“Caro Granelli, pensaci un po’ su…”

Ecco il testo della “lettera aperta” che i sei magistrati accusati da Vitalone hanno inviato al senatore DC Granelli (tra i firmatari dell’interpellanza redatta dallo stesso Vitalone).

Senatore, quando abbiamo appreso che un personaggio a noi assai noto aveva assunto l’iniziativi di attribuirci “precisi collegamenti con appartenenti a organizzazioni eversive, finalizzate alla strumentalizzazione per scopi delittuosi della funzione giudiziaria”, non ci siamo stupiti. Era ovvio che il personaggio in questione passando al Senato portasse con sé gli stessi metodi usati negli uffici giudiziari. Nascendo, con questa paternità, l’iniziativa sembrava muoversi nell’ottica tipica del personaggio, ben nota negli ambiti giudiziari romani. Senonché la prospettiva ci è parsa mutare e spostarsi sul piano politico quando abbiamo appreso che l’interpellanza portava anche la Sua firma. Lei appartiene ad un partito a noi distante per gli interessi che rappresenta, per l’assetto sociale che difende, per il modo in cui gestisce il potere, per la sua trentennale politica legislativa in materia giudiziaria.

Riteniamo tuttavia che al suo interno si possa distinguere tra chi opera esclusivamente per le Sue fortune personali e chi porta avanti una battaglia politica in coerenza con le proprie idee. Perciò la Sua firma ci ha meravigliati e inquietati; né la presa di distanza che ci è parsa trasparire dalle sue successive dichiarazioni può bastare ad eliminare ogni inquietudine; a neutralizzare il significato politico che la Sua firma conferisce all’iniziativa non basta dire che “se è una provocazione si sgonfierà”. Mentre si sgonfia, il calunnioso messaggio sedimenta nell’opinione pubblica e produce tutti i suoi danni, non solo sulle nostre persone.

L’iniziativa cui lei si è associato provoca guasti al tessuto istituzionale – i cui basilari fondamenti costituzionali crediamo siano a cuore a Lei non meno che a noi – coinvolgendo al di là delle nostre persone l’intera istituzione giudiziaria, accusata di averci assicurato l’impunità per “complicità, connivenza o inettitudine”. Tutto ciò sulla base di un “documento” che, apparso in fotocopia sulla stampa, si è rivelato in buona sostanza una annotazione di nomi e numeri telefonici.

Sollevare polveroni, accomunare in un’unica responsabilità posizioni che hanno una storia e una ispirazione ideale fortemente divaricate, accreditare al terrorismo un radicamento sociale ed addirittura istituzionale, che per fortuna non ha, è sicuramente coerente ad una impostazione politica che attraverso un uso strumentale del terrorismo e, quindi, in oggettiva convergenza di obbiettivi con esso, tenta di imporre al nostro paese una svolta antidemocratica. La cultura del sospetto di cui questa impostazione politica si nutre, comporta la stessa degradazione della persona umana sottesa agli atti terroristici.

Noi riteniamo invece che si possa, che si debba uscire dalla acuta crisi che attraversa il paese salvando il quadro democratico. Riteniamo cioè che il terrorismo si possa e si debba battere senza leggi speciali, contrastanti con la Costituzione, senza sacrificare la garanzia giurisdizionale all’arbitrio di polizia, senza la indiscriminata criminalizzazione di un intero periodo storico.

In coerenza a questi principi abbiamo praticato e intendiamo continuare a praticare il nostro attivo impegno alla luce del sole. Siamo schierati dalla parte esattamente opposta a quella a cui è legata il nostro accusatore. Perciò i nostri nomi non sono finiti nel taccuino dei grandi manager, dell’edilizia o degli uomini politici di governo.

Rivendichiamo la legittimità del nostro operato e pretendiamo di non essere accusati, per questo, di complicità con il terrorismo; dal quale siamo tanto distanti da esserne, qualcuno di noi, minacciati in prima persona. Certo si può non concordare con la nostra ispirazione ideale e con la nostra pratica politica, ma nonostante l’acutezza della crisi, riteniamo che un confronto democratico fra contrapposte concezioni politiche sia ancora possibile; a patto che si rispettino le condizioni minime di convivenza civile. Il terrorismo non rispetta queste condizioni; ma non le rispetta neppure il tipo di iniziativa cui Lei, non sappiamo quanto consapevolmente, ha prestato il suo consenso.

la Repubblica
Giovedì 17 gennaio 1980