CONVEGNO DI BRUZZANO

INTRODUZIONE

Abbiamo voluto incontrarci di nuovo per fare alcune riflessioni dopo il risultato elettorale.

Noi abbiamo, subito dopo le elezioni, fatto un bilancio molto severo non solo dei risultati che riguardavano il partito del suo insieme e sui riflessi di questo risultato sul piano politico generale, ma anche sull'andamento delle cose che ci riguardavano più da vicino: la nostra battaglia per gli amici che erano candidati, il nostro relativo insuccesso per alcune difficoltà che avevamo incontrato. In queste discussioni avevamo lasciato uno spazio molto libero nel senso che alla fine dei nostri dibattiti avremmo dovuto decidere, come in effetti oggi decideremo, se continuare nella nostra azione politica e su che basi e su che linee, con quali revisioni di carattere organizzativo, oppure chiudere la nostra esperienza.

Tutto questo noi lo abbiamo fatto con grande severità e rigore critico, come è nostro costume; noi non siamo tra quelli che hanno paura della critica anche della più radicale, non abbiamo miti nei confronti di nessuna persona, riteniamo anzi che quando il dibattito si incentra più sulle persone che non sui programmi e sulle strategie politiche c'è un pericolo grave per tutto il partito.

Abbiamo detto molte cose in queste discussioni e tra l'altro sono emerse delle indicazioni, di cui io terrò conto sia nella replica alla fine del Convegno, sia nella presentazione di un documento riassuntivo; ma la cosa che ci preoccupa di più è lo scarto che si è verificato tra un battaglia elettorale che abbiamo fatto tutti insieme con l'intento di rafforzare la Democrazia Cristiana e di ridarle un'iniziativa determinante nel Parlamento e nel paese, battaglia che ha portato a degli esiti di un certo interesse, e il calo che vi è stato dopo le elezioni quando si è visto che il tentativo di De Mita di fare il governo non è nemmeno decollato. Il governo Goria è apparso più un ripiegamento in una situazione difficile che non un frutto dell’iniziativa della D.C., altri partiti hanno tenuto addirittura di catturare la paternità del governo, mentre nella D.C. stenta a svilupparsi un dibattito all’altezza delle difficoltà che abbiamo di fronte a noi. Quindi c’è la necessità di invertire la tendenza, di determinare un grande rilancio, se è possibile, del partito e della sua iniziativa e questo può avvenire in occasione della preparazione del Congresso. L’ultimo Consiglio nazionale, che può essere valutato da diversi punti di vista, almeno sotto questo profilo deve essere interpretato come l’apertura di un grande dibattito all’interno della Democrazia Cristiana per arrivare ad un congresso dove prima di scegliere le persone si definiscano le linee politiche, si stabiliscano i programmi, si rilanci una funzione di guida della D.C.

In questo senso, a mio parere, rispetto ad alcune valutazioni che avevamo fatto immediatamente dopo le elezioni, c’è assoluto bisogno di un rilancio forte della sinistra politica del partito.

Noi dobbiamo fare anche delle critiche, ma in primo luogo dobbiamo fare una autocritica, perché se il quadro oggi è più difficile lo è anche perché la sinistra è stata per troppo tempo imbrigliata in un sonno e in una perdita di iniziativa che si è riverberata sull’intera situazione.

Certo questo è stato anche il frutto dell’accanimento con il quale De Mita ha fatto la lotta contro le correnti pensando che la sinistra del partito fosse come tutte le altre correnti tradizionali, cioè più gruppi di potere che tendenza di pensiero. Questo non è mai stato vero, ma per non danneggiare l’iniziativa della Segreteria politica che è uscita dalle nostre file, noi abbiamo tenuto una posizione molto rassegnata. Adesso però ne vediamo i risultati e mentre certi gruppi moderati e di centro del partito vanno riorganizzandosi, la sinistra sembra non aver ancora preso l’abbrivio per rilanciare quello che è il suo ruolo tradizionale. E non basta finalmente preparare Chianciano; noi dobbiamo rivendicare alla base del partito e soprattutto a Milano la nostra funzione di sinistra.

