Sessanta anni. Lo spazio di tre generazioni. Un tempo sufficientemente lungo per dimenticare ma anche per entrare nella Storia. E’ il destino di Giancarlo Puecher, un nome simbolo della reclamata liberta e dell’impegno per il rinnovamento civile a quanti hanno vissuto anni e orrori nella seconda guerra mondiale. Puecher è la prima medaglia d’oro della Resistenza, ucciso ad Erba, in una notte natalizia del 1943, a soli vent’ anni, colpevole di essere partigiano. Sangue di italiano versato da italiani travolti da una scelta tragica. Stare da una parte oppure dall’altra. Ma chi poteva rischiare in quei giorni sulla giusta decisione? Il giovane Giancarlo non aveva avuto dubbi. La Patria autentica era rappresentata dall’Italia delle legittime istituzioni, dinastiche e militari; non poteva identificarsi in un nuovo Stato che privilegiava un’alleanza estranea alla volontà popolare. Non poteva lasciarsi travolgere dalla ignavia della maggioranza: la purezza dei sentimenti, forgiati dall’educazione familiare e dalla formazione religiosa, escludeva dal suo animo qualsiasi forma di vigliaccheria, indifferenza o attendismo. In una pagina del suo diario e rintracciabile questo brano: "Ricordati che la vita non e una gioia né un dolore. E un dovere da compiere". E in una lettera cosi si esprimeva: "Noi sapremo anche ricostruire le cose libere da tutte quelle contraddizioni e da tutte quelle imposizioni che ci sono state imposte da un ventennio tirannico". Due frasi lapidarie che caratterizzano una coscienza di alta finezza etica.
Cristiano e partigiano, pur in età verde e privo di supporto politico, il Puecher aveva saputo fare una scelta di fondo senza ombra di dubbi o di tentennamenti. Scelta peraltro difficile per un adolescente che aveva sempre vissuto nella tranquillità di una famiglia borghese e benestante, che subiva, senza aderirvi, il regime del tempo e quando le sorti della guerra erano chiaramente compromesse criticava in silenzio l’avventura mussoliniana. Una situazione molto diffusa in Italia. Il padre Giorgio - finito poi nel campo di concentramento di Fossoli e quindi inviato a Mauthausen dove si spense alla vigilia della liberazione - era presidente dell’ordine dei notai e lui stesso professionista di consolidata fama, ligio al dovere e rispettoso delle istituzioni. A scuola Giancarlo studiava con serietà, in famiglia si comportava da bravo tiglio, con gli amici si divertiva e andava in vacanza. Raramente parlava di politica: l’osservanza dei doveri era pratica normale e coerente, l’idea di Patria conteneva il massimo dei suoi pensieri. Una esistenza normale, quindi, almeno fino all’8 settembre 1943 - l’armistizio con gli Angloamericani - allorché la situazione doveva cambiare radicalmente in seguito al trapasso delle alleanze: i tedeschi da cobelligeranti diventavano nemici. E ogni giovane si trovava davanti a un bivio. Giancarlo sapeva intuire la strada giusta e si faceva capo di un raggruppamento di patrioti.
Niente, se non la propria coscienza, gli imponeva di rischiare il proprio futuro entrando nell’area partigiana e diventando clandestino. All’inizio la scelta faceva parte quasi di un gioco dettato dal suo noto spirito sportivo, poi le responsabilità andavano moltiplicandosi: selezionare e formare i quadri dei compagni di avventura, aiutare i prigionieri alleati in fuga, studiare e attuare piccole azioni di sabotaggio. Il suo programma era ben definito secondo categorici obiettivi. Mai spargere sangue innocente, mai ricorrere a gratuite violenze. Una linea cavalleresca ribadita, per esempio, nella prima azione partigiana: l’esproprio di alcuni bidoni di benzina custoditi in un albergo frequentato da fascisti, un episodio circoscritto ma destinato a rappresentare il più forte motivo dell’accusa nel processo-farsa precedente la fucilazione.
Per inquadrare bene l’intera vicenda del nostro patriota occorre risalire al momento del suo arresto. La svolta avveniva il l2 novembre, poco più di due mesi dopo la decisione di scendere in campo da partigiano. In quella brumosa e fredda serata due giovani scendevano in bicicletta da Canzo a Erba, tra strade deserte nella silenziosa campagna. Erano diretti verso la città brianzola con l’intento di compiervi un attentato dimostrativo, una bomba di lieve potenza da collocare sotto l’abitazione del Podestà: la deflagrazione avrebbe svegliato la gente che avrebbe trovato nelle zone circostanti manifestini invitanti a scuotersi dall’oppressione nazifascista. Un piano semplice, in apparenza facile, quasi infantile. Muoversi durante le ore buie, tuttavia, era alquanto pericoloso in particolare dopo un fatto di sangue. Nel pomeriggio infatti mani ignote avevano eliminato due esponenti del fascio locale ed i repubblichini avevano intensificato rastrellamenti e posti di blocco. Ma i due non lo sapevano, essendosi trattenuti fuori paese per l’intera giornata. Cosi Giancarlo e l’amico Franco Fucci - 23 anni, ufficiale degli alpini alla macchia per non servire l’esercito di Salo - incappavano nella rete. Una pattuglia di militi fascisti li bloccava davanti alle prime case del paese.
