In entrambi i casi devono essere garantiti il diritto dei singoli cittadini essendo l'uscita o l'adesione ad un partito una decisione personale non delegabile, e non secondariamente la correttezza delle procedure per quanto riguarda il rispetto dello statuto, la tutela del patrimonio, come del nome e dei simboli, del partito, che ‑ in Italia ‑ assume la figura giuridica dell'associazione non riconosciuta, con i vincoli e la tutela conseguiti.
Ma, su tutto, debbono sempre prevalere le ragioni ideali e storiche che motivano l'esistenza di un partito o la sua costituzione. Per questo ho messo sin dall'inizio in guardia dall'errore di far pagare alla Democrazia Cristiana in quanto tale, come forza popolare partecipe della lotta contro il fascismo e protagonista della nascita e della sviluppo della democrazia italiana del dopoguerra, l'effetto dei tradimenti, del devastante degrado morale, delle omissioni che, soprattutto negli ultimi quindici anni, hanno deturpato l'immagine e il ruolo del partito di De Gasperi e di Moro.
Sarebbe stato più produttivo un taglio netto con quanti hanno gravemente sbagliato, o peggio sono rei confessi o hanno "patteggiato" ammettendo le accuse. Non è stata tutelata, come necessario. la grande maggioranza dei democratici cristiani che con dedizione ed onestà hanno servito, nel Paese ed anche in responsabilità istituzionali e di Governo, il loro partito. "Gli errori sono degli uomini, i meriti dell'idea", ammoniva Sturzo. Cosi come una procedura democratica limpida, più corretta anche nei suoi aspetti giuridici, avrebbe dato più forza alla trasformazione della DC in PPI ponendo i cambiamenti al riparo da ciniche manovre dei trasfughi che, dopo aver abbandonato per opportunismo il partito, rivendicano nome, simbolo, e parte di patrimonio per svendere il tutto al miglior offerente.
La svolta, comunque, è avvenuta; bene che si sia chiusa una fase incerta, confusa, assai rischiosa. La battaglia in difesa della Democrazia Cristiana non è stata di retroguardia. In ogni passaggio ci si è richiamati all'esigenza, assolutamente fondata, di cambiamenti profondi nel costume, nei programmi, nella strategia politica, nella forma organizzativa, per un persuasivo ritorno della DC allo spirito delle origini. La scelta, come nome, di Partito Popolare Italiano ed il legame sostanziale, non di puro ossequio storico, alle concezioni "sturziane" della politica sono assai impegnativi e rappresentano, per democratici cristiani che non vogliano rinnegare le loro idee, una garanzia di evidente portata. Le relazioni di De Rosa, Balboni, Martinazzoli, del 18 e del 22 gennaio, come il contenuto del nuovo appello "ai liberi e ai forti", sono stati rassicuranti e di esplicita riconoscibilità ideale e politica.
Non si può non ammettere che, almeno sino a prova contraria, c’è nel PPI spazio di militanza politica per democratici cristiano onesti e coerenti che non hanno difficoltà a considerarsi “popolari” in senso sturziano. Certo, il modo con il quale si è giunti alla svolta lascia in campo qualche delicato problema. L’opportunismo e il trasformismo non sono scomparsi dalla vita italiana. Molti, troppi, cavalcano con disinvoltura “il nuovo” per annullare un passato per loro ingombrante, confondono i propri comportamenti personali con la storia del partito, pensano di poter riciclare – non appena si sarà attenuata la tempesta giudiziaria – metodi, prassi, intrecci tra politica, affari e interessi discutibili, che vanno invece stroncati con rigore. Occorre stare in guardia da travisamenti, mascherature che ostacolerebbero sul nascere quel nuovo modo di fare politica che è condizione essenziale del formarsi di una rinnovata classe dirigente nei partiti. Bisogna difendere con intransigenza l’identità ideale, programmatica, politica di un partito popolare di ispirazione cristiana che si snaturerebbe, creando casi di coscienza e disimpegno, innaturalmente confluendo in blocchi conservatori di destra o in cartelli eterogenei e subordinati ad uno schematico schieramento di sinistra. Il PPI, per Sturzo, era un partito di centro, non del centro, che forte della sua identità non esclude, come hanno realizzato con chiarezza De Gasperi e Moro, nell’interesse prioritario del Pese, intese, alla luce del sole, di centro e di centro-sinistra.
Valori essenziali esigono, nella costruzione faticosa al centro e alla periferia del nuovo soggetto politico che si passi dalle misure di emergenza, dai pieni poteri, dalle prassi delle cooptazioni, ad un partito di diritto, con regole valide per tutti, rianimato dalla partecipazione periferica alle scelte da compiere, dal dibattito interno, dalla investitura democratica, ad ogni livello di organi di direzione e di guida rispettosi della funzione stimolatrice e critica delle minoranze. Il cammino è e sarà esposto a continui rischi, ma le difficoltà debbono accrescere l’impegno comune.
Per questo i democratici cristiani devono partecipare con generosità, senza nulla chiedere, alla costruzione del Partito Popolare Italiano. C’è una memoria storica da non disperdere. Vi sono coerenze da difendere con intransigenza. E’ necessario concorrere, nel vitale filone del cattolicesimo democratico italiano, alla ripresa e allo sviluppo di una grande battaglia ideale, culturale, politica per affermare in autonomia e libertà i valori dell’uomo, del diritto, di una società solidale nella giustizia, e della pace garantita dal rispetto del diritto dei popoli. Non si può disertare, né stare rassegnati ad attendere sulla riva del fiume.
La ripresa del dibattito, del confronto delle idee, è essenziale. Per troppo tempo, come dimostra la battaglia condotta a volte in solitudine, la discussione langue. Alle domande non corrispondono le risposte, alle tesi non si contrappongono tesi per arricchire, nella diversità., il patrimonio di pensiero del partito. Non c’è azione politica durevole, coerente, senza un pensiero che dia forza alle scelte. L’impegno a tener vivo il confronto culturale e politico, dentro e fuori il partito a seconda degli sviluppi che si determineranno resta, perché l’ispirazione cristiana e la fedeltà alla democrazia sono valori a cui in nessun caso si deve rinunciare.
