

 

«Se si eccettua la reazione spiegabilissima della DC di Bari e delle Puglie, in periferia si è reagito nello stesso modo, con qualche accentuazione di carattere moralistico in più».

 

E al centro, a Piazza del Gesù qual è stata la motivazione centrale dei rifiuto alla trattativa?

 

«Già magistrati, poliziotti giornalisti erano caduti sulla trincea della lotta all'eversione. Una classe politica degna di questo nome non poteva scegliere per se stessa un metro di giudizio e di comportamento diversi.  Ma c'è anche altro.  Fin dall'inizio siamo stati convinti di dover fronteggiare non soltanto un caso umano per quanto drammatico, ma un caso politico, un tentativo cioè di destabilizzazione di grande portata.  La nostra risposta a questo punto era decisiva: si trattava di provare se la DC fosse o no in grado di difendere fino in fondo i principi della convivenza civile contro un ennesimo tentativo eversivo».

 

Un unico disegno da Piazza Fontana

 

Perché parla di un ennesimo tentativo?  Con Moro è la prima volta che  nel nostro paese viene effettuato un rapimento politico.

 

«Ma il delitto Moro non può essere isolato dalla complessiva strategia della tensione.  Non è questo il primo mistero della nostra vita politica. Certo, da Piazza Fontana in poi, gli strumenti operativi di questa strategia, appaiono diversi, ma come escludere un collegamento, un unico disegno?  E' vero anche che questi episodi non raggiungono il loro obiettivo: dal punto di vista politico infatti si continua ad andare avanti. Si giunge allora a colpire proprio l'artefice di questo "andare avanti", il protagonista di questo processo. Io non so se faremo la commissione parlamentare d'inchiesta; comunque penso che uno strumento parlamentare può essere utile non per fare concorrenza alla magistratura ma proprio per capire i nessi politici del fenomeno, per rimettere insomma sul tappeto questi anni lunghi della strategia della tensione.  Non era la prima volta del resto che Moro si sentiva in pericolo...».

 

Nel senso che aveva avuto delle minacce?  Da chi?

 

«Subì certamente pressioni e minacce nell'epoca che precedette e accompagnò l'apertura a sinistra. E' vero che in quegli anni molti uomini politici vennero costretti in alcune occasioni, a dormire fuori casa, per prudenza.  Ma proprio Moro ci insegnò allora che l'unica risposta positiva ai tentativi di destabilizzazione, andava cercata e trovata in un allargamento del consenso.  Insomma non ci si salva fermandosi o tornando indietro, ma andando avanti».

 

E più recentemente, le risulta che Moro avesse subito minacce?

 

«Certamente si esercitarono su lui pressioni perché abbandonasse la politica, ma non saprei dirle nulla di più preciso».

 

Quali erano i rapporti di Moro con gli americani?

 

«Gli americani?  Il termine è troppo generico per consentire una risposta.  Si sa che con Kissinger non si capiva molto, e non c'è da stupirsene visto lo schematismo dell'uno e le sottigliezze dell'altro.  Ricordo uno sgradevole brindisi di Kissinger, a Roma, alla fine di un pranzo e di un lunghissimo colloquio ufficiale con Moro.  Abbiamo parlato a lungo della situazione dell'Italia, disse Kissinger, fino al 1947 ho capito bene tutto; poi non ha capito più niente.  Moro era molte seccato».

 

Le risulta che Gardner in una conferenza In America abbia definito Moro come l'uomo più ambiguo e pericoloso d'Italia?

 

 «L'ho letto. Non mi risulta. Quello che mi risulta invece è che Moro ebbe sempre un alto senso della realtà, e quindi dell'importanza, della necessità che gli Usa capissero il processo che stava svolgendo in Italia: detestava sia coloro che corrono in Usa quasi per mettersi al servizio della politica americana, sia agli antiamericani rozzi che sottovalutano il quadro corretto delle relazioni internazionali.  Poco prima del 16 marzo parlai a lungo con lui, esaminammo insieme la possibilità si un suo viaggio in America, proprio per consentirgli di spiegare realisticamente la situazione italiana al massimo livello.  Non si possono rendere semplici le situazioni complesse, bisogna capirle e farle capire, ripeteva.  Aveva ben chiara la necessità del collegamento con gli Usa, sapeva che le loro obiezioni andavano prese in considerazione, senza sottovalutarle.  Ma insieme aveva una straordinaria dignità nazionale.  Anche questo ci mancherà ».

 

Si ha l'impressione che pur condividendo la linea della fermezza, lei pensi che non sia stato fatto tutto il possibile per salvarlo.