Questa mattina ad introdurre il nostro dibattito sarà l’amico Rognoni, alla fine della giornata tireremo le conclusioni di questa nuova riflessione post elettorale con un documento riassuntivo in modo da fornire una traccia per le scadenze future. Dobbiamo infatti pensare anche la città, dove dopo una lunga presenza dei “coordinatori” l’iniziativa politica del partito è addirittura peggiorata.

Abbiamo i congressi provinciali, i congressi regionali, dobbiamo essere molto precisi nello scartare, almeno per noi, l’ipotesi che si facciano ancora dei congressi a tavolino. Noi vogliamo rilanciare la sinistra non per isolarci, ma per avviare delle alleanze sulla base d’intese politiche. Le alleanze fatte sugli organigrammi, sugli equilibri tra i gruppi e le persone, hanno fatto arretrare il partito e gli hanno fatto perdere iniziativa. Quindi il documento è importante per tracciare dei binari sui quali poi ciascuno sarà chiamato a dimostrare la propria coerenza tra quanto diciamo nei convegni e quanto realizziamo nel partito in tutte le occasioni.

Questo è il significato che ho voluto richiamare prima di dare inizio ai nostri lavori. Ringrazio Rognoni che si è sobbarcato l’onere di preparare questa relazione, e che è appena arrivato dagli Stati Uniti.

CONCLUSIONE

Cari amici, io devo ricordare subito a me stesso prima che a voi che questo non è un convegno come tutti gli altri che abbiamo fatto. Certo la serietà, il tono, la qualità degli interventi, hanno confermato ancora una volta quante energie esistono nel nostro gruppo e come in fondo, al di là di talune estremizzazioni, ci siamo riconosciuti tutti nella relazione introduttiva di Rognoni, come del resto in altre relazioni introduttive di precedenti convegni. Ed io sarei tentato, anche per temperamento, di seguire il filo dei molti argomenti che sono stati posti, il che consentirebbe una replica forse più brillante. Devo invece con molta durezza richiamare tutti all'appuntamento che qui ci siamo dati. Non possiamo infatti soltanto discutere e continuare a discutere: dopo le ultime elezioni abbiamo fatto ben tre convegni e parecchie riunioni ristrette nelle quali ci siamo confrontati con all'ordine del giorno una questione molto precisa: se sciogliere il nostro gruppo o rilanciarlo con modalità nuove di presenza e di comportamento. Se dimentichiamo questo, allora scambiamo il Convegno di oggi con uno dei tanti convegni di studio che abbiamo fatto e che potremmo ancora continuare a fare come organismo culturale, ma non come forza politica. Questo Convegno è stato all'altezza della nostra tradizione, perché sentiamo molto forte la responsabilità che sta davanti a noi. Tra l'altro, a differenza di quanto sembrava apparire immediatamente dopo le elezioni, in questi mesi si è fatta strada maggiormente l'idea che la sinistra democratico cristiana debba ancora avere un ruolo. Oggi ci troviamo di fronte alle conclusioni di un Consiglio nazionale, il cui esito più importante è stato quello di affermare che si è aperto un dibattito nella DC, e che a questo dibattito la sinistra del partito deve dare un contributo. Questo rende obiettivamente più difficile la nostra scelta, perché ci assumeremmo una grossa responsabilità se per ragioni di pigrizia o di miopia politica dovesse sciogliersi proprio il gruppo milanese nel momento in cui si riconosce sul piano nazionale la necessità di un apporto specifico della sinistra. In ogni caso il Convegno di oggi è il punto finale di una fase, e ne apre un'altra non certo più facile. Siccome siamo sempre stati onesti nelle nostre valutazioni politiche, dobbiamo dire che quando si dipinge la gravità della situazione politica in cui si trova da tempo la Democrazia cristiana, non possiamo indicare soltanto le responsabilità di chi ha primari compiti di guida, ma dobbiamo anche individuare le responsabilità dovute alla troppo lunga inerzia della sinistra democratico-cristiana, che o non ha agito, o non ha fermato, o non ha elaborato, o non ha proposto, ma comunque è stata corresponsabile delle cose avvenute sin qui. Per acquisire il prestigio di criticare chi ha le massime responsabilità, dobbiamo anche acquisire la coscienza autocritica delle nostre responsabilità e del modo di rimediarvi.