Nel 1923, dopo il congresso di Torino del PPI, nacque a Milano il “Domani d’Italia”, diretto da Francesco Luigi Ferrari, per mobilitare i “popolari” democratici cristiani su una linea nettamente antifascista volta a disincagliare il partito dalle “secche del collaborazionismo” a destra, verso Mussolini e le sue lusinghe concordatarie. Questa battaglia di Ferrari e di molti altri continuò, in esilio, insieme a Sturzo, anche quando il partito si dissolse per una drammatica involuzione autoritaria e di regime. Ma si deve a quella battaglia ideale e politica, al di là della momentanea sconfitta, se la DC nel 1943 poté riprendere a testa alta un ruolo da protagonista nella rinata democrazia cristiana.
Noi non dimentichiamo quella lezione.
Nel 1972, di fronte a rischi di sbandamento della DC, avevamo addirittura ripreso a pubblicare, il “Domani d’Italia”, che ho avuto l’onore di dirigere. Il partito è pur sempre uno strumento. Ma con esso e al di là di esso sono le idee, i valori, che hanno un primato e richiedono una operante difesa in ogni campo.
Quando ormai il fascismo si affermava con violenza, sorretto dai
grandi interessi e da molti tradimenti, Francesco Luigi Ferrari scriveva
sul “Domani d’Italia”: “mentre la vita politica si svolge al di fuori di
ogni nostra influenza noi, pur non anelando ad averne se non attraverso
le nostre idee e la forza inerme, non possiamo che raccoglierci per
fissare le nostre responsabilità, per preparare il domani, per
difendere, da studiosi non superficiali, tante ragioni del passato”.
Questo indicatoci da Ferrari è un itinerario da uomini “liberi e forti”
al quale chiunque pensi e agisca da democratico cristiano non può
sottrarsi, anzitutto nel PPI per aiutarlo a non rinunciare alla propria
identità. E poi per difendere, in ogni caso, valori che si sono
affermati con il sacrificio di intere generazioni e non possono essere
abbandonati nel caso in cui l’involuzione
antidemocratica, o la frantumazione del cattolici on ruoli devianti e
senza autonoma personalità, dovessero tornare a prevalere.
Roma, 25 gennaio 1994
Il suicidio dell’on. Moroni, atto tragico ed ammonitore che troppi tendono a strumentalizzare, ha aperto la via ad una riflessione severa ma anche esposta al rischio di troppi equivoci. Non c’è dubbio che di fronte a indagini giudiziarie che hanno giustamente preso di mira un diffuso malcostume è un dovere difendere, in tutti i suoi aspetti, le conquiste dello Stato di diritto e di un costume democratico che ha nella libertà e nella correttezza dell’informazione una garanzia fondamentale. La costituzione garantisce ad ogni cittadino il diritto alla presunzione di innocenza almeno sino al rinvio a giudizio. Un avviso di garanzia, una richiesta di autorizzazione a procedere, non possono equivalere ad una sentenza di condanna o ad una occasione da sfruttare cinicamente per regolare conti politici.
Ci sono poi aspetti umani da non sottovalutare. Azioni colpevoli e in contrasto con le leggi vanno punite con severità, se si vuole diffondere la fiducia verso le istituzioni, travolgono spesso nella considerazione sociale, insieme ai protagonisti che devono rendere conto, le famiglie, i figli, conoscenti ed amici senza alcuna responsabilità,e colpiscono ingiustamente persone innocenti. Sono perciò condivisibili gli appelli, venuti da più parti, al massimo di obiettività nell’informazione, in ossequio al dovere di dare senza amplificazioni interessate anche notizie scabrose, al rigore assoluto delle procedure, alla tutela dei diritti della difesa, alla non interferenza sotto qualsiasi forma dell’indipendenza della magistratura.
Questa preoccupazione non va confusa con la campagna contro un clima definito infame a causa dell’avvio, dello svolgimento, delle conseguenze, di indagini sul fenomeno delle tangenti che, nonostante le convalide della Cassazione, sono oggetto di inammissibili intimidazioni e interferenze politiche. Su questo punto è necessario essere altrettanto fermi. Il Parlamento deve far luce sull’inquietante iniziativa, che si presume coinvolga anche responsabilità pubbliche, di una inchiesta da parte di un ex maresciallo dei carabinieri su un giudice impegnato in procedimenti di grande importanza. Bisogna reagire di fronte ad un comportamento del Ministero di Grazia e Giustizia che, oltre a non vedere le insidie su questo versante, concede che nonostante tutto l’inchiesta avviata deve continuare e invita irritualmente un Magistrato a rispondere, nell’esercizio delle sue funzioni, alle accuse non dimostrate di un segretario di partito o ad allusivi corsivi giornalistici.
Ma è su altre insidie che occorre riflettere. Di fronte al groviglio dei reati che emergono dalle indagini si tende, con qualche ragione, a distinguere tra abusi, corruzioni e concussioni, tendenti a procurare profitti personali e violazioni di legge meno rilevanti finalizzate al finanziamento di partiti garantiti costituzionalmente perché essenziali alla vita democratica. Per cominciare sarà bene approfondire con maggiore precisione un confine che non è così scontato. Ci sono partiti al centro della bufera che sono pieni di debiti, come sanno bene i commissari investiti di compiti di risanamento, mentre appaiono sullo sfondo consistenti conti privati di cosiddetti “elemosinieri” che dimostrano molte cose in contrario. In secondo luogo non si possono far passare per finanziamenti ai partiti sostegni a personaggi politici compiacenti, a comitati di affari interni ed esterni, a trasversalismi di ogni tipo per mettere fuori gioco uomini o minoranze che cercavano di contrastare giochi perversi e più volte denunciati con le armi della battaglia democratica.
