CONVEGNO DI SAN FELICE DEL BENACO

Vorrei innanzitutto liberare il prof. Calvi dall'onere di troppe risposte che non gli competono. Infatti noi non dobbiamo domandare a un sociologo qualcosa di più e di diverso da quello che la sua indagine lo ha portato a concludere: è un tentativo di analisi abbastanza inconsueto per il nostro ambiente, di cui dobbiamo recepire anche 1'aspetto di sfida, di provocazione. Possiamo essere d'accordo con Enrico De Mita nell'osservare che le metodologie e le analisi di tipo anglosassone mal si adattano alle più complesse realtà europee ed in particolare a quella italiana, ancora più diversificata, ma indubbi motivi di riflessione derivano certamente dalla puntuale analisi del prof. Calvi.

Intanto io personalmente ho una grande allergia a ridurre il dibattito politico a slogans (ad esempio: pentapartito sì, pentapartito no, chi va o non a Palazzo Chigi, come facciamo le giunte, come sono gli organigrammi) perché mi sembra che si stia perdendo il contatto con la realtà del paese, coi suoi problemi, a volte di crescita, a volte di drammatica emarginazione.

Nella descrizione analitica della società italiana fatta da Calvi vi è, a mio avviso, un atto di accusa molto forte rispetto al governo degli ultimi vent'anni, nel quale la DC ha avuto una parte rilevante. Perché è vero che siamo in presenza del più importante processo di accumulazione di ricchezza e di distribuzione di opportunità avvenuto nella società italiana nel corso della sua storia moderna, ma è anche vero the i cittadini the hanno l'automobile, il televisore a colori, la seconda casa, lo stile capitalistico del consumo, sono gli stessi cittadini che si lamentano perché gli ospedali non funzionano, la scuola è superata, mancano i fondi per la ricerca scientifica, lo stato è lontano -immobile e burocratizzato - ed anche il potere locale è spesso indifferente rispetto ai problemi dei cittadini.

Gli ultimi vent'anni sono stati caratterizzati dalla presenza egemonica di un grande partito ad ispirazione cristiana, ma il metro di misura del successo di un partito come il nostro non dovrebbe essere la dimensione quantitativa della ricchezza prodotta e il livello dei consumi individuali opulenti, ma l'utilizzo della ricchezza anche a fini di maggior equilibrio sociale, di più elevata efficienza dei servizi, di una più consapevole soddisfazione dei bisogni collettivi.

Quindi non carichiamo il prof. Calvi di domande e di risposte che non gli competono, ma cominciamo ad avviare una riflessione autocritica sulla nostra esperienza, e sul fatto che le istituzioni, il governo dell'economia, hanno perlomeno mancato come ha ricordato lo stesso Calvi alla fine di quella finalizzazione di ingegneria sociale, che io preferisco chiamare di strategia politica, che avrebbe potuto rendere il paese meno opulento all'apparenza, ma forse meno effimero e più equo nell'utilizzo delle sue potenzialità. E questa è stata una carenza di guida politica, una carenza di scelte strategiche, l'aver troppo presto dimenticato o messo da parte le indicazioni dei Dossetti, dei La Pira, di Vanoni, soprattutto di Vanoni che in modo assai lucido anche dal punto di vista tecnico aveva collegato l'accumu­lazione e lo sviluppo del reddito al superamento degli squilibri strutturali e alla trasformazione della società.

Accanto agli errori del passato dobbiamo ora fronteggiare gli errori del presente. La spinta all'individualismo, alla soluzione del particolare, insieme alla richiesta allo stato di sempre più ampi servizi, è ormai talmente aumenta­ta che nel prossimo 1986 il debito pubblico sarà in Italia uguale o addirittura superiore al reddito nazionale.

Ciò significa che gran parte dei consumi degli italiani non provengono da un reddito derivante dalla produzione, ma da un reddito derivante dal paga­mento degli interessi sui titoli pubblici. Se non si produce una inversione di tendenza un tale meccanismo finirà per avvitarsi su se stesso, a divenire ingovernabile. Senza un severo governo dell'economia, coerente nei fini e negli strumenti, non è possibile dare credibilità ad una rinnovata politica di austerità.

Io credo che quanti di noi hanno seguito con attenzione l'andamento del nostro convegno possono ritenersi soddisfatti almeno in rapporto alle ambizioni, certamente non conclusive, perché in politica non c'è mai nulla di conclusivo, che avevamo posto alla base di una organizzazione piuttosto nuova dei nostri tradizionali incontri. Tutti dobbiamo fare uno sforzo per concludere con grande serenità, con amicizia, con franchezza un discorso ed un confronto di idee, non certamente facile.

È una illusione quella di immaginare che all'interno di un gruppo pensante come il nostro, quando nel paese ci sono grandi difficoltà e grandi problemi, tutto possa filare liscio come l’olio. Bisogna avere rispetto reciproco anche della diversità di valutazione ed essere consapevoli che la validità, il signifi­cato, di un confronto ideale effettivo sta proprio nel giungere alla fine scoprendo altri problemi ed altre necessità di approfondimento. Dobbiamo fare questo sforzo badando più alla sostanza che alle procedure anche se vi sono state delle sorprese nella giornata odierna. Abbiamo constatato, per esempio, che talune redazioni milanesi di qualche giornale hanno trasforma­to il nostro convegno in teleconferenza perché hanno consentito la presenza di Donat Cattin, cosa che fisicamente tutti hanno potuto constatare non essere vera. Oppure qualcuno, come capita spesso, pure esprimendo chiara­mente le proprie opinioni, perché io non ho mai bisogno di ritrattare, quello che dico in pubblico dico in privato, vedersi in qualche misura forzato (o enfatizzato) per interessi che sono di altri. Anche questa non è una novità nella vita italiana, ma non dobbiamo perdere il controllo dei nervi per queste cose e dobbiamo invece cercare di riflettere a fondo sui problemi che stanno davanti a noi e non aver mai paura delle idee anche quando introducono degli elementi di obiettiva difficoltà tra le persone.