Molti amici hanno osservato che la sinistra democratico cristiana non può certo oggi lamentare la sua emarginazione, dal momento che copre un’area di incarichi che nemmeno i dorotei ai tempi del loro massimo “splendore” hanno mai avuto: presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, ministri, Segretario del partito, presidenti dei gruppi parlamentari, segretari a diversi livelli periferici, ecc. Però io vorrei, per l’attaccamento che ho sempre avuto alla tradizione della sinistra democratico cristiana, dire due cose su questo punto che sono la premessa per le conclusioni che voglio trarre: la prima è che se tutte queste personalità sono in posizione di primo piano, lo sono non perché sono state cooptate dalla classe dirigente esistente, ma perché si sono affermate nel corso di una lunga, dura, battaglia ideale e politica, perché si sono qualificate, perché hanno fatto delle scelte, perché hanno anche pagato personalmente in tempi non facili per la coerenza con le loro idee.

Inoltre, siamo in posizioni di responsabilità perché anche l’avvio di un rinnovamento del partito, prima da parte di Zaccagnini e poi di De Mita, almeno nella prima fase, ha creato le condizioni perché questo avvenisse. Se non ci fossero stati i passaggi di Zaccagnini e di De Mita, in due circostanze diverse, non comparabili ma politicamente incisive, non ci sarebbero state neppure le condizioni per mettere nell’orbita istituzionale un personale della sinistra democratico cristiana, che per altro aveva conquistato questo diritto con le sue battaglie e non con una semplice cooptazione.

Questa analisi va però ulteriormente approfondita. E a questo punto mi riferisco soprattutto a Milano, perché qui siamo e qui dobbiamo agire. Abbiamo infatti dimenticato un elemento che è sostanziale nella tradizione culturale e politica della sinistra democratico cristiana: non basta essere bravi, non basta – lo dico alla generazione più giovane – essere potenzialmente quelli che potranno fare domani quello che stiamo facendo noi oggi: gli uomini della sinistra democratico cristiana falliranno anche nelle istituzioni e nelle responsabilità di governo, e non avranno successori, se alle spalle non avranno il partito come elemento di direzioni e di elaborazione politica.

A differenza dei dorotei che hanno immaginato l’occupazione del potere come ragione di esistenza, la sinistra democratico cristiana deve dare primato al partito, perché è in rapporto al partito e alla sua politica che ogni uomo nelle istituzioni può dare il suo contributo. Se viene meno questo legame, siamo poca cosa sia noi che siamo oggi in posizioni di responsabilità, sia quelli che subentreranno domani. Non dico che il disegno sia stato esplicitamente malizioso, però constato che da Dossetti alla Base quasi sempre, quando scattava l’appuntamento perché la sinistra si esprimesse soprattutto nel partito per farne lo strumento principale di direzione politica, scattavano anche i meccanismi per aprire vie di responsabilizzazione nelle istituzioni agli uomini della sinistra democratico cristiana, lasciando il partito chiuso in una gestione insufficiente rispetto alle politiche necessarie per il rinnovamento reale dei metodi e dei contenuti.