E, infine, non può trovare giustificazione alcuna forma illegale di finanziamento dei partiti gravissimo non solo per le violazioni fiscali, contro norma che consentono aiuti alla luce del sole e posti a bilancio, ma perché tendente a subordinare gli stessi partiti al potere di spregiudicati maneggioni, ad interessi particolari, ad una prassi di sovvertimento delle regole della pubblica amministrazione, in aperto contrasto con i compiti di libero concorso dei cittadini per determinare con prassi democratica, la politica nazionale che la Costituzione afferma e tutela. La distinzione per individuarne la specifica configurazione dei reati è doverosa, rientra nei doveri di uno stato di diritto, ma non può portare a colpire persone investite da incidenti di percorso e a concedere magari sconti, o addirittura giustificazioni, ad un sistema che ha gettato fango sui partiti e sulla loro originaria funzione.
Intransigenza, severità, rimedi rigorosi, si impongono per tutti gli aspetti di fenomeni scandalosi che hanno portato al degrado morale, ad un diffuso sovvertimento di corretti rapporti politici, all'affermarsi di una partitocrazia corrotta che rende difficile la limpida e indispensabile ripresa del compito di partiti ricondotti alla loro natura ideale, democratica costituzionale. Nasce qui una questione che va affrontata con urgenza. I partiti non possono attendere le sentenze della Magistratura per intervenire, con drasticità, su fenomeni che minano alla radice la loro funzione. Quanto è accaduto avrà le sanzioni riguardanti le persone previste dai codici, ma non è tollerabile da ora sul terreno della politica e della prassi democratica.
I protagonisti dei comitati d'affari che hanno inquinato i partiti, alcuni dei quali non solo rei confessi ma cinicamente esposti nella difesa del sistema introdotto, hanno distrutto con le loro azioni l’onorabilità stessa della politica e, soprattutto, hanno aperto la via ad un regime di potere plurimo e incontrollabile in contrasto con le regole della democrazia. Esponenti di partiti diversi che, in base ad una normale fisiologia democratica, possono essere chiamati a svolgere, in contrasto o in collaborazione tra loro, compiti di govern0 o di opposizione hanno di fatto stabilito regole comuni che, al di là degli aspetti di illegalità rappresentano l’annullamento della loro autonomia nello svolgimento dei compiti politici.
Al tavolo in cui si ripartivano, a quanto si sa, per consuetudine i proventi di azioni illegali si decidevano anche, al di fuori di ogni controllo democratico, gli equilibri politici, le formule di governo, gli atti amministrativi garantiti, in parecchi casi, dalla benevolenza delle opposizioni. A cosa servivano più gli organi statutari dei partiti? Quali le sedi legali delle scene politiche? II sovvertimento delle regole democratiche è evidente e intollerabile. Adesso si comprende perché le battaglie di minoranza, nei partiti, per cambiare alleanze politiche, superare formule logore, pose al centro degli accordi il risanamento, la moralizzazione, la trasparenza amministrativa, giravano a vuoto contro il muro di una disgustosa trasversalità politico‑affaristica.
Il sovvertimento della concezione stessa della democrazia, della nozione
morale a culturale della politica, è di una gravità tale che occorrono da
subito, a livello dei partiti, tagli netti e rimedi efficaci. Non si può
dimenticare che anche all’interno dei partiti ì cosiddetti "elemosinieri”
si avvalevano il più delle volte del loro potere per manipolare tessere,
incoraggiare frazionismi, aprire la via ad intese trasversali in difesa
del sistema escogitato, manovrare nomine di interesse pubblico, in una
logica di svuotamento di ogni democrazia interna. Il sistema del
finanziamento pubblico dei partiti, da riformare rendendo trasparenti e
verificabili le entrate legittime e le spese documentate, non può
diventare un alibi per stendere un velo su fenomeni distruttivi della
democrazia al pari della corruzione praticata dalle singole persone.
Liberare i partiti dall’inquinamento che i ha colpiti senza attendere le
sentenze dei ,magistrati è un banco di prova per vedere quanti, e come,
intendono voltare pagina per preservare i valori di una libera democrazia
e di una politica restituita alla sua dignità.
Repubblica
7 settembre 1992
In un partito democratico si può discutere di tutto se viene rispettata la legalità delle decisioni. Non può essere un tabù, ad esempio, prospettare cambiamenti radicali che coinvolgano, oltre al programma e alle forme organizzative, anche nome e simbolo di una formazione politica. E’ però necessario distinguere, preliminarmente, tra le discussioni fatte in vista della costituzione di un partito, come fu al tempo di Sturzo, da quelle, molto diverse, che partono dalla presenza di una realtà maturata con la DC dopo una pluridecennale esperienza storica. Nel dopoguerra, quando si scelse il nome della DC, lo si fece, per insistenza di De Gasperi, soprattutto per dare ai giovani che venivano dalla scuola di formazione dell’Azione Cattolica, senza esperienza politica a causa del fascismo, uno strumento nuovo e aperto al loro originale contributo rispetto ad un partito che, con il”popolarismo” sturziano aveva pur dato esemplari prove a cavallo degli anni venti.
Grande peso ebbero allora, nella scelta del nome DC che già Romolo Murri aveva adottato, sia l’importanza dei principì della democrazia, di fronte al disastro delle dittature e della guerra, sia i valori dell’ispirazione cristiana, come speranza di profondi cambiamenti, sull’onda di idee che con la riscoperta di Sturzo, di Maritain e Mounier in Francia, e delle riflessioni sul Codice di Camaldoli, in Italia, avevano avuto larga eco tra i cattolici democratici. Diversa, invece, è la scelta del cambiamento di nome di un partito che esiste, che ha concorso in modo determinante alla storia e allo sviluppo del Paese e che, nonostante errori e torti da eliminare, appartiene moralmente e politicamente a quanti l’hanno costruito, servito, in decenni di battaglie ideali, di impegno disinteressato, e non intendono ora gettare la spugna nemmeno per le umiliazioni subite a causa del tradimento di chi è stato travolto dal perverso intreccio tra politica e affari.
A difesa del significato del nome DC, contro i comportamenti che ne hanno ferito la credibilità, si potrebbero anche ricordare sia l’importanza del richiamo alla democrazia, in un momento in cui crollano le pretese ideologiche e si affermano i poteri più forti, sia la straordinaria attualità dei valori cristiani di fronte all’angoscia dell’uomo contemporaneo, ai bisogni di giustizia e di solidarietà dei ceti più deboli e alle domande di diritto, di legalità e di pace che aumentano in un mondo sconvolto dalla violenza e dal ritorno del razzismo. Persino la mancata evocazione formale del termine partito, nel nome DC, appare, in tempi di polemica sulle degenerazioni della partitocrazia, di qualche significato. Si dovrà discutere con il massimo di serietà su questo problema, niente affatto nominalistico, ma ammettiamo, per il momento, la tesi che possa oggi essere non inopportuno rigenerare il partito anche con un nome nuovo.
