Anche Pietro Scoppola sulla Repubblica del 7 gennaio, ha prestato le sue intelligenti argomentazioni alla poco utile polemica sul “polo laico”. Ho letto con attenzione, ma non mi ha convinto. Comprendo meglio, anche se dissento, le tesi del professor Sartori che ricerca da tempo, con l’esaltazione del “bipolarismo”, una normalizzazione moderata del sistema politico italiano.
Non ignoro la diversità delle intenzioni di Scoppola. Il suo richiamo alla pluralità delle culture è saggio e condivisibile. Se una cultura intesa in senso proprio non è mai identificabile con un partito o con una opzione politica, è sciocco pretendere di fare il censimento di ciò che è vivo e di ciò che è morto partendo da un giudizio contingente. Lo stesso De Mita, per intelligenza e formazione, non ignora tutto questo nella sua polemica nei confronti del “terzaforzismo” laico.
La laicità, in politica, non è monopolio di alcuno ed è un influsso salutare contro confessionalismi e dogmatismi ideologici. Bisogna però riconoscere che le forze politiche minori e tra loro diverse, dal liberalismo al socialismo, svolgono una funzione vitale per la democrazia italiana e non sono riducibili, se non con forzature arbitrarie, ad un generico “polo laico”. Esse esistono e sono portatrici, singolarmente, di una specificità culturale e politica che non si può annullare con polemiche di schieramento.
In effetti è la teoria dei “poli” che, politicamente parlando, ha una natura perversa e può portare ad effetti molto gravi. Scoppola sembra confidare molto sulla evoluzione del sistema politico italiano verso il “bipolarismo”. Per “polo” si intende, generalmente, un punto contrapposto ad un altro in grado di esercitare una irresistibile attrazione su quanto vi è di intermedio, ad esempio, in un campo magnetico o in un sistema planetario. Chi non ha forza di attrazione non può illudersi di vivere una vita propria.
Trasferita in politica questa teoria significa: più che “essere” in base ad una filosofia, ad un programma, ad una tradizione culturale e storica, a concezioni proprie, le forze democratiche intermedie tra la DC ed il PCI dovrebbero scegliere l’orbita entro cui gravitare al servizio dell’uno o dell’altro “polo”. Come negare il diritto di esistere al “terzo polo” se si difende l’utilità dei primi due? Perché, risponde taluno, è inesistente ed inconcepibile un “polo” che, rispetto agli altri due più consistenti, non sia in grado di esercitare una attrazione decisiva.
Il linguaggio è suggestivo, conforme ai canoni dei mass media e della politica-spettacolo, ma il fine non è nuovo ed è ancora quello di sostituire i partiti con blocchi elettorali, politici, di potere, che abbiamo cominciato a combattere ai tempi di Dossetti. La DC, salvo qualche sbandamento, si è sempre considerata partito fra i partiti ed ha costantemente rifiutato, con De Gasperi e Moro, blocchi e fronti per loro natura eterogenei e tendenti, al pari dei più moderni e flessibili “poli”, a radicalizzare la lotta politica in uno scontro tra “guelfi” e “ghibellini” o in forme simili.
Scoppola condivide certamente queste preoccupazioni. Per questo invita a non confondere il “bipolarismo” con il “bipartismo”. Nel primo si salva, con coalizioni di necessità, il pluralismo politico. Il secondo, oltretutto è precluso dal sistema proporzionale che i sostenitori più conseguenti dell’alternativa vogliono non a caso cambiare. La distinzione è sottile e poco convincente. Il valore della coalizione, in una democrazia pluralista, sta nella libera scelta delle alleanze e non nella loro ineluttabilità. Ma tutto è cambiato, osserva Scoppola, da quando De Mita ?????????????????????????????? possibile alternativa”.
Ciò restituirebbe a tutti i partiti maggiore libertà di scelta. Ma in realtà non tocca ad un partito legittimare altri partiti ad assumere una funzione di governo. È la Costituzione a stabilire dal 1947 che chi dispone del consenso necessario, o contribuisce a formare condizioni maggioritarie in Parlamento, può esercitare tale potere. È vero invece che oggi la “conventio ad excludendum” verso il PCI vale sempre meno. Questo steccato è caduto largamente in sede locale dove i partiti intermedi laici e socialisti collaborano con il PCI contro la DC. Moro prima, con la “strategia dell’attenzione”, e Zaccagnini poi (ignorato certo per dimenticanza nell’elenco di Scoppola), con le proposte fatte al congresso che lo ha visto uscire dalla scena con grande stile, hanno aperto la via ad un confronto in pari dignità, con possibilità di antagonismo e di collaborazione, tra tutti i partiti costituzionali. Ma è qui che il ragionamento dell’autorevole leader della lega democratica non regge.
Perché, una volta caduta la “conventio ad excludendum”, la DC e d il PCI dovrebbero scartare ora e sempre, quasi si trattasse di un principio immodificabile, ogni intesa anche limitata di governo e le forze intermedie, assommate arbitrariamente nel “polo laico”, vanno sollecitate a decidere di “far pendere la bilancia da una parte o dall’altra” come se si trattasse della stessa cosa? Le diversità ideali valgono per tutti. Gli ostacoli politici possono restare permanenti, ma – nel tempo storico – possono anche modificarsi profondamente.
Come si fa a sostenere, se non altro in sede teorica, che i partiti intermedi possono dar vita a coalizioni con un PCI determinante, senza rischi per la democrazia, mentre la DC deve escludere a priori una sua scelta per ogni ipotesi del genere? Che senso ha, infine, immaginare, solo come ritorsione all’eventuale pendolarismo dei partiti intermedi, intese in periferia tra la DC ed il PCI contro laici e socialisti, sia pure come “ipotesi avvolte nella nebbia del futuro”? Le contraddizioni abbondano perché è pericoloso fantasticare sul futuro quando nel presente la realtà sfugge di mano ed il vuoto politico rende impossibile persino una fisiologica fase di transizione.
La “terza fase” intuita da Moro, come passaggio difficile ed inevitabile, è stata accantonata troppo in fretta da tutti e non c’è da stupirsi se la crisi in cui siamo immersi appare sempre più grave e senza via d’uscita. I partiti di massa, se vogliono vedere rispettato il loro ruolo devono ricercare libere convergenze su programmi e strategie di respiro più che imporre diktat. Le forze intermedie, a loro volta, devono meglio comprendere ed apprezzare l’apporto qualitativo, oltre che quantitativo, dei partiti al argo seguito popolare. Nessun “polo”, quindi, è autosufficiente e il rischio è di alterare per questa via il nostro sistema fondato sui partiti. Per dominare una gravissima crisi economica, moralizzare la vita pubblica, raccogliere le sfide della società post-industriale, bisogna dunque tornare ad un confronto costruttivo e senza esclusioni pregiudiziali tra tutti i partiti costituzionali. Anche la preparazione dei tempi dell’alternativa, sec non vuole essere un espediente per chiamarsi fuori dalle responsabilità del presente, passa per la difficile inesplorata via di un permanente confronto.
Scoppola, che è uno storico serio, sa che nel passaggio dal centrismo al centro-sinistra, che ha visto il PLI all’opposizione e gli altri partiti intermedi al governo (tutti laici), in una concezione “bipolare” della lotta politica avrebbe impedito a Moro, a Nenni, e ad altri leader di fare, per un fecondo tratto di strada, quell’importante incontro con i socialisti che non riuscì né a Giolitti, né a De Gasperi, nonostante i, loro proposito di allargare il più possibile la base popolare dello Stato democratico. La storia non si ripete
La Repubblica
16-17 gennaio 1983
Luigi Granelli