Dobbiamo allora avere il coraggio di dire- e lo dico apertamente - che dobbiamo essere pronti ad abbandonare ogni posizione nelle istituzioni per dedicarci al partito, se nel partito si creano, anche attraverso la nostra lotta, possibilità operative reali. Bisogna che il partito diventi 1'elemento principale sul quale misurarci, il terreno sul quale muoverci, perché il rinnovamento non può realizzarsi solo col cambio di Segretario. Su questo punto c'è un dissenso anche col segretario nazionale, solo ultimamente forse un poco attenuato. Non è tutto chiaro tra noi, ma perlomeno comincia a riaffiorare 1'idea che per rinnovare il partito occorre una sinistra che spinga, che elabori, che dimostri di esistere. Questo comincia ad emergere, e questo è 1'esatto contrario di quanto abbiamo fatto all'ultimo Congresso nazionale con un consenso quasi unanime. Ricordo infatti di aver detto sul bordo di una piscina a Roma (allora le piscine non erano così pericolose) che avendo per tutta la mia vita politica ritenuto i listoni delle forme di imbroglio politico falsi inanimismi per coprire operazioni di potere spartitorio, la formazione di una lista comprendente tutti allo scopo di sostenere la rielezione di De Mita finiva quanto meno per mortificare il significato della presenza della sinistra. Quando poi la discussione in Congresso si è fatta tesa su questo punto, c'è stato 1'amico Martinazzoli che, meno determinato di oggi, provvedeva a fare il pompiere e a convogliare le adesioni. Ebbene, questo è un punto che non possiamo rinviare alle discussioni future: ho sempre detto a De Mita, e lo ripeto qui, che la Democrazia Cristiana se vuole rinnovarsi non può prescindere dal contributo della sua sinistra e che la linea di De Mita di voler sciogliere tutte le correnti come se fossero tutte gruppi di potere, ha finito per avere successo soprattutto nei confronti della sinistra che adesso sarebbe pure utile per contenere le spinte del Golfo, dei dorotei, dei condizionatori e di tutti i gruppi di potere che ancora sopravvivono. Moro con grande lucidità ci ammoniva che "la Democrazia Cristiana non potrà mai essere un partito di sinistra, ma avrà sempre bisogno della sua sinistra".

Con questo Convegno noi ci proponiamo di uscire dalla semiclandestinità e dire che, a partire da Milano, la sinistra di base torna ad esistere come corrente, come gruppo che fa politica, come gruppo che prende delle posizioni. Può darsi che qualcuno non ci stia: è successo altre volte nella nostra storia, alcuni sono rimasti, altri se ne sono andati. Ma questa scelta spetta a noi e non possiamo scaricare su altri questa responsabilità. Anche la funzione del documento, che già spaventa qualcuno che ne teme la eccessiva qualificazione, ha questa funzione di spingere perché anche a Chianciano vengano fuori gli equivoci, le ambiguità e si apra un'occasione di ridefinizione della sinistra. Per dare concretezza al dibattito interno, che si è aperto positivamente al Consiglio nazionale, che lo stesso Segretario nazionale richiede a che lo stesso Tabacci sollecita, non dobbiamo contrapporre il centro alle regioni, o maggioranze di un tipo a maggioranze di altro tipo, ma dobbiamo inserire l'elemento verticale delle tendenze politiche e di pensiero, con le loro analisi, le loro posizioni, le loro scelte.

Cari amici, quando è venuta 1'idea di chiudere questo Convegno con un documento, non si aveva la presunzione che un documento in politica servisse per chiudere tutte le questioni. Si pensava più semplicemente ad un atto pubblico esterno che chiarisse in primo luogo il dato di ripresa della nostra esistenza e in secondo luogo alcuni problemi sui quali intendiamo qualificarci discutendo a fondo, ma sui quali è già bene che si indichino taluni presupposti, perlomeno per escludere le cose che non dobbiamo fare, e per aprire un confronto con gli altri. Credo che tutti sappiate che ho una grande esperienza nella stesura di documenti, e d’altra parte anche oggi – come è mio costume – sono stato a sentire tutti. Vorrei che nessuno prendesse alla leggera il dibattito di oggi, perché, nella sua serietà, ha messo in evidenza differenze anche significative. Vorrei che tutti acquisissimo l’abitudine ad ascoltarci reciprocamente, non semplicemente ad enunciare tesi senza preoccuparci di fonderle in un patrimonio comune. La parola magica che è girata in tutto il nostro Convegno, che è girata nel Consiglio nazionale e che girerà fino al Congresso, è quella che bisogna riprendere il dibattito, riprendere a discutere. Ma bisognerà anche decidersi nel dire che il dibattito è sui problemi, e quindi sulla politica fiscale, sulla politica finanziaria, sulla politica estera.