Io mi rivolgo più agli amici della mia generazione, perché fortunatamente anche nelle correnti le generazioni cambiano, mi rivolgo a molti della mia generazione per ricordare che anche tra l'Albertino Marcora re il sottoscritto, pur essendoci più di trent'anni di amicizia fraterna che ha resistito a molte cose, ci sono stati momenti di dissenso politico: ricordo il tempo di San Genesio, tanto per avere un riferimento. Nessuno di noi è mai arrivato a richiami formali nei congressi, quasi che ci fosse qualcuno che può richiama­re all'ordine quando le idee non sono uguali, perché avevamo anche il rispetto del dovere verso tutti gli amici di non spingere mai il nostro dissenso al di là della sua legittima espressione e senza ricercare una supremazia che sarebbe stata un controsenso. Un gruppo come il nostro se ha avuto e può avere ancora carisma lo deve avere in senso collegiale, senza gerarchie precostituite: chi ha più filo più tesse tela e tutti possiamo contribuire a dare al partito un patrimonio di idee che noi vediamo in questo momento piuttosto povero. Quindi vorrei dire che, al di là delle procedure che abbiamo giustamente adottato per togliere ogni ombra fra di noi, a nessuno spetta l'ultima parola; almeno io per me non la chiedo, non l'ho mai chiesta, sarebbe la fine del confronto democratico. Ad ognuno di noi è dato il diritto-dovere di spiegarsi meglio, di capire, di correggere, di esprimere dissensi, ma non c'è nessuno, ed io sono l'ultimo, che può arrogarsi la pretesa di una autorità definitiva su diversità di opinioni che si creano in un gruppo libero come il nostro. Questo è il valore più importante della nostra esperienza ormai trentennale, e io lo raccomanderei vivamente anche alle nuove generazioni perché c'è bisogno di tolleranza, di comprensione e c'è qualche volta bisogno di qualcuno che lanci dei sassi in avanti anche se non è molto facile e non è molto popolare. Spesso è più facile attestarsi sulle posizioni mediane e non correre dei rischi, ma senza questo combinato disposto di saggezza, di coraggio, di intraprendenza, anche di errori, un gruppo non cresce e alla lunga rischia di fermarsi e di impigrirsi. Ebbene se tenete conto di questo elemento che è più di comportamento, nel rispetto poi dei ricchi apporti che un gruppo come il nostro può dare, comprenderete anche perché io chiedo scusa ad Enrico De Mita di aver prima forse troppo schematizzato, ma adesso spiego un po' meglio perché abbiamo, non a caso, deciso di organizzare questo convegno nel modo col quale lo abbiamo organizzato. E l'onorevole Bianchi lo sa, perché ne abbiamo discusso a lungo; anche altri amici che hanno partecipato alla riunione di via Mercato per prepararlo, lo sanno.

II convegno che noi abbiamo voluto realizzare voleva essere un convegno di tipo nuovo, dove finalmente si apriva la possibilità ad un numero sempre più ampio di persone di essere protagoniste nella costruzione di una linea complessiva del gruppo. Per questo io stesso ho voluto, ho richiesto di non essere, come al solito, quello che apriva il dibattito con una sua relazione e poi lo concludeva alla fine della discussione, anzi ho chiesto che ad amici preparati e responsabili come Dittrich, come Enrico De Mita, e domani mi auguro come altri, venisse affidato il compito di introdurre una discussione libera, perché questo è sempre stato il nostro costume. E quando si è fatto l'elenco dei partecipanti, anche con quelli che poi non sono venuti, come Rognoni, o come Bodrato che è venuto e ci ha dato un utile contributo ieri sera nonostante la poca gente che c'era, io ho detto di proposito, faccio l'ultimo intervento; ma le conclusioni, almeno per me, non possono essere un passivo riassunto di quello che è stato detto perché questo è mestiere da notai, che in tutta la vita io non sono stato capace di esercitare; forse le mie fortune personali sarebbero state migliori se avessi fatto il notaio ma non ne ho il temperamento, nè pensavo, mettendo a conclusione il mio intervento, di arrogarmi una pretesa di dire la parola definitiva su tutto. Il capo carismatico nella nostra storia c'è stato ed è uno solo, ed è irripetibile: era l'Albertino.

Lui sì voleva mettere la parola fine a tutto e chi era in dissenso doveva anche avere minori riconoscimenti di quelli che invece sono possibili da quando abbiamo instaurato al nostro interno la Repubblica di tipo democratico.

Scegliendo di fare 1'ultimo intervento non è che io avessi scelto la via comoda del notabile, di chi getta la spugna o passa il testimone, no, io volevo dare il mio contributo ritenendo che questo rimarrà, per la natura delle cose che abbiamo discusso, un convegno aperto: che il dibattito continuerà anche nel futuro.

Se fossimo in grado di chiuderlo oggi, vorrebbe dire che abbiamo raggiunto una maturità tale che non mi pare corrispondere alla realtà delle cose; del resto Enrico De Mita nella sua relazione ieri ha detto molto giustamente, ricordando le tante comuni battaglie fatte con Stato Democratico, che ci son voluti anni per aprire la via ad un processo faticoso come quello del centrosinistra, vi sono stati dissensi e diversità di valutazioni. Anche oggi quello che conta è che noi abbiamo ricominciato a discutere, abbiamo ricominciato a pensare, abbiamo ricominciato ad interrogarci sul futuro che non si presenta facile.

Invidio il mio amico Tabacci che nel contesto di questo convegno, forse perché l'ha scambiato per una manifestazione ufficiale, è venuto a fare un discorso di assolute certezze che mi è sembrato un po' sfasato rispetto all'abitudine, che noi abbiamo, di usare queste occasioni non per scambiarci ordini o complimenti, ma per vedere di riflettere insieme.

Quindi il nostro significato, il messaggio che io vorrei lasciare, il ringrazia­mento che io faccio formalmente all'onorevole Bianchi, perché ha organiz­zato egregiamente questo incontro con uno spirito diverso dai convegni che facevamo precedentemente, è che il convegno possa continuare se noi vogliamo riprendere una funzione, e in questo cari amici noi siamo tra quelli che hanno preso sul serio le conclusioni di Chianciano.

