Per commemorare Granelli, non si può che partire da Sturzo. Granelli sapeva che il giovane Sturzo pensava per sé, ad una professione di insegnante di filosofia, sapeva che Sturzo incontra la politica quando, nel 1902, studente a Roma, viene chiamato a benedire alcune case della periferia e incontra tanta miseria che, scrive Sturzo, rimase a letto per una settimana e da lì nacque il suo impegno, il suo dovere politico.
Per Luigi su questo aspetto non potevano esserci transazioni: o la politica era capace di guardare gli interessi dei deboli e non di consolarli un po’, ma di riscattarli a una pienezza della libertà, oppure la politica non contava.
E questa è la ragione per la quale è stato raro, formidabile pensatore, attore, cultore della politica internazionale. Era forse l’aspetto del suo impegno che di più lo affascinava; spesso lo ho avvertito ascoltandolo; lo ho avvertito, mi ricordo, in un viaggio che facemmo con una delegazione della Commissione esteri del Senato a Madrid; eravamo nei tempi della transizione spagnola (Suarez era presidente del Consiglio). Si stava faticosamente cercando di ricomporre un che di cattolicesimo politico; sarebbero poi venuti gli anni del socialismo di Gonzales.
In una giornata molto gremita, che Luigi aumentava di fatica, almeno per me, e che significa incontri ufficiali, mi portava in strane situazioni, in strani ambienti dove incontravamo personaggi spesso solitari che avevano patito l’esilio in patria durante il franchismo e basterebbe dire di quello che lui fece durante la dittatura cilena, per gli esiliati cileni in Italia: aveva questa straordinaria attitudine, ripeto, a capire che la solidarietà nella complessità, nella lunghezza del mondo, si reggeva anche sulla capacità, questa lunghezza, di inseguirla fino in fondo ed era, come dire, un pensatore, uno scrittore della politica. I primi rapporti, quelli più impegnati per me, sono stati la sua caparbia costrizione a scrivere di politica; in anni lontani sono Prospettive e Stato Democratico e se leggeste, su quelle pagine si vedrebbe che cosa è stata appunto per qualcuno la costruzione lenta e difficile dell’ipotesi di un centro-sinistra e credo, negli anni dal ’72 al ’74, è stata la rivista “Il domani d’Italia”, che lui volle per contrastare una deriva che vedeva incipiente, che un poco deragliava rispetto a quelle che erano le linee portanti dal suo punto di vista per la sorte della Democrazia Cristiana. Ed aveva non per caso evocato il titolo del giornale di Francesco Luigi Ferrari che è la figura che più spesso ritorna nella memoria di Luigi, come l’autentico paragone sul quale voleva misurarsi. Io dico, non per caso,perché guardava ad una storia drammatica, difficile, conclusivamente tragica come quella di Francesco Luigi Ferrari. Non si paragonava sulle cose mediocri, guardava modelli alti, ed era convinto che solo così non si tradiva, solo così, nel limite che riguarda ciascuno di noi, si era fedeli a quella grande ragione che ci aveva insieme evocato l’impegno e il coinvolgimento nella politica.
Vorrei dire ora, conclusivamente, ma non lo farò, di altre cose che credo debbano rimanere nella memoria privata di ciascuno che penso per esempio, a come lui parlava della sua famiglia, di Adriana, del figlio, la nipotina; ripenso a come lavorava in politica, al suo lavoro politico; io l’ho visto, Luigi, per esempio da ministro, nel Consiglio dei Ministri che sono spesso luoghi in cui i ministri arrivano, bofonchiano, balbettano qualcosa di un disegno di legge sul quale, di un fascicolo sul quale mettono la mano e finisce lì. Luigi arrivava in Consiglio dei ministri non solo preparato ed esauriente sulle questioni che riguardavano il suo ruolo, e parlo di Luigi ministro della Ricerca scientifica, ma quando si accendevano grandi dibattiti, o di politica estera, o intorno al Concordato, o intorno ad altre situazioni che impegnavano appunto la linea politica complessiva del Consiglio dei Ministri - pure in una condizione nella quale non c’è molto luogo e tempo per l’eloquenza politica - Luigi imponeva l’ascolto, non voleva che fossimo frettolosi su alcune questioni, voleva che ciascuno dicesse la sua opinione, che insieme formassimo la scelta di una decisione motivata e consapevole e Luigi, credo, abbia sempre fatto così, anche nelle cose apparentemente piccole si preparava, si informava. Credo che fosse un po’ il suo stigma lombardo, l’idea che forse facciamo fatica a ritrovare oggi, in una sorta di decadenza di un lavoro ben fatto, che dia la soddisfazione nell’orgoglio che dà … assumere il proprio dovere, che dà il conoscere. Non era curiosità futile quella di Luigi, ma era una curiosità alta, voleva sapere, si informava, voleva conoscere. E questo lo faceva così adatto al colloquio ed era una persona buona, buona con gli amici, credo con gli avversari – non l’ho mai sentito una volta, Luigi, dire cose che apparissero appena fuori misura anche sugli avversari, dentro e fuori la Democrazia Cristiana -.