Questa scelta, anzitutto, dovrebbe essere il frutto di una discussione in sedi legittimate a prendere delle decisioni sul ruolo politico, sul programma, sulla forma del partito, e non il punto di partenza a priori di una tesi precostituita. Impressiona la superficialità dei dibattiti in corso. Sembra di assistere ad una mediocre gara per la individuazione di un marchio gradito a presunti clienti, più che alla ricerca, quand’anche si accettasse la logica del marketing, di un buon prodotto capace di affermarsi per le sue qualità. Dietro a ciascuna proposta di nome c’è un diverso progetto di partito, di movimento, di strumento elettorale. Taluni, per recuperare in fretta consenso e potere, vogliono una unione elettorale aperta a liberali e moderati, in una forma che risale al conte Gentiloni più che a Sturzo o a De Gasperi. Altri pensano ad una formazione cristiano sociale, cui aderisca il minor numero possibile di ex democratici cristiani, sperando che cancellata la DC il centro torni vincente ed eviti aperture a destra o a sinistra. Altri ancora vogliono cambiare rifacendo la diga a sinistra per potere intendersi, a differenza di una DC tendenzialmente di centro-sinistra, con la Lega e altre forze di destra. E non manca nemmeno chi, nel difendere al contrario la DC, vede più un mezzo per opporsi al cambiamento, che si teme, più che un salutare ritorno alle origini, un rinnovamento profondo di costume, di programma, di classe dirigente.
A pochi di questi strateghi sembra interessare l’essenziale ispirazione cristiana del partito che, oltre ad essere la più importante motivazione per cambiamenti incisivi nei modi di fare politica, è anche un preciso vincolo morale. Né sembra preoccupare, in omaggio alla politica spettacolo del prendi e butta, il rischio di tagliare con le radici anche il collegamento con le tradizioni ideali e politiche che la DC, nei momenti migliori, ha interpretato. Non ci si rende conto, in tanta confusione, che ogni scelta unilaterale di superamento della DC porterà, tra forti contrasti, al dissolvimento, in schegge insignificanti, di una importante e vitale esperienza politica dei cattolici italiani che ha influito sulla storia del Paese.
Ma poi in base a quale diritto, con che fondamento di legalità, chi non appartiene alla DC, o ha avuto mandati per esserne dirigente, potrebbe decidere, a seguito di congetture unilaterali o di ristrette intese di vertice, di liquidare un partito democratico? Sarebbe un arbitrio intollerabile. A nessuno può essere consentito uno scippo che, oltre alla sua improduttività politica, solleverebbe rilevanti responsabilità morali. La DC è un partito frutto di una realtà storica costruita con le battaglie, i sacrifici, l’impegno di più generazioni e nessun singolo dirigente, nemmeno il suo segretario, può scioglierlo a discrezione, come se si trattasse di cosa propria. Solo iscritti e aderenti al partito in modo trasparente, non per effetto di manipolazioni simili ad un vecchio e deplorato tesseramento, hanno il diritto, nel rispetto della regola democratica, di deciderne insieme gli aggiornamenti, le trasformazioni, eventualmente anche la scelta di un nome diverso. Le procedure devono essere tali da permettere, in ogni caso, a chi è in disaccordo di dissentire e di trarre, alla conclusione di un pubblico e approfondito confronto e di fronte a decisioni prese legittimamente, libere conseguenze di militanza o di disimpegno. Una composita Assemblea costituente, giustamente aperta anche al contributo di chi non milita nella DC, costituita per le cooptazioni discrezionali e di vertice può essere di grande utilità per definire e proporre in piena libertà, al partito, programmi, nuove forme organizzative, cambiamenti anche radicali di metodo e di strategia politica. Ma tocca poi ad un regolare e trasparente congresso decidere in autonomia e sanzionare formalmente, avvalendosi se lo si ritiene utile anche di un referendum interno, con le dovute garanzie, i mutamenti che possono legittimamente aprire una fase nuova, in tutti i suoi aspetti, per la vita del partito.
Senza questo percorso di legalità democratica ogni lacerazione sarebbe
giustificata e chi pensasse a fatti compiuti se ne assumerebbe, per intero
la responsabilità. Martinazzoli ha più volte affermato con convinzione che
la DC va cambiata, non liquidata, e che si deciderà insieme, secondo una
regola democratica. Per questo vanno evitate smagliature o parziali e
devastanti anticipazioni. Bisogna guardarsi dagli errori, che possono
essere tragici, e mobilitare dentro e fuori il partito ogni energia
disponibile non per archiviare una valida esperienza storica, ma per
liberarla da errori e degenerazioni con la costruzione di una nuova DC che
sia tale per programma, costume, vitalità democratica, forma organizzativa
e classe dirigente e non per la apparente novità di una effimera
etichetta.
Il Popolo
15 luglio 1993
Non si può parlare del Nuovo Pignone senza evocare, a Firenze ed in Italia, il nome di Giorgio La Pira. Si deve soprattutto a lui non solo il ricordo di una significativa e aspra battaglia, (accanto ai lavoratori e ai tecnici della vecchia Pignone, con la solidarietà di gran parte dei fiorentini e dei democratici italiani di ogni orientamento, in difesa del diritto del lavoro) ma la tenuta produttiva e tecnologicamente avanzata di un segmento importante dell’industria italiana. Non si trattò, come continuano a ritenere certi malevoli critici, di un espediente solidaristico che poneva, con l’aiuto di Mattei, oneri assistenzialistici a carico dello Stato. Giorgio La Pira che già con Rossetti aveva sostenuto su “Cronache sociali”, tenendo conto delle esperienze laburiste inglesi, una programmazione delle risorse esistenti finalizzata al pieno impiego, come condizione di sviluppo e di modernizzazione del Paese, ha difeso l’occupazione a Firenze con un significato che andava ben oltre la giusta solidarietà con i lavoratori e con le loro famiglie. Era in gioco, allora come oggi, l’avvenire industriale dell’Italia in un settore importante.