A Chianciano, diciamolo onestamente, c'è stato complessivamente un livel­lo di dibattito più basso di quello che abbiamo avuto qui a S. Felice, almeno dal punto di vista dei contenuti e delle problematiche che abbiamo affronta­to; abbiamo perso quasi due giorni per dire che non dovevamo scioglierci, come se noi fossimo un gruppo come tanti altri che non aveva più niente da dire, e abbiamo impiegato un giorno per dire che forse era meglio di no e che la sinistra era importante nel partito, e doveva continuare la sua battaglia.

Io mi sono definito partigiano della sinistra. Qualcuno mi chiama il Lombardi della Democrazia Cristiana, credendo forse di farmi un'offesa, ma non mi fa un'offesa perché anche se dovessi un giorno restare solitario nella Democra­zia Cristiana a difendere certe posizioni, lo farei perché credo più alla mia coscienza che non agli atteggiamenti opportunistici. Ma impiegare tre giorni per dire se dobbiamo scioglierci o se dobbiamo sopravvivere è veramente un risultato modesto rispetto a quello che abbiamo di fronte.

E noi invece abbiamo voluto questo convegno per dire: noi siamo consape­voli che una sinistra della Democrazia Cristiana deve esserci; lo stesso Ciriaco De Mita a Chianciano ci ha esortato non a chiuderci come gruppo che avanza pretese di potere, ma a riprendere la funzione di stimolo e di approfondimento ideale della quale il segretario del partito, che deve farsi carico di tutta la Democrazia Cristiana, ha assolutamente bisogno. E da Chianciano abbiamo portato due conclusioni principali: il sostegno leale alla segreteria del partito per quello che aveva acquisito in questi anni, (i risultati sono davanti a tutti) e il diritto a non concepire questo sostegno come servilismo, conformismo che ci porti alla rinuncia di dire chiaramente quello che pensiamo, anche in ordine alle cose che il segretario del partito non può dire. Ricordate che noi facevamo questo anche con Aldo Moro. Quindi, a livello locale, e non solo in vista di un processo che ci porterà al congresso nazionale del partito, ma anche in presenza delle nostre responsabilità noi abbiamo il dovere di non trovarci sempre al muro del pianto. In questi tempi infatti abbiamo acquisito delle posizioni di grande importanza nella vita del partito con il segretario provinciale, il segretario regionale, i ministri, i parlamentari, il presidente e il capo gruppo alla Regione.

È segno che anche la previsione che qualche nostro malevolo amico aveva fatto che con la morte di Albertino tutto si sarebbe squagliato, non si è realizzata e noi siamo qui e credo che nessuno più di Albertino sia contento che noi continuiamo la battaglia anche con il nostro travaglio e con le nostre difficoltà. Quindi, sia per il congresso, sia per le crescenti responsabilità che abbiamo in provincia, a Milano, nella Regione, dobbiamo riprendere la funzione della sinistra della Democrazia Cristiana.

Dico esplicitamente della "sinistra" e concordo con Ballarin che ha fatto bene a ricordare, in un passaggio del suo intervento, che ormai ci siamo abituati a considerarci un po' tutto, non a definirci per quello che dobbiamo essere. Noi non siamo mai stati una sinistra populista, una sinistra faziosa; il merito della Base, ed è un merito storico, che non appartiene a nessuna persona ma a tutti noi insieme, è stato sempre quello di considerare la sinistra come la forza che anticipa quello che un giorno tutto il partito deve fare, cioè che si rivolge a tutto il partito, che non ha rivendicazioni settoriali da avanzare, ma vuol servire il partito battendo per prima le strade che il partito non si sente di percorrere e che poi successivamente condivide. Ed è così che si costruisce quel carisma collettivo, quella chiarezza che come diceva Pirola consente poi di andare nelle sezioni a sostenere più che delle persone o degli organigrammi, delle linee, delle speranze, delle attese, dei contrasti anche con chi la pensa diversamente, che è poi il primato della politica rispetto alla burocrazia e alla routine del potere. Quindi noi abbiamo voluto metterci nelle condizioni di riprendere, dopo tanto immobilismo, a ricaricare la sinistra democristiana, cominciando da quella milanese, per discutere a fondo sui problemi politici che stanno davanti a noi. E noi sappiamo bene che davanti a noi non c'è una strada facile.

Io vorrei invitare gli amici che forse pensano che col pentapartito ormai abbiamo risolto per l'eternità i problemi italiani a ricordare che la politica è una cosa molto più complessa; la politica italiana ha via via logorato e distrutto i disegni dì Cavour, di Giolitti, di De Gasperi, di Moro, non penso che Craxi col pentapartito abbia una forza tale da ritenersi non solo inamovi­bile, ma addirittura una soluzione definitiva dei problemi della Democrazia Cristiana. E attenti a far coincidere la Democrazia Cristiana, che oltre tutto non ha responsabilità di guida di questo governo, con una formula di questo tipo, che potrebbe addirittura portare ad ottundere la funzione storica, nazionale, popolare di un grande partito come il nostro. Dobbiamo aver coscienza delle difficoltà, che sono grandissime a livello nazionale, nell'eco­nomia, nella politica, nelle istituzioni, e a livello locale, perché non basta essere tornati a Palazzo Marino, anche perché gli umori socialisti sono molto variabili e basterebbe una novità di carattere nazionale per cambiare lo scenario anche a livello locale. Io invidio quelli che hanno solo certezze e sono al contrario molto preoccupato della situazione. D'altronde vi sono fatti nuovi che noi abbiamo trascurato in questo convegno ed io mi prenoto umilmente per un altro convegno, per un'altra relazione, per esempio sulle rilevanti novità della politica estera. Quello che è successo a Ginevra non può essere trascurato anche ai fini della situazione nazionale che ha sempre avuto nei riferimenti internazionali dei legami molto stretti.