Ed era umile, non modesto; lo ricordo quando negli anni, appunto, dal ’92 al ’94, quando il vento soffiava così impetuosamente contro di noi – non ha smesso di farlo, per la verità -, quando era difficile trovare un varco, immaginare quale fosse la direzione che ci consentisse non tanto la sopravvivenza purché sia, ma la prova, un futuro, la sua partecipazione era intensa, continua anche nel contrasto; ad esempio io ricordo bene e credo, per come sono andate le cose, per come un simbolo che è stato grande, sia stato vinto davanti a un tribunale, per esempio, Luigi era restio ad accettare il cambiamento di denominazione del partito della Democrazia Cristiana.
E soprattutto voleva difendere quel simbolo, e tuttavia, pur rimanendo fermo sulle sue posizioni critiche, mai una volta questo lui l’ha assunto alla motivazione di un diniego, di un ritrarsi, di un non dare una mano generosa; lo ricordo a Monza a ricostruire un partito disperso, frantumato, paziente; andai a trovarlo in una di queste riunioni; aveva la capacità di ascoltare tutti, aveva la capacità di dare risposte. Diede dignità lì e poi a Milano e poi dappertutto ove andasse, non si arrese mai, tanto meno disertò mai. Certo acuendo il sentimento della difficoltà, ponendosi sempre di più e sempre più drammaticamente le domande decisive, le domande esistenziali per noi. E nell’ultima fase, certo, fu di più il suo dire di no, si accentuò il disagio di fronte ad una condizione che avvertiva in ogni modo precaria, priva di grandezza, incapace del coraggio, delle decisioni e anche delle indecisioni che ti oppongono al conformismo.
In queste pagine vi è questa stagione, la stagione della critica e la stagione oserei dire però sempre della memoria, il problema era di capire la direzione, ecco; avevamo letto assieme un dialoghetto di Chirchedor, del viandante che chiede al contadino: “vado bene per Londra?” e il contadino che risponde “sì se si volta perché lei sta venendo da Londra”. Era l’idea, appunto, che nella transizione non c’era prova se non si ha l’orientamento, una bussola e Luigi non smise mai di credere che questa bussola non ce l’avrebbero inventata gli intellettuali, non ce l’avrebbero regalata i politicanti; ce l’avrebbero detta tutte le volte che potesse accadere che donne e uomini che si trovavano insieme si sentissero popolo; l’idea contingente non si espone dall’alto, ma si legge dal di dentro interpretando una vocazione, un’attitudine, una originale cifra che ci riguarda. E nacquero lì, via via anche queste lettere, non credo che ci eravamo mai scritti prima, ci vedevamo spesso, parlavamo anche in occasioni le più diverse, perché poi Luigi, lo dicevo prima, era curioso di tante cose; Luigi era una persona colta, gli piacevano le mostre, gli piaceva leggere, gli piaceva parlare di queste cose, si arricchiva così e arricchiva così il senso della sua azione, della sua riflessione politica e mi scrisse, da ultimo, una lettera che conservo naturalmente, accentuatamente, appassionatamente critica. Mi rimproverava di aizzare, diceva lui con amicizia “col tuo carisma mal riposto” di aizzare una sorta di frantumazione di quello che rimaneva del partito. L’idea che andavamo agitando era che nella crisi del partito nazionale occorreva ritrovare le radici nelle periferie, piuttosto che al centro; era, lo dicevamo certo con un poco di sussiego, di presunzione, l’idea di un partito federato. A Luigi questo appariva, invece, come una ferita mortale a quella vocazione di partito nazionale che lui giustamente aveva sempre riconosciuto alla democrazia cristiana. E tuttavia, per dire come fossero complicate le cose, e come da parte di Luigi nulla fosse agito sulla base di un pregiudizio riduttivo, era lo stesso Luigi che rimproverava me e poi andava a Roma, ai Consigli nazionali e rimproverava i romani di non fare il partito nazionale che lui voleva. Era certamente spesso la riduzione ad una inevitabile non cercata solitudine.
Non so se la mia lettura è fino in fondo motivata o fondata, in un crescere quasi di concitazioni, mi sembrerebbe ora di vedere anche aleggiare lì la percezione di un tramonto, di un commiato, non lo so; mi sembrava che ci fosse una accelerazione anche del tema polemico, anche della difficoltà di accettare con rassegnazione una stagione, che vedeva in ogni modo una stagione ostile.