Solidarietà, occupazione durevole, sviluppo competitivo dell’economia sono, anche oggi, in gioco a Firenze a causa della privatizzazione del Nuovo Pignone che, ove fosse condotta con la miope visione di disfarsi di una industria per fare cassa, non può che recare danni incalcolabili, oltre che ai lavoratori interessati, all’intera economia nazionale. Non va ostacolata la privatizzazione in sé, ma il modo di farla ed è necessario accompagnarne gli esiti con un controllo rigoroso e responsabile. Entro l’anno devono essere compiute scelte che possono mettere a repentaglio i successi storici acquisiti da La Pira.
L’operazione è un severo banco di prova per le privatizzazioni in campo industriale. Errori iniziali hanno pesato e pesano: i ripetuti e generici annunci di dismissione non accompagnati, per mesi e mesi, da atti concreti e dalla enunciazione di chiari obiettivi di politica industriale hanno avuto effetti deleteri; molti hanno pensato alla svendita di una impresa in difficoltà con il fine, quasi esclusivo, di recuperare risorse per il risanamento della finanza pubblica. Le conseguenze negative sono state una battuta d’arresto, la caduta di credibilità, una crisi di sfiducia del management, dei tecnici, delle maestranze, con grave pregiudizio del valore e delle potenzialità di una industria che, all’opposto, va collocata sul mercato con la coscienza del suo ruolo presente e futuro.
Il Nuovo Pignone è un’impresa che ha un posto significativo nella storia industriale italiana. Negli anni ’50 non fu oggetto di un “salvataggio”. La indimenticabile battaglia di Giorgio La Pira, di fronte alla gretta miopia della Snia Viscosa, era in primo luogo difesa dell’occupazione, in nome di un diritto umano e costituzionale e di un dovere di solidarietà. Ma l’ENI di Enrico Mattei fece anche una valutazione realistica del patrimonio di tecnici, di manodopera specializzata, di tecnologia, e con un investimento lungimirante gettò le basi di una ristrutturazione e di un rilancio che l’imprenditoria privata non era in grado di fare. Il Nuovo Pignone divenne così una industria d’avanguardia, apprezzata sul piano internazionale, con una potenzialità di sviluppo da non trascurare.
Singolari e fuorvianti appaiono alcune affermazioni del giornalista Turani, su Repubblica, che criticano la richiesta di garanzie per l’occupazione come pretesto perché non ci sarebbe privatizzazione senza la solita ricetta della riduzione dei posti di lavoro. Il giudizio è completamente fuori strada. Il Nuovo Pignone è un’industria attiva, con tecnologie avanzate, presente sul mercato interno e internazionale, e il suo problema è quello di difendersi da agguerrite concorrenze, di allargare la gamma del suo potenziale di tecnologia, di aumentare risorse e prodotti. L’intesa va ricercata con partners internazionali che non si propongano, come spesso accade, di comprare una fetta di mercato e smantellare poi le possibilità produttive dell’impresa acquisita.
Ecco perché questa privatizzazione è un banco di prova di politica industriale. Il rilancio poteva anche essere perseguito per altre vie. Il Nuovo Pignone era già quotato in Borsa con risultati lusinghieri e si poteva – in aggiunta ad intese con la Finmeccanica e con joint-ventures aperte a soggetti internazionali - allargare la partecipazione azionaria privata sulla base di un persuasivo programma di investimenti e di rilancio . si è invece ceduto alla moda delle privatizzazioni con una scelta utile all’orientamento dell’ENI di uscire da una attività industriale, e utile altresì alle riluttanze dell’IRI a concorrere ad una riorganizzazione del settore e all’obiettivo del Governo di un risanamento più finanziario che economico.
Ora però, dopo la legittima richiesta di verificare in Parlamento le scelte di politica industriale del governo e dell’ENI, c’è il dovere della vigilanza, del controllo delle decisioni prese, della ripresa di una forte battaglia, se, nonostante le assicurazioni, ci si incamminasse su una strada sbagliata.
La decisione dell’ENI di conservare una partecipazione del 20% non può limitarsi alla garanzia del mantenimento di un certo livello di commesse, ma deve essere una presenza attiva in difesa di un progetto di rilancio industriale. Forme di collaborazione con l’IRI non vanno escluse. La partecipazione finanziaria delle Banche è da favorire per mantenere rapporti azionari equilibrati, ma è la scelta del partner straniero il passaggio più delicato. La valutazione deve essere industriale prima che finanziaria. Ci sono multinazionali che hanno interesse ad assorbire, per poi gradualmente smantellare, le imprese acquisite, e multinazionali che intendono invece collaborare, sulla base di un preciso impegno industriale, per sviluppare e ampliare la gamma delle attività e le opportunità di mercato.
Queste scelte vanno tenute sotto controllo. La difesa dello svolgimento in Italia dell’attività della ricerca, del patrimonio di brevetti, di marchi e di produzioni, dei livelli di occupazione in vista della loro crescita, è la condizione irrinunciabile di una positiva privatizzazione che proprio per questo non deve sfuggire al controllo dei dipendenti, dei sindacati e dello stesso Parlamento.
Per questo, insieme ad altri trenta senatori della DC, ho presentato una interpellanza che costringe il Governo, dato che le firme superano il decimo dei componenti del Senato, a rispondere sulla base dei piani industriali presentati dai vari acquirenti, affinché la prevista privatizzazione garantisca il massimo di trasparenza e tuteli punti irrinunciabili di politica industriale per quanto riguarda:
1) la scelta di un partner straniero che non sia concorrente e non sovrapponga le proprie tecnologie a quelle, suscettibili di ulteriori sviluppi, del Nuovo Pignone;
2) la precisazione della funzione di riferimento industriale dell’ENI che, con una partecipazione almeno del 20%, deve esercitare un ruolo corrispondente negli organi societari e nella gestione;
3) la stipula di chiari accordi per l’importante partecipazione di Banche italiane allo scopo di garantire, in termini finanziari ed industriali, legittimi interessi nazionali nel quadro delle necessarie aperture internazionali per raggiungere il massimo di competitività sul mercato mondiale;
4) l’eventuale ricorso ad un maggiore coinvolgimento del risparmio e dello stesso personale dipendente, tramite la quotazione in Borsa, per assicurare anche per questa via un assetto societario equilibrato e verificabile.