In primo luogo per quanto vi è di positivo nel dialogo, che ci trova sensibili, e come democratici e come cristiani. Non dimentichiamo infatti tutto il magistero della Chiesa sul disarmo, sulla pace, sull'uso delle risorse econo­miche a fini di sviluppo. Tuttavia vi invito a leggere integralmente la dichiarazione finale di Ginevra, perché introduce un elemento di pericolosi­tà insieme alle speranze, che pure quell'incontro solleva. A un certo punto americani e sovietici dicono: dobbiamo unire i nostri sforzi per progredire nel campo della fusione nucleare a scopo pacifico. Mi permetto una digres­sione da ministro pro tempore per la ricerca scientifica: è noto che il primato nel campo della fusione termonucleare, in questo momento, è degli europei col progetto JET in Inghilterra; gli Stati Uniti sono al secondo posto, i giapponesi al terzo e i sovietici al quarto. I due grandi, incontrandosi a Ginevra, per decidere di ridurre le armi, hanno pensato di mettere insieme il secondo e il quarto degli interlocutori, nella fusione termonucleare, perché la vecchia idea che le due grandi potenze, quando si mettono d'accordo devono decidere di tutte le sorti del mondo, anche sulla testa dell'Europa, ritorna anche nei momenti in cui si aprono speranze per la pace. E questo sollecita l'intuizione degasperiana di guardare non soltanto all'Europa del burro, dei pomodori e del vino, ma di essere vigili anche come europei, oltre che come italiani, per non restare intrappolati nella padella dello scontro e del riarmo o nella brace dell'intesa bipolare del mondo che sacrifica l'auto­nomia e l'indipendenza dei vari paesi, ivi compreso l'Europa, anche quando ha raggiunto posizioni di primato nel campo della ricerca scientifica e tecnologica di grande applicazione.

Nel nostro convegno invece abbiamo cercato di alzare il tiro (abbiamo usato questa espressione quando organizzavamo il convegno: alzare il tiro), perché siamo un po' stufi di dividerci su pentapartito sì, pentapartito no, elezioni, non elezioni, organigrammi, assessorati, distribuzione del potere, e via di questo genere. Vogliamo riportare un po' alla fonte la ragione del nostro confronto politico interno, e la capacità di offrire a tutto il partito un ruolo di stimolo, coraggioso, anche impopolare su temi che non possiamo ignorare.

E io devo dare atto alla introduzione dell'onorevole Bianchi che ha colto esattamente il significato del convegno come anche alla serata con il prof. Calvi, ma soprattutto alle due importanti relazioni di Dittrich e di Enrico De Mita.

Dispiace anche a me che Dittrich non sia qui presente. Un'altra delle cose che dovremo cominciare a cambiare sul piano del costume è che si può anche non venire ai convegni, ma ne facciamo così pochi che sarebbe meglio stare tutti insieme dall'inizio alla fine a ascoltarci, anche perché ormai è scarsa l'abitudine ad ascoltare gli altri.

Abbiamo voluto la relazione di Dittrich perché riteniamo importante in questo momento, anche al fine di fronteggiare le difficoltà che sono davanti a noi, rilanciare l'identità e la funzione del partito, perché il partito di cattolici democratici in Italia viene prima della formula di governo, può esercitarsi, come ha dimostrato Sturzo, all'opposizione, o può essere al governo, ma l'elemento da salvare è la funzione di un grande partito di popolo con radici molto profonde nella realtà complessiva della società italiana. Senza queste radici vi è il rischio del pragmatismo, del giustificare tutto, del fare domani con disinvoltura quello che si nega oggi senza nessuna giustificazione pratica, come abbiamo visto anche nel caso del centrosini­stra.

Devo dire a qualche giovane amico che guardando all'orizzonte non vede nessuna cosa nuova e conclude che non c'è che il pentapartito, che noi ai tempi del centrismo l'abbiamo sentita ripetere molto frequentemente questa litania, che conveniva stare sul centrismo perché non c'era altro da fare. Se non avessimo rischiato allora per creare le condizioni di un'evoluzione della vita italiana, che è durata più di un decennio, oggi avremmo privato del piacere tanti nostri conservatori che sono diventati talmente filo-socialisti da essere in prima fila nel cedere comunque, e per paura del peggio, a Craxi la direzione del governo della repubblica, nonostante il nostro partito abbia un consenso di maggioranza relativa. Anche allora si diceva: si vuole il centro-sinistra, ma non c'è! La politica che guarda solo alle cose che ci sono e non si propone di costruire, se sono giuste, anche quelle che non ci sono, è una politica che rinuncia in partenza ad una spinta evolutiva, che vive di solo immobilismo. Allora io ritengo, potrei sbagliare, che è preliminare a qual­siasi discorso di schieramento, di alleanza, di ipotesi di collocazione della Democrazia Cristiana al governo e all'opposizione il ritrovare noi stessi, l'avere delle opinioni profonde, radicate, sentirci in politica per qualcosa di nobile e non per qualcosa di deteriore o di passeggero.

Dittrich da questo punto di vista ha fatto una bellissima relazione, tra l'altro introducendo anche un giusto criterio di informazione obiettiva, utile ed esemplare. Certo anche sui documenti è possibile discutere. Credo che Cantù ieri abbia forzato un po', ma sono d'accordo con lui quando osserva che Dittrich ha dato un'impostazione così razionale, limpida, lucida, onesta intellettualmente che impedisce di teorizzare che esista un rapporto tra distinti quando si parla di DC e di mondo cattolico. Il mondo cattolico siamo tutti, non c'è un mondo cattolico contrapposto a qualche cattolico che, per il fatto di far politica, esce da questa realtà.

E noi, diciamolo almeno in questa occasione, siamo venuti alla politica non perché la politica per noi è tutto: noi abbiamo al fondo dei nostri convinci­menti una visione religiosa, morale e spirituale delle cose che è più impor­tante della stessa politica. Il giorno in cui mi si dicesse che la DC usa il riferimento cristiano soltanto perché questo serve ad attirare un po' di voti del mondo cattolico e non perché è l'elemento che permea in senso piena­mente laico e non laicista, come ha detto il Concilio, la nostra azione, io mi preoccuperei seriamente.