 

«Tutto?  L'interrogativo è sempre inquietante. Credo di poter dire che abbiamo tentato. Noi volevamo parlare con chi aveva in mano la vita di Moro, e abbiamo tentato di farlo attraverso il canale autorevole neutro della Charitas.  Ci siamo scontrati con il fatto che le BR non volevano il colloquio con noi, ma direttamente con lo Stato.  E questo non era possibile.  Dei resto anche coloro, come i socialisti, che hanno nei nostri confronti una posizione polemica, non hanno mai chiarito in concreto né allora né oggi cosa si potesse fare di meglio o di diverso.  E non è nemmeno chiaro perché e come Craxi decide di prendere questa posizione: ricordiamoci che per un mese, dal 16 marzo a metà aprile, Craxi e i socialisti non manifestano nessun dubbio sulla linea concordemente scelta.  Poi, all'improvviso, c'è un cambiamento. Perché?  Dovuto a cosa?».

 

Raggiunto lo scopo delle Brigate Rosse

 

Ben poche sono le cose chiare in questa vicenda. Non si spiega ad esempio perché Moro venga ucciso proprio quando si sta aprendo, tra le forze politiche, un processo di differenziazione che potrebbe addirittura precipitare in crisi.

 

«Ma il processo di differenziazione e vera e propria divaricazione tra le forze politiche poteva anche aggravarsi nel momento in cui il cadavere veniva restituito in quel modo, praticamente di fronte a Piazza del Gesù.  E poi, non so se le BR ragionino secondo queste coordinate. Il loro ragionamento può essere più complesso ma anche più semplice. Resta il fatto che hanno raggiunto il loro scopo, anche pagando questo delitto in termini di isolamento politico. Ma hanno colpito giusto. Il vuoto lasciato è grande: lo prova persino la fiacchezza, lo scarso spessore culturale delle reazioni all’intervista di Berlinguer. Io non sono certo che senza Moro possa accadere tutto ciò che era possibile con lui».

 

E' una dichiarazione di sfiducia in Zaccagnini?

 

«No, Zaccagnini ha dimostrato, sia nel corso di quei 55 giorni sia nel corso della vicenda che ha portato Pertini alla presidenza della Repubblica, di sapere essere il continuatore di Moro. Io ho fiducia in Zaccagnini.  Meno in tutti coloro che oggi si proclamano morotei, e che nel 1971 preferirono mandare Leone anziché lui al Quirinale».

 

Se capisco bene, nella DC tutti sono ormai orfani di Moro. Ma tra questi, secondo lei, alcuni avrebbero diritto di definirsi più orfani degli altri?

 

«Se mi mette tra questi sbaglia. Proprio perché abbiamo sempre sostenuto Moro, non possiamo esserne gli orfani nel senso che ci sentiamo impegnati non a un ipocrita omaggio, ma a portarne avanti la battaglia ideale e politica.  E qui entriamo nel vivo delle questioni di oggi.  Moro non ha mai pensato alla politica dell'emergenza come a una sorta di tregua, superata la quale si potesse tornare ai giochi di ieri. Questa è un'idea di Bisaglia, non di Moro. L'attenzione di Moro al PCI è un fatto assai più complesso, che precede il maturarsi delle condizioni parlamentari che renderanno indispensabile un accordo. Moro insomma non ha guardato al PCI come a una semplice per quanto importante pedina di un gioco parlamentare, ma come a una forza storica importante, rappresentativa di valori di volontà di cambiamento e di errori anche. con la quale bisognava fare i conti».

 

Ma forse è per questo che qualcuno vi accusa di voler stabilire un rapporto preferenziale con il PCI.

 

«Ma anche nella fase dell'apertura a sinistra l'operazione politica non venne vista da Moro soltanto in termini di gioco parlamentare.  Non è colpa nostra se il PSI non ha potuto assumere la rappresentatività complessiva della sinistra e delle forze sociali che nella sinistra si riconoscono.  Il nodo, il problema vero di quella che Moro aveva chiamata la «terza fase» della nostra vita politica, sta proprio nel rapporto tra la classe operaia e lo Stato. Ed è su questo problema che anche noi democristiani dobbiamo riprendere la riflessione e il confronto anche in sede precongressuale senza far scendere in lizza inutili paleocorrenti. In altri termini, dobbiamo misurarci con la questione comunista, senza precipitazioni ma anche senza rinvii o chiusure.  Questa mi sembra l’eredità pesante di Moro. Ce la sentiamo di affrontarla?  Se non ci ponessimo il problema a quest'altezza, avrebbero davvero vinto le BR.  Moro è stato colpito proprio perché era l'uomo che i problemi a quest'altezza se li poneva».


la Repubblica
17 agosto 1978
intervista di Miriam Mafai