La privatizzazione del Nuovo Pignone non può essere accettata a scatola chiusa: una svendita priva di garanzie farebbe assumere al Governo e all’ENI una pesantissima responsabilità, che aprirebbe anche in Parlamento forti contrasti, mentre una ristrutturazione seria e lungimirante potrebbe divenire un utile esempio di modernizzazione industriale. Nuovi errori costituirebbero un precedente grave e forse irreversibile. Per questo il nostro impegno ad una vigilanza attiva nel caso emblematico del Nuovo Pignone in coerenza con la battaglia fatta insieme a Giorgio La Pira negli anni ’50 deve continuare per porre un freno, a Firenze ed altrove, ad un processo di deindustrializzazione che può portare il Paese al disastro. Siamo, come negli anni ’50, ad un bivio di fronte al quale bisogna scegliere, come si fece allora, la difesa del diritto al lavoro e un serio rilancio della politica industriale in un settore tecnologicamente avanzato che richiede una coraggiosa e oculata internazionalizzazione, insieme ad un maggior apporto dei privati, ma non svendite irresponsabili che esporrebbero l’Italia a diventare una colonia delle grandi multinazionali.
Non è detto che la battaglia non torni a farsi aspra.
Cultura
20 ottobre 1993
Il nome non è un ostacolo al cambiamento coraggioso
Non è la prima volta che intervengo, sul quotidiano del partito, in difesa del mantenimento del nome Democrazia Cristiana. Ma ora intendo sviluppare, in una serie di articoli, le ragioni a sostegno della scelta che farò quando sarò chiamato a votare per il Referendum che è stato convocato, dopo l’Assemblea costituente, con ritardo e con modalità discutibili. È difficile un dibattito approfondito quando si invita non a scegliere su due nomi da dare al partito, posti concettualmente su un piano di parità, ma sulla proposta fatta dal segretario del PPI che mette molti in imbarazzo per il timore di revocare una fiducia in Martinazzoli assolutamente necessaria.
Si aggiunga che tutto deve essere fatto, più o meno in trenta giorni con una organizzazione demandata al livello regionale in una situazione periferica ove, in taluni casi, si sono precipitati i tempi nel cambiare il nome del partito, senza aspettare il referendum, in una logica di atti compiuti e persino con rischi di divisione della DC nell’intento di anticipare una scelta per il PPI ritenuta irreversibile. Si è poi fissata una discutibilissima norma, non solo antistatutaria ma sbilanciata verso la forma del partito d’opinione, che consente a chi non aderisce né alla DC né al PPI di deciderne il nome.
Tutto ciò genera amarezza in chi credeva e crede nel Referendum come libero confronto di idee attorno a una questione, quella scelta del nome, che non è di poco conto. La propaganda è invece a senso unico. Il dibattito non sembra decollare e, in molti casi, non è favorito perché si interpreta il Referendum come un inutile rituale che fa perdere tempo per una decisione in sostanza già presa e motivata con il fine di sciogliere la DC e costituire il nuovo soggetto politico PPI. Viene a proposito in mente la frase del signor Ford che, all’inizio del secolo, riconosceva agli americani il diritto di scegliere il colore della propria automobile purché fosse nera.
Non mi sottraggo per questo al dovere di dare, in ogni sede, il mio contributo di idee e di votare di conseguenza. Mi auguro che, alla fine, una procedura già criticabile sotto l profilo di una sostanziale democrazia non deragli addirittura, come ama dire Martinazzoli, in una affrettata e non verificabile conta di voti per proclamare in fretta e furia, sottraendo al congresso una prerogativa difficilmente annullabile, il nuovo nome del partito. Una simile forzatura potrebbe riaprire casi di coscienza e lacerazioni che già tendevano a manifestarsi prima dell’Assemblea costituente.
E’ interesse di tutti che il nuovo nome del partito sia adottato solennemente al congresso, nel rispetto della legalità, e sia concordemente applicato in tutta Italia, come conviene a una forza democratica nazionale, per dar luogo ad un coerente rilancio ideale, organizzativo, politico. In questo quadro ribadisco, e lo ripeterò, se sarà possibile al congresso, che è un errore abbandonare il nome di Democrazia Cristiana. La necessità di un radicale cambiamento di costume, di programmi, di classe dirigente è, non da oggi, per me, un punto fermo assoluto che non dipende automaticamente dalla scelta del nome. Ad un nome nuovo può corrispondere, se manca l’effettiva volontà di cambiamento, una realtà adattata opportunisticamente alla moda corrente.
Un nome antico, più che vecchio, può essere reso credibile se si dimostra di voler cambiare non solo a parole per liberare il partito dai tradimenti, dalle degenerazioni, dalle omissioni, che lo hanno deturpato. Il nome Democrazia Cristiana esprime, oltre che una tradizione ideale e storica che non si può rinnegare, se non altro per il suo apporto determinante allo sviluppo libero del Paese, valori che sono obiettivamente di straordinaria attualità. Tra l’altro il mancato riferimento formale a un’idea di partito, in tempi di aspra critica alla partitocrazia, ha qualche vantaggio psicologico.
Sono convinto, guardando alla sostanza, che non c’è democrazia senza partiti, ma proprio per questo è doveroso ricordare che la DC lo era e lo è in modo che conferisce più importanza ai valori di fondo della sua ispirazione che allo strumento storico e organizzativo per la loro affermazione. La crisi che ha investito i regimi politici, in ogni parte del mondo, è obiettivamente riscontrabile, oltre che nella caduta di ordinamenti autoritari che si sono sovrapposti alle società, in un deficit sostanziale di democrazia che mette in evidenza anche il limite spesso formalistico di molte conquiste realizzate nei sistemi parlamentari.