Costretti a smontare dalla bici, Fucci tentava una reazione spianando la pistola, ma l’arma gli si inceppava; non sbagliava invece il colpo uno dei brigatisti e lo feriva gravemente all’addome; trasportato in ospedale riuscirà a guarire, quindi passava in carcere un anno e mezzo senza subire guai peggiori. Al contrario, Giancarlo Puecher veniva condotto in caserma e affidato ai carabinieri di Como: durante i suoi quaranta giorni di detenzione gli si presentavano diverse occasioni per fuggire, non essendo considerato pericoloso, ma per un senso di correttezza nei confronti dei suoi custodi e del padre Giorgio, a sua volta arrestato, preferiva evitare ritorsioni su altri. Con tutta probabilità l’avrebbero liberato a breve distanza di tempo, ma un altro omicidio politico sconvolgeva il territorio di Erba: l’assassinio di un noto squadrista locale, la guardia comunale Germano Frigerio detto "Bécall", che stava recandosi a Milano per partecipare ai funerali del federale Aldo Resega ucciso il 18 dicembre in via Bronzetti da tre gappisti, riusciti poi a far perdere ogni traccia. La rabbia montava. L’ordine delle autorità fasciste era immediato e categorico: Rappresaglia! Prelevati cinque detenuti politici, tra cui appunto il Puecher, si organizzava su due piedi un processo con la finalità di dare una punizione "esemplare". Fucilazione per tutti. In sostanza era una messinscena giudiziaria nella quale si miscelavano accuse false, clamorose irregolarità procedurali, contraddizioni lampanti. I difensori di ufficio tentavano l’impossibile per ammorbidire i preconcetti della corte militare riuscendo a ridurre il numero delle esecuzioni, da cinque a quattro, poi a tre, due, e infine una. Un capro espiatorio doveva pure esserci, e veniva scelto proprio il più giovane. Giancarlo Puecher. Gli accordavano appena il tempo di stendere sulla carta qualche riflessione, ottenere l’assistenza spirituale di un cappellano e di comunicarsi.
Nella celeberrima lettera-testamento scritta frettolosamente a sentenza deliberata, Giancarlo mostrava una eccezionale forza d’animo. Perdonava tutti dichiarandosi innocente per le accuse subite e colpevole soltanto per aver “amato intensamente la patria e la liberta”. Non dava segni di panico e affrontava con estrema dignità gli ultimi momenti. Prima di lasciarsi condurre davanti al muro di cinta del nuovo cimitero di Erba per la fucilazione, egli chiedeva di stringere la mano ai soldati del plotone assicurando che avrebbe pregato anche per loro che si facevano strumento di morte. In quella gelida notte dicembrina riusciva a gridare il suo "viva l’Italia" prima di cadere travolto dalla raffica.
Resta perenne il ricordo di questo giovanissimo martire. "Ma e davvero servita a qualcosa il suo sacrificio‘?", si chiedeva una stretta parente di Giancarlo. No, il suo sacrificio non è state inutile. Anzitutto un’intera generazione di patrioti si è legata al suo nome traendone ispirazione per molti gruppi combattenti di diversa e a volte opposta ispirazione politica. E va segnalato che, apprendendo le circostanze della dolorosa morte di Giancarlo, un’altra grande figura della Resistenza - Teresio Olivelli, mitico comandante partigiano candidato alla beatificazione - ne traeva spunto per comporre quella magnifica testimonianza di non violenza che è costituita dalla preghiera dei "ribelli per amore". In seguito, per onorarne la memoria, si sono sviluppate tante altre iniziative sociali e culturali. A sua volta, scrivendo di Giancarlo, Davide Maria Turoldo ne valorizzava la condizione da uomo di fede: “C’e sempre qualcuno da liberare, c’e sempre da donare, c’e sempre la vita che va giocata per l’umanità e per la venuta del Regno”.
Il sacrificio di Puecher costituisce davvero qualcosa di sublime. La storica
fondatrice dell’istituto nazionale del movimento di liberazione “Bianca Ceva”
laica convinta lo definiva con appassionata
ammirazione e con efficace sintesi: uomo di raffinata civiltà. Non a caso
persino il capo storico dell’antifascismo e primo presidente dell’Italia
liberata, l’azionista Ferruccio Parri, annotava che la
scomparsa di giovani forti e capaci della sua tempra avevano private l’Italia
del dopoguerra di una potenziale classe dirigente di altissime livello.
Ecco l’intimo valere di una Resistenza vissuta con il supporto delle spirito. Sotto il profilo prettamente umano, poi, questo giovane eroe ci ha offerto un insegnamento precise, spiegandoci che la vita impone scelte che debbono superare le preoccupazioni contingenti e personali, e nello stesso tempo dimostrandoci come sia importante saper bene morire. A prima vista sembrerebbe un paradosso, ma non lo è per gente di fede che sa assumersi le proprie responsabilità di fronte al mondo. Per tutti questi motivi, in definitiva, ancora oggi il ricordo di Giancarlo Puecher resta chiaro ed esaltante, consegnate alla Storia.
Virginio Rognoni
Presidente del Centro di Cultura Giancarlo Puecher