Al tempo di Dossetti noi abbiamo considerato come un grande freno allo sviluppo della politica, e della sua moralità, il ritardo net rinnovamento religioso ed ecclesiale della Chiesa cattolica e dei cattolici italiani nel loro insieme. Quando infatti la realtà cattolica è viva sotto il profilo religioso e spirituale, anche la spinta alla politica è salutare e non decade nella tentazio­ne del pragmatismo e dell'opportunità che esistono in ognuno di noi. Quindi mi sembra che qualche data dovrebbe essere corretta, perché non è dopo Loreto che noi abbiamo scoperto la laicità della politica, che non è separazione del nostro essere cristiani, ma è concezione di autonomia, che non è frattura col magistero della Chiesa, ma è assunzione a livello storico di responsabilità che devono essere dei credenti e non della Chiesa. Si tratta di un lavoro complessivo che la Base ha fatto per anni e che è entrato nel patrimonio del partito soprattutto per l'apporto che ne diede Moro dopo Sturzo. Tra Sturzo e Moro, infatti, nonostante De Gasperi, vi fu una grande parentesi di caduta di questa concezione originaria della funzione laica del partito. Noi - anche in polemica con Fanfani segretario del partito -­abbiamo sempre sostenuto che la Democrazia Cristiana non poteva essere confusa col clericalismo, che è l'uso strumentale della religione a fini terreni, e neppure con la Chiesa, il cui magistero non può essere utilizzato a fini di parte. II partito, per la natura stessa della politica, come diceva Sturzo, divide, sceglie, collabora con altri, fa cose che non vanno confuse con la religione, anche se la nostra azione è cristianamente ispirata.

Crespi, che ha fatto un bell'intervento, ha osservato una cosa per me molto curiosa, forse perché noi in tempi lontani ci siamo battuti, pagando qualche prezzo, anche personale, per difendere l'autonomia della politica dall'inter­vento della Chiesa come istituzione, non come magistero morale e spirituale che abbiamo sempre riconosciuto. Crespi dunque denuncia con qualche preoccupazione l'effetto opposto: il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella "Gaudium et spes", afferma che i laici sono responsabili della loro politica ma non devono dimenticare la loro ispirazione cristiana.

Coerentemente i vescovi ribadiscono con forza i principi e i valori cristiani. Si sono visti allora molti conservatori nella Democrazia Cristiana, che ci rimproveravano di non essere ossequienti nei confronti della Chiesa, riven­dicare con la laicità, ma addirittura il laicismo e l'indipendenza, perché gli da fastidio sentire i vescovi che parlano di disoccupati, di emarginati, di pace, di progresso, di giustizia. Con una Chiesa proiettata più in avanti nella difesa degli autentici valori cristiani, sono i conservatori a voler dare alla politica una dimensione addirittura laicista perché sentono ingombrante l'ispirazio­ne cristiana, mentre una tale ispirazione non è mai stata ingombrante per noi, che pure ci siamo battuti per la laicità della politica, anche se non affidiamo al Papa il compito di dire in che modo vanno ridotti gli armamenti e nemmeno affidiamo ai vescovi il compito di decidere il tasso di interesse sui titoli di stato.

Per quanto attiene al convegno di Loreto sarà poi interessante vedere ci che accadrà dopo. In effetti la cattolicità è una realtà complessa: ci sono anche cattolici che possono portarci di nuovo all'opera dei congressi, e politica­mente hanno la stessa legittimità nostra perché ognuno fa le sue scelte a livello storico-politico. Il capolavoro politico di Sturzo è stato quello di sciogliere il vincolo istituzionale dell'opera dei congressi recuperando a un impegno democratico anche i cattolici integralisti. Ma forse quello che bisogna riprendere ed approfondire, al di là della relazione di Dittrich –­ bello il suo riferimento alla Chiesa dell'America Latina - è la larghezza ecumenica di quanto è accaduto nella Chiesa cattolica. Non vorrei che ricostruendo il Concilio con la ricchezza delle sue impostazioni cadessimo ancora una volta nella tentazione integralista che avendo le idee giuste i cattolici potrebbero cambiare il mondo da soli. Il Concilio da voce a dignità a tutti gli uomini di buona volontà, a tutti gli operatori di pace, a tutti coloro che credono nella verità.

Non dobbiamo disperdere la lezione di Giovanni XXII, quando distingue­re tra l'errante e l'errore, tra dottrina e movimenti storici, a quando ricono­sceva che anche tra persone lontane, per un breve tratto di strada, si può camminare insieme se l'obiettivo è quello di fare del bene nell'interesse generale.

Mi avete sentito altre volte proporre questa tesi: sarebbe una grande perdita per l'evoluzione del PCI, che è una delle forze della democrazia italiana, non avere come interlocutore un grande movimento di popolo come la Demo­crazia Cristiana, e avere come interlocutori esclusivi la socialdemocrazia, il socialismo, il laicismo, il radicalismo, che sicuramente non hanno nella loro tradizione elementi forti tali da far riflettere più in profondità il movimento marxista. Recuperiamo quindi la nostra identità originaria, perché solo nella consapevolezza delle nostre idee non avremo paura a dialogare con gli altri. Dovremo forse anche riconsiderare certe troppo sbrigative liquidazioni di Dossetti come integralista. Sono andato a rileggermi l'ultimo discorso di Dossetti ai giuristi cattolici italiani, quando li esorta a non avere paura dello stato, ad affrontare nel vivo la realtà italiana con tutte le sue componenti. Ed io credo veramente che il nostro essere cristiani non consista nell'alzare il muro davanti al dialogo, ma nell'allargare lo spazio del dialogo.

Vengo alla seconda relazione, precisa, puntuale, ricca di osservazioni: quella di Enrico De Mita, accompagnata anche dalla onestà intellettuale di intende­re la relazione più come un'analisi culturale che come un'operazione precon­gressuale. Tra le due relazioni non possiamo però fare un salto logico troppo ampio. Infatti, tra la nostra ispirazione cristiana e quello che dobbiamo eventualmente fare durante la "terza fase", o nella collaborazione tra i partiti, dobbiamo chiederci non coi sociologi, ma tra di noi, cosa dobbiamo fare nel merito dei problemi.

I sociologi possono dare indicazioni diverse: se dopo Calvi avessimo sentito Gorrieri, il quadro delle grandi ingiustizie nella distribuzione del reddito sarebbe stato un po' meno confortante del quadro della televisione a colori, dell'automobile e della seconda casa. Se poi avessimo sentito Ardigò, ci avrebbe messo in guardia nei confronti di un progresso tecnico e scientifico non guidato ai fini di effettivo benessere dell'umanità. Ma noi, in sede politica, dopo aver ricordato che non intendiamo rinunciare alla nostra ispirazione cristiana, dobbiamo domandarci come partito di maggioranza relativa che cosa facciamo, in Italia, in Europa e nei rapporti internazionali, riguardo ai problemi reali che esistono e che vengono prima delle alleanze di governo.