La realizzazione della democrazia in tutti i campi, dall’ordinamento degli Stati all’economia, dal pluralismo autogovernate della società a un sistema internazionale fondato sul diritto dei popoli, è un traguardo attualissimo per la liberazione dell’uomo, di tutti gli uomini, e per l’allargamento in termini di partecipazione alla costruzione del proprio futuro, del concetto di cittadinanza. Stanno tornando a questa consapevolezza persino i movimenti più condizionati, in Europa, da una visione ideologica della politica. Se ne rendono conto i fautori del superamento del conflitto sociale con il benessere o il paternalismo assistenzialistico perché l’uomo, anche quando è libero dal bisogno, resta inquieto senza il riconoscimento dei diritti che la democrazia afferma e deve proporsi di realizzare.
Perché dobbiamo abbandonare, per motivi contingenti anche se drammatici, questa valida qualificazione? Il popolarismo, che pure ha un significato importante sul quale si dovrà tornare in un’altra occasione, è più generico e meno rassicurante per quanto riguarda il cammino storico della libertà e delle istituzioni che la garantiscono. Ancora più essenziale è il riferimento alla ispirazione cristiana. Anche dal Concilio Vaticano II sono venuti impulsi autorevoli, confermati dal Magistero della Chiesa cattolica, ad imprimere alla politica, senza ritorni clericali che danneggerebbero la stessa religione, un forte connotato etico e ad operare perché gli uomini di buona volontà anche di fedi diverse possano ritrovare, nel pluralismo delle scelte, i valori cristiani della difesa della persona, della giustizia, della solidarietà.
Le intuizioni di Sturzo, di De Gasperi, di Moro, hanno oggi, ancor più di ieri, una forte convalida ideale e storica. Sono minori, anche se latenti in carenze culturali e spirituali dei singoli più che nell’azione della Chiesa, i pericoli di un integralismo intollerante che impedisca l’incontro, sul terreno del bene comune, con altre forze ideali che accettino la democrazia. Il perché “non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce è, anche per i laici, una affermazione più facile oggi di ieri se c’è onestà intellettuale e volontà di non ricadere in un anticlericalismo altrettanto fuori dalla storia. Perché proprio i cattolici che operano, in politica, in piena autonomia e sotto propria responsabilità, dovrebbero accantonare oggi, di nuovo per una ragione contingente, una qualificazione cristiana in senso sturziano che, oltretutto, è anche un severo richiamo al risanamento morale e alla necessità di cambiamenti non effimeri nella vita sociale, economica, politica?
Sono queste le ragioni che mi portano a sostenere la tesi del
mantenimento, anche nella straordinaria crisi attuale, del nome di
Democrazia Cristiana perché sono convinto che non è esso, come purtroppo
si dimostrerà, l’ostacolo ad un cambiamento coraggioso nel nostro modo di
fare politica. Si può discutere, come mi propongo di fare, anche di altre
soluzioni ma a condizione di non restare in superficie in un contrasto
puramente nominalistico sul come chiamare un partito.
Il Popolo
10 novembre 1993
Racconto della DC che oggi muore. Luigi Granelli, vicepresidente del
Senato, ex ministro, uno dei leader della sinistra del partito, ricorda
uomini, fatti, vicende, … “Quando feci la campagna elettorale scomunicato
da Montini …” Da Fanfani a Moro (“Il più importante”), da De Mita ad
Andreotti (“Voleva sempre gestire il potere”). Cinquant’anni di vita
italiana vista dalla parte della balena bianca…
Roma. Finisce oggi la storia democristiana, e allora … “E allora dobbiamo vigilare e vigilare fortemente. Non basta cambiare nome, rischiamo di sbandare a destra. Io torno nei ranghi, non mi ricandido più, ma non vado sotto al tenda…” finisce la storia democristiana, e allora vediamo di raccontarla. Anzi, di farla raccontare da un protagonista. Luigi Granelli, vicepresidente del Senato, ex ministro, uno dei leader della sinistra di Base. È iscritto al partito dal ’45: “E sì, mi sono visto l’inizio e la fine…”. Luci e ombre, uomini e politiche, la grande intuizione e il misero accordo. Scriverà un libro, Granelli, e intanto racconta…
Nel dopoguerra. Ero vicepresidente dell’Azione cattolica del mio paese, Lovere, che era a maggioranza comunista.
Marcora scoprì la politica solo attraverso la resistenza. Dopo l’8 settembre, un buon parroco gli disse: vai in montagna, e lì conobbe Mattei. Per la verità, finita la guerra si era messo in disparte, ma fu De Gasperi a richiamarlo chiedendogli di organizzare una manifestazione di partigiani dopo la rottura con i comunisti.
Quando divennero concreti i pericoli di sbandamento a destra, con la fine del centrismo, Martora chiamò a raccolta alcuni giovani dicì e fondò la Base. Era come dopo l’8 settembre: se non ci pensano a Roma, ci pensiamo noi… Volevamo evitare che la DC si dissolvesse a destra.
Ho avuto un battibecco con lui, dal palco del congresso di Roma nel ’51. Poi, quando venne a Milano per il congresso contro Guareschi, ci incontrammo spesso. Voleva convincerci a chiudere il nostra giornale, La Base. Non ci riuscì, ma ci confidò tutta la sua amarezza per le opposizioni incontrate per la riforma agraria e per l’atteggiamento del Vaticano sull’operazione Sturzo, l’intesa con i fascisti a Roma. “La democrazia si salva solo con un partito cristiano che non sbanda a destra. Se sbanda a destra non ha più nessuna identità e finisce il suo ruolo”, diceva. Indicazioni che vanno benissimo anche oggi.
Che tenta subito il recupero centrista e la rivincita elettorale. Con Fanfani i rapporti furono difficili, espulse dal partito Aristide Marchetti, un ex partigiano che dirigeva La Base. No, non erano anni facili… Io feci la campagna elettorale del ’58 con la scomunica dell’arcivescovo, Montini. Non fui eletto per duemila voti.
Perché doveva difendersi dagli attacchi del cardinale Siri che diceva che appoggiava la nostra linea.