Aprire il dibattito vuol dire non avere pregiudizi, non avere soluzioni già pronte. Lo dico soprattutto per i più giovani, che ho apprezzato molto in vari interventi, anche se due di essi possono essere interpretati come dei segnali indicatori di frattura, o come contributo dialettico che va ulteriormente approfondito. Non dobbiamo far finta che le contrapposizioni non esistano, come non dobbiamo fare delle opzioni pregiudiziali; un gruppo come il nostro per resistere politicamente ha bisogno di idee, di linee, di comportamenti pratici, ma anche di grande umiltà. Vi sono stati momenti nella storia della Base, lo dico per i più giovani, in cui Giovanni Galloni ed io abbiamo votato diversamente da Giovanni Martora e Ciriaco de Mita, in un Consiglio nazionale che aprì la strada ad un processo inquietante noto come san Ginesio, di cui in qualche misura subiamo ancora oggi le conseguenze. Ora, se voi pensate ai rapporti personali che c’erano tra di noi, quel voto fu una cosa dolorosa ma anche doverosa, e nessuno trasse da questo elementi di fratture pregiudiziali. Io esorterei quindi a stabilire tra di noi questo patto tra galantuomini: che ci sono materie sulle quali dobbiamo continuare a discutere e che nessun documento, quale esso sia, può presumere di risolvere le questioni una volta per tutte.

Fatta questa premessa di metodo, voglio scendere più concretamente al piano dei contenuti e perciò avanzerò alcune osservazioni in ordine a cinque temi principali.

Il primo riguarda il rapporto con il governo Goria e il tema più generale delle alleanze politiche. Quasi tra parentesi vorrei dire che un grande partito quale è il nostro non dovrebbe mai spendere il nome del suo Segretario nazionale se non andando fino in fondo nel tentativo di formare il governo. De Gasperi, quando ha avuto il mandato nel 1953, pur sapendo che la situazione era assai difficile, è andato col nuovo governo in Parlamento ed è caduto in Parlamento, costringendo i partiti a scoprirsi. De Mita, dopo un’elezione nella quale è stata rilanciata la funzione del partito di maggioranza relativa, ha chiuso in modo incerto e frettoloso il capitolo della sua candidatura, passando poi – e Rognoni l’ha detto molto bene nella sua analisi – da una attitudine di indifferenza, di freddezza, di distacco dal governo Goria, ad una attitudine di pieno sostegno espressa nel Consiglio nazionale. Tuttavia, sostenere a parole il governo Goria, senza esprimere una iniziativa del partito sui problemi del governare, accredita nel paese l’idea che il governo Goria sia il segno dell’impotenza della Democrazia Cristiana e di un’abile strumentalizzazione da parte dei socialisti. Sul tema delicato dell’invio delle nostre navi nel golfo Persico, sul quale ovviamente non dobbiamo sollevare polemiche ora, se la Democrazia Cristiana avesse affrontato il problema ed espresso una linea prima delle decisioni del Consiglio dei ministri, l’atteggiamento avrebbe potuto essere più meditato. Sulla legge finanziaria, se potessimo disporre di un indirizzo del partito, la battaglia in Consiglio dei ministri non sarebbe affidata soltanto alle reminescenze vanoniane di alcuni, o alle diverse letture di altri.