Quanti ci hanno criticato come inventori di formule, al tempo dell'apertura a sinistra, sono quelli che del nostro discorso hanno colto solo la conclusio­ne finale (per poi attuarla a modo loro), mentre per noi preliminare era il discorso sulla riforma dello stato, il discorso sulla realizzazione del piano Vanoni, il discorso delle "riforme".

Ebbene, cari amici, sul problema dei contenuti dell'azione di partito e sulle responsabilità che insieme abbiamo di andare verso un congresso che non sia di ratifica pura e semplice di una segreteria e di una coalizione parlamen­tare, noi dobbiamo da qui in avanti discutere molto in profondità. Tra l'altro, non essendoci un uomo del nostro partito alla presidenza del consi­glio, siamo in una posizione relativamente favorevole per approfondire come partito il tema dei contenuti. Sia chiaro che io ho contestato l'errore di aver ceduto la presidenza prima a Spadolini e poi a Craxi perché la vecchia regola che in sistema democratico la misura del consenso non è una cosa secondaria, è per me sempre valida. Il partito di maggioranza relativa può, in taluni momenti particolari, fare anche dei sacrifici, ma non possiamo accreditare nel paese l'idea che la DC raccoglie voti che poi non sono determi­nanti per le coalizioni, perché non ha né il diritto, né la fantasia, né gli uomini, né la capacità di azione per assumere la leadership del paese. Siamo addirittura arrivati al punto che dopo un colloquio di Spadolini con De Mita si è fatta circolare la voce che non è vero che la DC vuole tornare a Palazzo Chigi, è soltanto insofferente per la presenza di un socialista e non esclude­rebbe - par di capire - un laico o un repubblicano!... Mi sembra stia tornando l'ombra del conte Gentiloni che, a nome dei liberali di allora, diceva ai cattolici: "Noi siamo generali senza truppa, i cattolici ci diano i loro voti e noi potremo governare tranquilli". Per tornare alla situazione di oggi io non dico che si debba a tutti i costi fare la crisi ora: oltretutto la gente non capirebbe il perché.

Dico però che non si deve avere paura di una crisi che nasca non per nostra responsabilità e che dobbiamo avvertire tutti che nell'ipotesi di una crisi del pentapartito non c'è il diluvio, non c'è l'insostituibilità di Craxi, non c'è la ciambella di salvataggio di Spadolini, c'è la Democrazia Cristiana con la sua capacità di proposta ed il suo ruolo determinante. E una Democrazia Cristiana che non gestisce i problemi di governo col vecchio sistema degli "organigrammi dorotei": un po' fai il presidente del consiglio tu, un po' lo faccio io, e il pentapartito è l'unica insostituibile formula della democrazia italiana. Questo stile non rende più, sia perché Craxi gioca assai abilmente le sue carte, sia perché immiserisce terribilmente il ruolo della DC. Ed è proprio per questo che noi dobbiamo riqualificarci come un grande partito che collabora con altri per ragioni di vocazione democratica, ma che può legittimare il rilancio di una funzione di leadership non chiedendo in modo petulante la presidenza del consiglio, ma presentando programmi, uomini, volontà di governo più efficaci di quelli che ci hanno preceduto.

Allora mi sembra che da qui al congresso noi dobbiamo approfondire i temi di contenuto sulla politica economica, sulla riforma istituzionale, sulla politica estera. Quando ero giovane, ho incominciato come tanti altri giovani la mia formazione politica leggendo gli scritti di La Pira sulle attese della povera gente, gli articoli di coloro che si raccoglievano attorno a "Cronache sociali" per introdurre anche in Italia una politica keynesiana che -attraverso la programmazione-avviasse a soluzione il drammatico proble­ma della disoccupazione. Può un partito come la DC ignorare che nel 1985, accanto alle televisioni a colori, alle automobili e alle seconde case, vi sono tre milioni di disoccupati? E che in questi tre milioni la gran parte sono giovani dai 18 ai 25 anni che non vedono nel loro futuro una prospettiva certa per quanto riguarda l'occupazione, l'utilizzo delle loro capacità spesso acquisite con un diploma o una laurea, la possibilità di farsi una famiglia? La disperazione che può investire le nuove generazioni di fronte alla incapacità del potere politico di rimuovere gli ostacoli all'esercizio di un diritto fondamentale come quello del lavoro non è sottovalutabile, nè politicamen­te, nè come cristiani.

Nei 110 mila miliardi di disavanzo pubblico oltre 70 mila miliardi rappresen­tano interessi sul debito pubblico che vengono corrisposti ad un tasso prossimo del 14% a cittadini italiani, a cittadini stranieri, a banche, a enti anche pubblici per il solo fatto di avere dei capitali liquidi, da cui traggono senza alcun rischio un reddito elevato. Non sono per la tassazione dei titoli, che alla fine non è che una complicata partita di giro, ma per un dibattito serio al nostro interno, che ci consenta di arrivare alla formulazione della legge finanziaria in un modo diverso da come ci siamo arrivati anche quest'anno. La DC è completamente stata assente nei contenuti, nella elaborazione, nella capacità di indirizzo.

Sul piano delle riforme istituzionali esistono una serie di proposte coerenti con l'ispirazione cristiana, parzialmente accolte dal pentapartito, ma la storia --come sapete--è piena di progetti astratti di riforma istituzionale. Ma le riforme istituzionali si faranno- è inutile scandalizzarsi-- solo venendo a patti con il PCI che, peraltro, ha una sua concezione dello stato. Molti pensano che sia più semplice, o meno pericoloso, accordarsi col PCI sulle riforme istituzionali che non su di una giunta locale: è evidente quanto sia superficiale una tesi del genere se solo si pensa che una politica di riforme istituzionali significa: leggi elettorali, riforma della presidenza del consiglio, voto segreto, ecc.

