Chi nei giorni scorsi ha sentenziato, probabilmente sulla base di confidenze da pianerottolo, che in caso di accoglimento delle proposte avanzate da Zaccagnini al congresso della DC, Craxi avrebbe immediatamente aperto la crisi dovrebbe, quantomeno, ricredersi. La crisi di governo è davanti a noi e le furbesche previsioni appaiono rovesciate. C’è in questo infortunio un male antico della politica italiana: quello di distinguere, in funzione di spregiudicate manovre tattiche, gli atteggiamenti ufficiali dei partiti da quelli ufficiosi, sotterranei, interpersonali.
Sin dalla vigilia del congresso della DC, il PSI aveva, in verità, dichiarato esaurita la tregua nei confronti del governo Cossiga ed il tentativo di far credere che si trattava di una mossa tattica, quasi priva di conseguenze pratiche, non ha certo aiutato né il partito socialista, né la sua attuale “leadership”. Ora la crisi di governo è aperta e va affondata, tenendo conto della drammatica situazione del paese, con spirito di verità e senso di responsabilità.
Quanto accade non può essere attribuito alla logica di un destino cinico e baro. Se il congresso della DC avesse avuto un esito diverso, in rapporto ad una coraggiosa sintesi politica proiettata in avanti e non ad un mediocre computo di voti, la crisi di governo ci sarebbe stata ugualmente ma – almeno – con l’abbattimento della pregiudiziale verso il PCI la trattativa alla luce del sole si sarebbe avviata, nessun partito costituzionale avrebbe potuto sottrarsi ad un impegnativo e stringente confronto, e l’opinione pubblica sarebbe in grado di valutare, al di là del balletto delle formule, le responsabilità di ciascuno.
Ora invece tutto avviene al buio e nell’incertezza assoluta. Né muta la difficile realtà la maliziosa e risibile interpretazione del presidente Fanfani nella sua intervista alla Repubblica, tendente a ridurre le proposte di Zaccagnini, condivise da Andreotti, ad un machiavello per porre in crisi la ripresa di politica di solidarietà nazionale auspicata al solo scopo di scaricare sul PCI il suo inevitabile fallimento.
Il confronto sarebbe stato difficile per tutti, dal momento che non vi era l’esclusione a priori di una ripresa della politica di solidarietà nazionale – sulla base di precisi contenuti – a livello parlamentare e di governo, ma la presenza di difficoltà obiettive, seriamente morivate, avrebbe imposto a tutti il dovere di ricercare soluzioni graduali, dotate di una certa stabilità, per salvare la continuità della legislatura, fronteggiare con maggiore solidarietà i drammatici problemi del paese, continuare costruttivamente un’opera di chiarificazione tra i partiti costituzionali.
Ma è inutile indugiare sui se. In attesa di valutare gli sviluppi di una situazione quanto mai incerta e confusa, meritano attenzione alcune valutazioni, di cui si è fatto intelligente e perentorio interprete, su La Repubblica del 20 marzo, Gianni Baget Bozzo. Abbandonando l’eccezionale atteggiamento di obiettività, di cui ha dato prova nei lucidi commenti alle posizioni di Aldo Moro contenuti nel volume “L’intelligenza e gli avvenimenti”, Baget Bozzo sentenzia, anche in rapporto alle conclusioni del recente congresso, che la DC ha praticamente esaurito la sua funzione.
La DC, in altri termini, è finita e al massimo sopravvive a se stessa. La maggioranza non ha altro destino che quello di dissolversi in un blocco laico moderato che, nella impossibilità di una qualsiasi collaborazione con i partiti della sinistra, non può che ricorrere (non si comprende con quali convergenze parlamentari) ad una riforma maggioritaria della legge elettorale; la minoranza, consistente ed autorevole per generale riconoscimento. Non può che abbandonare il campo o vivere di sogni perché,con la morte di Moro e la scomparsa di Paolo VI, non può più avere spazio d’iniziativa e d’influenza.
Siamo dunque alla fine della DC? Ci spiace per Baget Bozzo ma la profezia, per quanto intelligentemente motivata, ha l’aria del desiderio che supera la realtà. La prova del nove consiste nel fatto che il suo suggerimento alternativo, quello che invita i partiti della sinistra a contrapporsi frontalmente alla DC, non sembra avere molta udienza tra gli interessati. La dialettica in corso nella DC, conforme alla natura democratica del partito, è un segno di vitalità e non di decadenza. I partiti della sinistra non possono ignorare questa realtà nel prendere le loro decisioni.
Non è vero che è in atto un mediocre gioco delle parti nella DC. Strategie profondamente diverse, anche se entrambe riconducibili alla funzione ideale e storica di equilibrio e di avanzamento progressivo di un partito popolare quale è al DC, si fronteggiano democraticamente – senza venir meno ai doveri di una comune milizia politica – per affrontare e risolvere in un quadro di collaborazione più o meno ampia con gli altri partiti costituzionali i gravi e non rinviabili problemi del paese.
È la sinistra nelle condizioni di rigettarle nel loro insieme? Può la sinistra giocare la carta di un’alternativa parlamentare e di governo prima di un catastrofico e destabilizzante ricorso anticipato alle urne? È animata, la sinistra, da una strategia comune o non è in atto, imposta dalle cose, un’iniziativa differenziata anche se di breve periodo tra il PCI ed il PSI?
Anche a queste domande dovrebbe cercare di rispondere Baget Bozzo. Il pentapartito, o qualcosa di simile, è un’indicazione che – prescindere dalla ormai ridimensionata questione della guida del governo – richiede ai suoi sostenitori nei vari partiti l’onere della verifica di attuabilità. Se tratterebbe, come abbiamo sempre sostenuto, di un ripiegamento più neo-centrista, lontano dalla domanda sociale e politica che sorge dal paese, ma nessun critico potrebbe negarne il significato democratico di pur parziale stabilizzazione in senso moderato. Anche chi si propone di preparare un futuro diverso, in linea con la “terza fase” della democrazia italiana intuita da Aldo Moro, è pronto a riconoscere, pur non condividendolo, questo parziale significato.
Ma se questa via non è percorribile, è chiaro che ogni soluzione transitoria, per quanto precaria e limitata nel tempo, si collocherebbe nella prospettiva di una futura ripresa di una politica di solidarietà nazionale che per sua natura coinvolge, come termine di riferimento, un diverso e più stringente rapporto con il PCI. Per quale ragione, in quest’ipotesi, dovrebbe essere considerata fuori gioco, nonostante il vuoto lasciato da Moro, quella parte considerevole della DC che suggerisce a tutto il partito, senza intenti frazionistici, un cambiamento di linea o meglio un ritorno alle indicazioni di Zaccagnini?
Certo è che la politica impone, con il rigore delle sue scelte, un profondo rimescolamento interno ai partiti a seconda della strada che si riesca ad imboccare. I “leaders” e le maggioranze valide per tutte le stagioni sono ormai un lusso non più ammissibile. Quello che, per una visione miope ed affrettata, non è ancora avvenuto nella DC può ancora avvenire.
Questa realtà, resa ancor più evidente dall’emergenza in cui il paese si trova immerso, è avvertita anche dai partiti della sinistra. Basta questa constatazione per suggerire anche ad un acuto osservatore delle cose politiche come Baget Bozzo una maggiore prudenza nel decretare una fine della DC che, fino a prova contraria, rimane tutta da dimostrare.
22 marzo 1980
Luigi Granelli