Bè, Fanfani ha incarnato in maniera dinamica la tradizione cristiano sociale che è la più viva nel movimento cattolico. Certo, aveva molto senso di sé, era anche un po’ autoritario, non troppo aperto alla dialettica interna. Ma rispettoso. Tentò anche un approccio coi socialisti, che poi riuscì, in termini più aperti, a Moro.
Moro è stato il più importante, fin dal tempo della Costituente. Molti dimenticano che era lui il capogruppo alla Camera che , insieme a De Gasperi, fece cadere il governo Pella che andava paurosamente a destra. E poi fu lui che, con un famoso discorso all’Eliseo, recuperò il pensiero di Sturzo, che molti democristiani neanche conoscevano. Ora mi sembrerebbe proprio un delitto cancellare questa storia per finire con Bossi e Berlusconi.
Certo, ma se non fosse stato sequestrato. Perché, dopo il sequestro, sarebbe stato comunque un vendicatore, non costruttivo. Per questo mi ha molto meravigliato il “piano Mike” tirato fuori da Cossiga: si voleva impedire a Moro di svolgere, se liberato, il suo ruolo di denuncia, contro tutto e tutti, com’era suo diritto.
Come un attento osservatore delle cose del partito e un gestore eccellente. Era contro Moro e collaborava con Moro, contro Fanfani e collaborava con Fanfani… Per lui l’unico problema era di stare al potere e di gestirlo. Per questo è sempre presente nella storia della DC: ogni tanto Moro esce di scena, Fanfani esce di scena…. Lui mai. Certo, la sua era una gestione del potere più intelligente di quella dei dorotei, non aveva preclusioni, si fece appoggiare anche dai comunisti…. Ma se non avessero sequestrato Moro, lo stesso Pci non avrebbe votato a favore del governo Andreotti, che in realtà era solo una riproposizione trasformista dei vecchi governi. Io venni a Roma per parlare di questo con Zaccagnini, ma appena arrivai rapirono Moro e allora…
Era il moroteo con più grande moralità: una vocazione perbenista, da uomo ineccepibile, utile in molti passaggi a Moro e Fanfani. Non era temuto come loro dai dorotei e dai moderati, ma non era né Doroteo nè moderato.
De Mita aveva un senso del controllo del potere molto più realista di tutti noi della sinistra. Era l’unico, tra di noi, che potesse fare il segretario. Ma questo era anche il suo limite, perché quando ha avuto il potere ha ritenuto che il ruolo della sinistra interna non fosse così importante. Questa è una delle differenze da Moro… E quando giunse l’attacco moderato, non c’erano più gli anticorpi a difenderlo.
Che aveva cominciato come uomo di fiducia di Fanfani… E non è nemmeno casuale che nella DC, quando vanno in ombra Moro e Fanfani, emergano lui e De Mita. Tutto comincia con il patto di san Ginesio, che io e Galloni contrastammo…
Ricordava alla DC il bisogno fisiologico di rapporto con il suo retroterra sociale.
Con il preambolo, che mette insieme tutti i moderati. Che grande errore di Donat Cattin! Comincia la subordinazione a Craxi, una fuga dal nostro essere democratici cristiani. Il terrorismo ha ucciso Moro, il preambolo lo ha archiviato politicamente, riproponendo avventuristicamente la chiusura a sinistra e il sostegno al PSIi. Fu un fatto traumatico, la trasformazione di un partito come la DC in regime. Poi De Mita ha cercato di raddrizzare la situazione, ma la ferita prodotta era troppo profonda…
Non contesto il fatto che bisogna chiudere un’esperienza, ma mi fa tremare, ad esempio, l’idea di una DC come quella che vorrebbe Buttiglione, più vicina ai Comitati civici che a Moro. Se poi si fa tutto questo per i collegi elettorali … Bé, ricordiamo che De Gasperi scese direttamente in campo per impedire l’operazione Sturzo a Roma… E ora qualcuno vorrebbe far fare al Partito popolare quello che la DC più di quarant’anni fa si rifiutò di fare?
Mah… Quello dei neocentristi è un atteggiamento irresponsabile, perché
non si rompe un partito per alleanze di convenienze. Ma non è rassicurante
neanche un certo continuiamo di Martinazzoli e persino della Bindi.
Il vizio di origine. Lo hanno sostenuto finora, per impedirgli di fare ciò che doveva fare. Dopo l’assemblea di luglio doveva rinnovare subito la DC, con una forte impronta democratica, evitando i convegnini di Ceppaloni e Lavarone. Speriamo che recuperi…
Io, in tutte le mie battaglie politiche ho sempre sostenuto Moro, tranne
in un’occasione: quando difese i servizi segreti all’epoca di De Lorenzo.
C’è, parallela alla nostra storia, una storia di poterei oscuri ignorati
che trovano agganci con la parte meno trasparente del partito. E ora la DC
paga anche per questo…
L’Unità
18 gennaio 1994
Il vicepresidente del Senato Luigi Granelli, più volte ministro e membro della direzione centrale DC, eletto al collegio di Vimercate (Milano), ha confermato che non si ricandida ed ha ringraziato “per la generosa e costante solidarietà avuta dal partito e dagli elettori per lunghi anni”. Lo ha detto nel corso di una riunione di dirigenti e militanti del collegio confermando l’intenzione di non ricandidarsi, come aveva annunciato al congresso provinciale della DC del luglio scorso. “Torno nei ranghi – ha poi aggiunto Granelli, uno dei leader storici della DC – e resto al servizio del partito, sempre che rimanga in campo un partito popolare e riformista che tenga rigidi, come ha fatto la DC nei passaggi cruciali, i suoi confini a destra e mi consenta non solo di morire ma di vivere, nelle idee e nell’azione, da democratico cristiano come hanno potuti fare, ai tempi di Sturzo, Francesco Luigi Ferrari, Donati e tanti altri”.
“In caso contrario – ha concluso Granelli – non sono da escludere iniziative culturali ed anche politiche con altri amici, dentro o fuori il partito, per salvare la memoria storica ed i valori posti alla base delle migliori tradizioni della DC, che non vanno dispersi proprio perché non siano confusi con le omissioni e i tradimenti di quanti sono responsabili dell’involuzione politica e del degrado morale degli ultimi anni”.
15 gennaio 1994