Ho già accennato alle carenze nella guida della politica economica. Vi è una situazione di strisciante caduta della funzione pubblica nell'economia, che potrebbe essere anche salutare se fosse gestita strategicamente, ma che è invece il risultato di casualità, di ritardi, o di decisioni altrui. Potrei citare il caso di Mediobanca, le lottizzazioni selvagge nelle banche e nelle aziende pubbliche, che distolgono dal fine vero che è quello di usare gli strumenti pubblici a fini di sviluppo - vorremmo dire, ricordando Vanoni - del reddito e dell'occupazione. Questa cattiva gestione del settore pubblico dell'economia non è poi che dia più spazio all'iniziativa privata, perché anche questa ha bisogno di norme più chiare e coerenti, di strategie comprensibili, di "deregulation" probabilmente, ma anche di certezza nel dirit­to.

Una solida politica economica, una seria proposta di riforma istituzionale, una attenta politica estera (ho trovato strano che nella DC rinnovata, dove abbiamo almeno quattro dirigenti di uffici di politica estera, non vi sia stata una presa di posizione ufficiale prima del vertice di Ginevra per ricordare che noi siamo un partito che crede ai valori della pace, del disarmo e del dialogo internazionale per risolvere i problemi fra i popoli), sono i temi su cui deve esercitarsi il nostro approfondimento in vista del congresso del partito. Abbiamo visto dalla relazione di Calvi quanto la società italiana sia cambiata, e ciò sicuramente è derivato in parte da talune scelte economiche e coraggiose effettuate negli anni '50: la liberalizzazione degli scambi, il piano siderurgico, la riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno. Erano scelte mirate, strategiche, che in taluni casi, come ad esempio per la riforma agraria, hanno messo in crisi anche le solidarietà governative. Quando De Gasperi ha sbarcato dal governo i liberali, perché erano contrari alla riforma agraria, ha dato un chiaro esempio di come la formula debba essere subordi­nate ai contenuti.

La reversibilità delle formule, sulla quale vorrei insistere un momento, non significa teorizzare l'opportunismo. Ogni politica, ogni coalizione, ha una serietà programmatica, una sua valenza specifica, una sua ragion d'essere che tuttavia non esaurisce il programma di ognuno dei partiti che vi partecipa.

Dossetti, sin dai tempi di De Gasperi, ci ha insegnato a non confondere il partito con il governo, perché il partito elabora programmi e strategie di lungo respiro che solo con gradualità e con aggiustamenti e compromessi possono divenire programmi di governo di coalizioni. Di fronte ai problemi di schieramento noi non siamo opportunisti o trasformisti. Gli schieramenti non sono casuali, hanno una loro razionalità politica, garantiscono l'esercizio della democrazia e la attuazione dei programmi concordati e come tali vanno sostenuti e difesi. Ma non ho mai creduto e non mi convince l'idea che il pentapartito sia un'alleanza di tipo strategico. A parte che gli italiani vedono giorno per giorno il comportamento a dir poco divergente dei partiti che sono alleati di governo, ma la vera strategia della Democrazia Cristiana è -a mio avviso -quella di ritenere fermamente, anche nell'ipotesi di maggio­ranza assoluta, l'idea della collaborazione democratica con altri partiti. È stato questo l'insegnamento prezioso di De Gasperi dopo la vittoria del 1948, ma se il centrismo fosse stato una strategia valida per sempre, il centro­sinistra non sarebbe stato nemmeno immaginabile. Se il centro-sinistra fosse stato una strategia permanente, tutto il resto non sarebbe venuto. Lasciamo le strategie ai partiti e diamo invece ai governi il dovere non di occupare il potere ma di governare compatibilmente con i programmi concordati e liberi da stati di necessità. Ma quando all'interno della coalizione, come già è avvenuto diverse volte con questo governo e significativamente nel corso della discussione sulla finanziaria, emergono dissensi abbastanza sostanziali fra ministri democristiani e ministri di altri partiti, non ci si può continua­mente chiedere di rinunciare anche alle posizioni valide per sacrificare tutto alla logica della sopravvivenza del pentapartito.

Sono d'accordo con Enrico De Mita quando ha dimostrato, con l'ausilio di Schiavone, che il Partito Comunista è arrivato alla politica di solidarietà nazionale con una concezione strategica che avrebbe fatalmente portato al compromesso storico. L'idea del compromesso storico è proprio quella di essere un'alleanza strategica, cioè permanente, che non ha ricambi, non ha pause, non ha ritorni, ed è fatalmente egemonizzata dal Partito Comunista. Moro pensava invece ad una collaborazione, anche feconda, ma limitata nel tempo, per uscire da una situazione di difficoltà. Era lo stesso conflitto che ha diviso Togliatti da De Gasperi, quando Togliatti voleva la continuità dei governi del CLN mentre De Gasperi ha introdotto la formula del governo parlamentare, di per sé reversibile. E qui sbaglia Ingrao quando afferma che per riformare la costituzione bisogna fare il governo costituente, perché proprio l'esperienza della costituente ci dice che una parte importante della costituzione, quella relativa alle regioni, è stata definita quando i comunisti erano ormai all'opposizione. Tra l'altro i comunisti sono diventati regiona­listi quando sono passati all'opposizione, quando cioè sono usciti dalle combinazioni del potere.

Questo mi porta, quasi per associazione di idee, ad un altro punto che vorrei approfondire con Ciriaco De Mita: il discorso dell'alternativa. Nessuno di noi evidentemente può essere così immaturo dal punto di vista costituzionale da non sapere che la democrazia compiuta presuppone l'alternarsi nel governo del paese di forze diverse. Ma proprio perché ho riservato, nel corso della mia esperienza politica, una attenzione costante a quanto si dibatte e avviene nel PCI, debbo dire che il PCI al potere, in una eventuale coalizione con partiti minori, non mi da una assoluta garanzia che lo sviluppo successivo della democrazia italiana sia quello previsto dai teorici dell'alternativa. II PCI, quando è nella condizione di esercitare il potere senza forze in grado di condizionarlo, non può che sviluppare interamente la sua egemonia e realizzare, nelle istituzioni e nella conduzione dell'economia, la sua strategia originaria con i suoi limiti e le sue tendenze totalizzanti. Ora vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale strana ragione il PCI è meno pericoloso se governa l'Italia da solo o con piccoli partiti, mentre diventa pericolosissimo per la democrazia italiana se dovesse per qualche tempo governare con noi per far fronte a situazioni di emergenza o di difficoltà quali quelle esistenti all'inizio del dopoguerra.