Quando la sinistra sollecita il partito a prendere posizione su tutti i problemi che sono oggetto del governare, sa bene che questo può creare un conflitto con i partiti che costituiscono oggi la maggioranza. Tuttavia sappiamo anche che questo governo non è nato nel segno di una alleanza politica tra i partiti, ma per un’esigenza di governare: vi è quindi un primato dei contenuti rispetto agli schieramenti. Ma un problema delle alleanze non è il problema che si possa liquidare semplicemente affermando il primato dei contenuti. La debolezza del governo Goria sta nel fatto che non essendoci intesa tra i partiti, i segretari dei partiti della coalizione intervengono direttamente sul presidente del Consiglio, esercitando una funzione di riscatto anziché quella – assai più corretta – di mediazione politica. Ecco quindi che il problema del dibattito sui contenuti deve passare anche attraverso una ripresa del dialogo tra i partiti per ricostituire le ragioni di un’alleanza politica.

Ed è qui allora che si manifestano nel partite i motivi reali di distinzione. I critici di De Mita, dorotei, Donat Cattin, lo stesso Andreotti, che accusano il Segretario di eccesso di toni polemici nei confronti dal Partito Socialista (avendo in molta parte ragione, perché non si può costruire una politica di alleanze sulla base di gratuite provocazioni polemiche) nella sostanza propongono un ammorbidimento di toni verso il Partito Socialista per tornare non solo al pentapartito come alleanza, ma addirittura ad un nuovo pentapartito a direzione socialista, se questo fosse il prezzo da pagare per riportate la pace in famiglia. Quindi non solo è caduto il pentapartito strategico che, come abbiamo sempre detto, era un’aberrazione perché le alleanze hanno come fine il governare mentre i partiti si propongono strategie che vanno oltre il governare, ma c'è un risorgente doroteismo che non si batte nè per il nome nè per il significato dell'alleanza, ma per l'alleanza in sè, perché ci sia.

Io non sono pregiudizialmente contrario ad una alleanza tra cinque partiti, ma se le formule si dovessero coagulare sulla base dei contenuti, nel futuro potremmo preparare alleanze a ire, a quattro, a cinque, a due: cioè dovremmo uscire dalla crisi dal pentapartito non proponendo semplicemente la sua ricostituzione. Devo dire che De Mita, anche se la sua attuale strategia non è chiara, ha parlato non di pentapartito ma di alleanze organiche. Tuttavia, rispetto alla relazione di De Mita in Consiglio nazionale, la sinistra intende ribadire che il partito della Democrazia Cristiana, nel ricostruire le alleanze politiche a sostegno dal governo, deve rivendicare il suo ruolo di maggioranza relativa che il corpo elettorale ha riconfermato ampiamente nelle ultime elezioni.

II secondo punto riguarda la caratterizzazione politico-programmatica della Democrazia Cristiana. Ritengo infatti che la collaborazione col Partito Socialista vada ricercata sulla base dell'incontro tra due partiti riformatori, anche se con matrici ideologiche diverse, e non sulla base dello schema che i socialisti sostengono dal PSI come partito riformista e della DC come partito moderato e conservatore. Naturalmente perché queste definizioni abbiano un senso e non siano puro nominalismo occorre caratterizzarsi sui problemi e sui contenuti. E quando Donat Cattin tenta di ricostruire all'esterno l'immagine di una sinistra sociale e poi si schiera su taluni problemi di politica estera quali l'intervento nel golfo Persico, gli euromissili, il disarmo su posizioni di estrema destra, rende poco credibili anche le sue posizioni vetero-sociali. Per quanto riguarda il partito nel suo insieme non possiamo certo ignorare, che negli ultimi tempi, in modo più o meno consapevole, siamo scivolati verso una filosofia neoliberista dell’economia, oltretutto  in parte contraddetta dalla rappresentanza di interessi corporativi, andando quindi del tutto in contrasto con la radice popolare del nostro partito. tutto questo è avvenuto insensibilmente senza un dibattito del partito, che pure è stato il partito di Dossetti, di La Pira, di Vanoni, di Mattei. Sappiamo che i tempi e i temi sono cambiati, ma le scelte di politica fiscale, la ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato, il rafforzamento dello Stato democratico di diritto, sono temi qualificanti anche per stabilire eventuali alleanze al prossimo Congresso. La ricchezza accumulata nel paese negli ultimi anni è servita soprattutto ad una finalizzazione dell’economia italiana, si sono comprate e vendute imprese, ma non si è allargata la base produttiva, non si è investito in nuove attività, è anzi aumentata la disoccupazione. Lo strumento fiscale è incapace a colpire certe rendite e a snidare l’evasione, siamo sempre al bivio tra la manovra sulle imposte indirette e la curva delle aliquote delle imposte dirette, sempre all’inseguimento di un improbabile contenimento del deficit.

