LA SFIDA DI DUBCEK

Primavera di Praga e partiti comunisti

Puntualmente, ormai da dieci anni, ritorna l’anniversario del drammatico agosto cecoslovacco del 1968. la “primavera” di Praga venne stroncata, com’è noto, dall’intervento militare sovietico e degli altri Paesi del Patto di Varsavia, con la significativa astensione della Romania, il 21 agosto di quell’anno. Veniva così destituito il gruppo dirigente di un partito comunista che da pochi mesi si era proposta, senza porre in discussione i legami con l’Unione Sovietica, di adeguare la costruzione del socialismo alle mai sopite tradizioni democratiche del proprio Paese, ad una fase di avanzata industrializzazione, al risveglio culturale e civile incoraggiato a ricevere nuove vie anche dalla condanna dello stanilismo e dalle speranze della distensione.

Il caso cecoslovacco è da allora un ostacolo obiettivo ad una reale distensione. Tocca ovviamente ai cecoslovacchi risolvere, senza interferenze di partiti o di altri Stati, i loro problemi interni, ma gli effetti della distensione, oggi sottoposta a dura prova, non possono manifestarsi se perdura la presenza di truppe straniere, sia pure alleate, quando non esiste alcun pericolo alle proprie frontiere. Questa presenza, che contrasta con gli accordi di Helsinki, rende ancor oggi legittima la richiesta di porre fine ad una condizione di sovranità limitata. La tesi della congiura “controrivoluzionaria” è priva di fondamento, anche se la Pravda, in questi giorni, l’ha riproposta con puntigliosa e burocratica sicurezza.

Gli stessi partiti comunisti dell’Europa occidentale rifiutano questa tesi ripetendo da tempo la quasi unanime condanna per quanto è avvenuto in Cecoslovacchia. Dalla lacerazione di Praga è dunque derivata una presa di coscienza sempre più marcata e diffusa, specie nel PCI, delle gravi limitazioni esistenti, per motivi interni e internazionali, nei Paesi definiti di “socialismo reale”.

Il fatto è di grande importanza. Si tratta di una presa di coscienza che va riconosciuta ed incoraggiata. Se il ripetersi delle condanne non basta da solo a trarre dalla lezione cecoslovacca tutti gli insegnamenti che essa contiene, il fermarsi al processo alle intenzioni per le posizioni assunte non giova né a chi lo fa, né a chi lo subisce. L’evidenza dei fatti ha una sua logica. I partiti identificati come “eurocomunisti” cadrebbero in contraddizione con le loro affermazioni, con la politica che vengono sviluppando, se di fronte ad un’opinione pubblica libera e severa non dimostrassero la volontà di realizzare nelle democrazie pluraliste dell’Europa occidentale quella conciliazione tra libertà e socialismo, tra democrazia ed egemonia di classe o di partito, che non a caso Dubcek non è riuscito a porre in essere e che è un problema irrisolto sia in Unione Sovietica che nei Paesi di “socialismo reale”.

“La democrazia – ha detto infatti Berlinguer in una nota intervista – è un valore che l’esperienza eroica dimostra essere universale e permanente e che, per conseguenza, la classe operaia e i partiti comunisti fanno propria e devono affermare anche nell’edificazione di una società socialista”. Il passo avanti è notevole, ma è proprio partendo da affermazioni come questa che la riflessione deve essere approfondita.

Se la ricostruzione del nesso tra socialismo e libertà non riesce a realizzarsi dove i partiti comunisti sono in modo esclusivo al potere, se la coscienza del “valore universale permanente” della democrazia è così in ritardo o, quantomeno, incontra ostacoli insormontabili in società in cui le forme di produzione capitalistica sono state eliminate, allora sembra evidente che, assieme alle cause storiche, vi sono cause attinenti alla concezione dello Stato, il rapporto tra potere e istituzioni, la gestione burocratizzata dell’economia, la funzione del partito, le garanzie del pluralismo sociale, culturale e politico, che richiedono ai comunisti che vogliono evitare simili errori una revisione profonda, oltre che nella prassi, nel campo del pensiero e dell’elaborazione teorica. Già Togliatti, nel suo memoriale di Yalta del 1964, aveva posto apertamente, senza risolverli, questi problemi.

Il PCI, osservano alcuni suoi autorevoli esponenti, ha già maturato autonomamente, in più di trent’anni di esperienza democratica, posizioni originali che, soprattutto dopo il congresso del PCUS e la condanna dello stanilismo, sono venute in conflitto con il dogmatismo dei modelli di “socialismo reale” e postulano, per le democrazie industrializzate, vie diverse di trasformazione della società e di costruzione del comunismo.

Nessuno nega il processo in corso. Ma la vigilanza, il controllo democratico reciproco, sono condizioni essenziali quando si è di fronte ad ipotesi tutte da dimostrare nei loro punti di arrivo. Al di là delle permanenti diversità ideali e politiche, delle revisioni in atto e auspicabili, vi sono dei punti fermi verso i quali, se si vuole salvaguardare il “valore universale permanente” della democrazia, l’approdo deve essere comune, irreversibile e deve essere sorretto da un generale convinto consenso. Lo sviluppo pieno della democrazia ha le sue regole, i suoi tempi di maturazione e richiede le sue prove.

La politica del confronto assunta come scelta che va oltre l’emergenza, deve dunque contribuire a sciogliere, di fronte ad un’opinione pubblica attenta ed esigente, le contraddizioni, i dubbi, le diffidenze reciproche anche sui grandi temi evocati dalla lezione cecoslovacca, e ciò a prescindere dal ruolo di ciascun partito.

La sfida di Dubcek, sconfitta a Praga, sembra essere raccolta nell’Europa occidentale da quei partiti comunisti che si propongono, in un clima di libertà e di pluralismo, una strategia diversa da quella in atto nei Paesi di “socialismo reale”. Si tratta di un effetto prezioso della libertà. È dallo sviluppo di questa esperienza, consentita dalla nostra democrazia parlamentare, che i partiti “eurocomunisti” possono trarre la credibilità e rendere definitiva, e perciò affidante, la svolta iniziata. Si può e si deve chiedere che la critica ai modelli di “socialismo reale” diventi più organica e sia accompagnata da iniziative coerenti, che le conseguenze di tale critica siano tratte in modo limpido sul piano interno e su quello internazionale. Ma che senso avrebbe ostacolare a priori, come in Cecoslovacchia, gli sforzi di conciliazione tra libertà e socialismo in Paesi in cui la democrazia è una realtà? Sarebbe una sconfitta della libertà e scarso valore avrebbero anche le nostre periodiche rievocazioni.

Il Popolo
22 agosto 1978
Luigi Granelli