La teoria dell'alternativa è, a mio avviso, pericolosa anche nei confronti dei socialisti che, se vogliono distinguersi dal pentapartito, non possono non immaginare che nel loro futuro ci sia un'alternativa di sinistra. Non pensia­mo di aver legittimato il PCI con la teorizzazione della alternativa, perché la reale legittimazione democratica viene dal consenso elettorale, a meno che si voglia riproporre la preclusione ideologica che si diceva essere caduta con la dottrina astratta dell'alternativa.

Io penso allora che il confronto coi comunisti non deve avvenire sugli schieramenti, l'alternativa, ma sui problemi di fondo in modo che possa eventualmente verificarsi anche l'ipotesi dell'alternativa senza rischi per la democrazia.

Certo non dobbiamo prestare il fianco ad ipotesi semplicistiche di collabora­zione di governo con il Partito Comunista quando tra 1'altro - anche per esplicita dichiarazione dei comunisti -non ne esistono le condizioni. Ma il problema non è di immaginare che si possa fare quanto non è possibile in questo momento, ma di escludere radicalmente a in ogni situazione una tale possibilità (il famoso "mai"!). Ipotizziamo un caso concreto: una crisi di governo dove i socialisti perseguono 1'obiettivo delle elezioni anticipate per mero interesse di partito, per indebolire i comunisti da una parte e i democristiani dall'altra. Per quale ragione due grandi partiti come la DC a il PCI, anche nella constatazione che non possono governare insieme, dovrebbero accettare l'avventura di elezioni anticipate volute da un solo partito minore per fini particolari, senza sentire la responsabilità quanto meno di verificare se è possibile evitare un simile esito sicuramente contrario agli interessi del paese?

A me sembra necessario introdurre nel dibattito politico un elemento di flessibilità e tener sempre presente la distinzione tra responsabilità governa­tiva e iniziativa del partito. Quando Craxi propone un rapporto col PCI nella sua veste di segretario socialista oltre che di presidente del consiglio commette, a mio avviso, una scorrettezza: i rapporti di governo con l'opposizione sono rapporti che il capo del governo ha il dovere di tenere a nome della coalizione e in accordo con gli altri partiti della coalizione. Questo atteggia­mento introduce una ulteriore riflessione sulla opportunità o meno di avere nel governo i segretari dei partiti: troppo spesso infatti essi confondono la loro funzione di leaders politici con i loro doveri istituzionali. Occorre quindi distinguere tra l'area di governo, dove il confronto avviene tra coalizione e opposizione, e l'area dei partiti che hanno il dovere anche di essere propositivi per costruire il futuro. Per usare una espressione di Craxi -che per la verità non mi piace molto - come "il cuore del PSI non si imprigiona in una formula", neppure il cuore della DC si imprigiona in una formula. Noi siamo stati e siamo leali con questo governo, ma come partito di maggioranza relativa della democrazia italiana dobbiamo discutere di problemi istituzionali, di problemi internazionali, di problemi economici, di problemi sociali, con tutti i partiti che accettano le regole della democrazia. Non facciamo polemiche sulla presidenza del consiglio, così come non diamo garanzia di durata indefinita o a termine del governo: un governo dura fino a che è in grado di governare, ma la DC deve mostrare nei fatti la sua capacità di riprendere la leadership del paese. Sosteniamo quindi il pentapartito, sviluppiamone i programmi, ma non cadiamo nel tranello di accettare l'ipotesi: "Se finisce questo governo occorre andare alle elezioni". Il partito di maggioranza relativa, e soprattutto il nostro gruppo che già nel lontano convegno di Firenze (1969, credo) ha teorizzato, anche con l'appor­to di Ciriaco De Mita, l'idea del patto costituzionale, non può appiattirsi sul pentapartito a guida socialista come sull'unica ipotesi politica possibile.

Voglio concludere ricordando quanto ha detto Pirola ieri. Le origini del nostro gruppo non sono state facili: suonavano addirittura le campane per disturbare i nostri comizi. Nella nostra prima campagna elettorale, sia Ciriaco De Mita, che Galloni, che il sottoscritto, non fummo eletti, per l'opposizione dura e anche scorretta dei conservatori democristiani e di certo mondo cattolico. Eppure tra noi c'era minore frustrazione, minore scetticismo, minore sospetto: avevamo poco da dividere e tutto da rischiare. Ma rischiavamo nell'interesse del partito, perché senza di noi a fare la staffetta, a portare avanti le tesi più audaci e rischiose, neppure Moro avrebbe potuto fare la mediazione che poi ha portato la Democrazia Cristiana, tutta la Democrazia Cristiana, all'equilibrio di centro-sinistra. Senza la nostra teorizzazione del patto costituzionale non ci sarebbe stata la solidarietà nazionale, utile in un momento molto difficile per il paese, e neppure, più recentemente, l'elezione plebiscitaria di Cossiga alla presidenza della repubblica.

Non dividiamoci dunque fra fìlo-socialisti e filo-comunisti: ragioniamo con rispetto reciproco, senza avere paura di dire oggi quello che domani può essere utile alla DC per conservare la sua funzione di guida nella vita nazionale.

Siamo democratici cristiani e non abbiamo alcuna vocazione ad essere degli ex, ma il nostro essere democratici cristiani ha un unico limite - questo sì che confina con l'orgoglio - di non appartenere ad un partito che porta il cervello all'ammasso, ma che consente di dire con lealtà anche le cose più impopolari. Non sarebbe degno della DC un congresso del tipo di quello the il PSI ha organizzato a Verona, dove alla fine non vi è stata neppure l'elezione del segretario del partito. Noi vogliamo andare al congresso a sostenere De Mita non con la furberia di chi lo sostiene per liberarsene magari al momento giusto, ma con la fermezza di chi lo sostiene anche avanzando delle tesi che il segretario non può esprimere, con l'orgoglio, come diceva Pirola, di servire il partito con le idee più che di servirsene per i propri interessi.

Quaderni della Base
Atti del convegno di San Felice del Benaco
22-23-24 novembre 1985
Luigi Granelli