Se la sinistra democratico ristiano – con convegni, ricerche, documenti – incomincia a prendere posizione su questi temi, anche le alleanze interne diventano più difficili, o almeno più meditate, perché non si tratta solo di mettersi d’accordo per eleggere un Segretario, ma si tratta di allearsi su di un programma, su una maggioranza, e quindi su di un Segretario e un gruppo dirigente che realizzino tale programma negli accordi di governo. Alla fine degli anni ’50 la sinistra democratico cristiana non si è qualificata solo per l’apertura verso i socialisti: anzi il discorso sulle alleanze politiche era la conclusione del discorso sui contenuti, dalla programmazione economica per ridurre gli squilibri geografici e sociali, al discorso sulla riforma dello Stato per dare concreta realizzazione alle autonomie locali, al discorso sull’allargamento della base democratica dello Stato. Se noi percorriamo di nuovo il sentiero dei contenuti, che sono giustizia fiscale, risanamento economico, qualificazione della spesa, lotta alla disoccupazione, soluzione del problema del Mezzogiorno, costruzione dell’Europa, noi creiamo il il presupposto serio del riformismo, che avrà allora le carte in regola per incontrarsi o contrarsi col cosiddetto riformismo socialista che è più simile all’efficientismo tecnocratico che non alla visione delle grandi socialdemocrazie europee. Come corollario, una ripresa di iniziativa politica della sinistra sui temi del riformismo dovrebbe costringere anche l’assetto interno del partito a riorganizzarsi. La distribuzione, anzi la proliferazione degli “uffici” del partito è avvenuta sino ad ora più sulla base delle compensazioni per mancati incarichi governativi che per effettiva capacità e volontà di elaborazione. La ripresa del dibattito fra i partiti alleati sui contenuti dell’alleanza dovrebbe portare anche ad una ripresa significativa del lavoro degli “uffici”.

Il terzo punto che, come i precedenti, viene semplicemente enunciato – ma, solo per il fatto di essere posto, già pone una discriminazione – è quello del rapporto con il Partito Comunista Italiano. Non mi illudo certo di chiudere questo problema con un documento, ma ritengo che la sinistra democratico-cristiana debba riproporre con grande forza culturale e politica questo argomento perché la Democrazia Cristiana ha archiviato troppo rapidamente l’intuizione morotea della funzione del Partito Comunista nella democrazia italiana Dico non casualmente democrazia italiana, perché noi diamo la sensazione o di spaventarci o di sognare illusioni che non si verificano quando impostiamo il problema del rapporto con il PCI come problema di governo, o di ruota di scorta del governo, quando le alleanze che preferiremmo vengono meno o sono eccessivamente conflittuali. Il problema del rapporto col PCI, come diceva Moro, è un problema che investe la democrazia italiana prima delle formule di governo, perché abbiamo tutti interesse a favorire una evoluzione positiva nell’occidente di un grande partito comunista quale è quello italiano. Ma una tale evoluzione è possibile se gli interlocutori propongono dei valori realmente competitivi sui quali misurarsi.