Del resto, quando ha riflettuto – mi diceva Mariolino Mauri – che quando poi gli risposi, non lo facevo mai, perché Luigi poteva dirmi tutto quello che gli passava per la testa perché era giusto così, questo era il rapporto come io lo sentivo. Il disagio, una volta, nel dirgli “Luigi, mettiamoci d’accordo sulla regola, con gli amici non si polemizza, si litiga e basta” e accadeva, ma poi so che, mi raccontava Mariolino, che quando poi gli risposi con la mia scrittura quasi incomprensibile una lunga lettera, che a quel punto mi sembrava giusto non ritorcere alcunché, ma chiarire una serie di punti, so da Mariolino che Luigi perse un bel po’ di tempo, fece tanta fatica per poterla decifrare e mi rispose poi con l’ultima lettera che ho ricevuto, nella quale mi diceva che sì, alcuni chiarimenti c’erano stati e alcune ragioni c’erano anche dalla mia parte, che ne avremmo parlato, che bisognava continuare a combattere, che mi avrebbe dato una mano nell’avventura regionale, peraltro concludendo la sua breve lettera, questa volta, come altre precedenti, sempre con questa affermazione che, detta da lui, ancora una volta oggi mi appare come l’indizio di un qualcosa che percepivo; finiva sempre le ultime lettere dicendo “ma non c’è solo la politica” che detto da Luigi voleva dire un qualcosa che andava oltre il testo delle parole. Aggiungeva in queste ultime lettere, che sono libri, la preghiera. Nell'immediato, questo che vi ho letto è scritto nelle belle pagine che Luigi inserisce al termine di questo libro, una sorta di post-fazione che oggi possiamo leggere anche come un commiato.
1° l’idea che non c’è politica senza intelligenza politica. Rievoca Moro, il Moro giovane che scrive “non c’è azione politica senza pensiero politico” che è, se badate bene, un’affermazione straordinariamente anticonformistica in un tempo nel quale si pretenderebbe di far credere che la politica altro non sia che un’azione in qualche modo efficace per chi è efficace, non importa. Ma per Luigi importava, importava che l’azione politica fosse efficace appunto guardando non neutralmente gli interessi di parole, scegliendo.
Certo poi era importante che la politica, le istituzione della politica fossero capaci, il loro pensiero, la loro scelta politica di gestirle secondo un principio di imparzialità. Luigi era tutto tranne che un ingegnere costituzionale, ma se leggete, e io spero che troverete il modo di farle conoscere perché è immensa, credo, la mole di lavoro ed il lascito di Luigi, se leggete le brevi note che lui licenziava a commento dei lavori della bicamerale vedrete che trovate un talento ancora una volta straordinario nel tradurre nei termini della sintassi giuridica ed istituzionale i grandi temi politici, che erano quelli che più in generale assumeva come fonte della sua riflessione.
Non bisognava guardare neutralmente, bisogna partire dall’esigenza di rendere meno dispari la condizione della vita di ciascuno e quindi della libertà di ciascuno. In questi giorni un intellettuale, che non è un cinico, che però crede nel leggere senza ritorni, senza restringimenti la lezione della storia, mi ha spiegato che la storia ci insegna che, insomma, il compito del povero altro non è che arricchire i ricchi. Non so se Luigi la pensava così, certamente non la pensava così, ma almeno una cosa ha sempre cercato di fare: ammesso che questa sia la regola, quello che conviene a chi crede che un po’ la politica abbia a che fare con la vita, è almeno di consentire ai poveri la libertà di scegliere in che modo arricchire i ricchi. E c’è però, non per caso, il prof. Tronti; il suo tramonto della politica è questo timore appunto di una politica che si perde all’orizzonte. Vede il tempo della tecnica, vede il potere della tecnica, dell’economia, ma si domanda in che modo la politica troverà le forme, gli strumenti per governarli questi processi e questa potenza. Viene in mente Romano Guardini, che probabilmente Luigi conosceva, che scriveva alla fine degli anni ’50 con uno straordinario sguardo profetico “il compito dell’Europa, se avrà un compito, non sarà quello di accrescere le potenze della tecnica e dell’economia, benché – dice Guardini – farà naturalmente anche questo, ma il suo compito sarà di chiedersi come domarla, come governarla questa potenza – ed aggiunge – (avrà potuto scriverlo Luigi) l’Europa che ha inventato la libertà dell’uomo e della sua opera dovrà diventare una forza di servizio per garantire la libertà dell’uomo dalla sua opera”.
Vi ho detto con emozione, con commozione, alcune cose di Luigi, che certamente non sono soltanto quelle che ho percepito io, perché il vantaggio, la grazia di Luigi è stata anche quella di parlare con tante persone, non sottrarsi mai al dialogo, e quindi ha insegnato tanto a tanti di noi.
Adesso non c’è più, ma io credo che la traccia di un uomo vero, come Luigi è stato, si prolunga in un’eco, in risonanza, in una parola, come il suono di una parola detta sinceramente. Ci toccherà, credo, questo dono che ancora Luigi può fare, di ascoltarla quella parola, di ripeterla
Mino Martinazzoli
Centro Congressi CARIPLO
febbraio 2001