L’orientamento attuale del Partito Comunista Italiano a cercare il suo accreditamento più verso le socialdemocrazie europee che non nel contesto nazionale, e quindi a rivolgersi verso schematismi del tutto insufficienti ad agire positivamente nella peculiarità della situazione italiana, spiega in parte la crisi dello stesso PCI, ma anche la debolezza dei partiti democratici nazionali. Quando il Partito Comunista nella ipotesi della costruzione dell’alternativa, sceglie come interlocutori  i socialisti, i socialdemocratici e i repubblicani, ignorando i cattolici democratici, con la loro concezione dello Stato, dell’economia, dell’ordinamento internazionale, trascura una componente importante della società italiana con la quale nel passato si è pure misurato ricavandone motivi di evoluzione. Vi sembra possibile che il Partito Comunista abbia finito  per scegliere l’Europa e l’occidente indipendentemente dalle scelte di De Gasperi e dall’azione della democrazia Cristiana?

Perché allora si riconosce legittimazione democratica al PCI, e insieme si afferma che può andare al governo con chiunque tranne che con noi? Se la partecipazione al governo dal Partito Comunista non rappresenta più un pericolo, che era l'argomento in base al quale fino ad ora si chiudeva il discorso sulla partecipazione dal PCI, non si vede per quale ragione la DC debba delegare ad altri partiti una collaborazione politico che, secondo la storia, potrebbe nuovamente tornare ad essere pericolosa. In altri paesi infatti si è assistito ad una parziale evoluzione democratica dal Partito Comunista che tuttavia, una volta al potere insieme a partiti numericamente poco consistenti, ha ritrovato l'istinto dell'egemonia. Quello che mi preme in questo momento sottolineare perché non è certo di alleanza di governo con il PCI che oggi si discute, è la validità dal nostro ruolo di interlocutore democratico con il Partito Comuniste, mantenendo distinti i ruoli di governo e di opposizione, e aprendo invece il confronto sulle riforme istituzionali. Del resto è noto che senza l'accordo con i comunisti non saremmo arrivati allo scioglimento delle Camere, non avremmo eletto Cossiga alla presidenza della Repubblica, non potremo riformare le leggi elettorali. Anche questo è dunque un tema che può rendere più difficile le nostre alleanze, di partito e di governo, ed io non lo sollevo in modo pretestuoso, per rendere più difficili le alleanze, ma perché è un problema che ci costringe a riflettere sulla natura e la funzione della Democrazia Cristiana, sui suoi obiettivi strategici,  a preparare culturalmente e politicamente il futuro, uscendo da quel pragmatismo di basso profilo nel quale siamo ormai caduti da tempo, e che ci chiude irrimediabilmente nel contingente.

Dal punto precedente discende in certa misura il quarto punto, quello delle giunte amministrative locali. Cerchiamo di non imbrogliarci: su questo tema vi è diversità fra di noi, e vi è diversità anche con De Mita che, tuttavia, nell’ultimo consiglio nazionale ha fatto dei passi in avanti notevoli. Però qui dobbiamo chiarirci meglio un po’ tutti. Qualcuno nel dibattito ha polemizzato con la dottrina del “tutto campo”, ed io sono d’accordo on questo senso. Da un lato, infatti, si continua a ritenere che noi dobbiamo amministrare comuni, province, regioni e altri enti locali sulla base della alleanza di governo nazionale, e questo può essere certo il frutto di una convergenza naturale, ma non di una imposizione automatica. Dall’altro, può succedere che il rapporto con i tradizionali alleati socialisti socialdemocratici repubblicani e liberali diventi insopportabili. Allora anche gli anticomunisti più chiusi non disdegnano il rapporto “a tutto campo” anche con i comunisti, che vengono interpretati come ruota di scorta per fare operazioni a dispetto degli alleati che sarebbero in teoria preferiti, ma che andrebbero messi in regola. Questo è trasformismo, non un serio antidoto alla applicazione meccanica delle formule di governo dal centro alla periferia. Noi dobbiamo invece essere consapevoli che tutto quanto noi vediamo come instabilità di governo negli enti locali, come rottura dei vecchi equilibri e percezione di nuove alleanze è il sintomo di una crescita vitale della società che non sta più dentro certi involucri precostituiti. Sturzo ci ha insegnato che le economie locali sono proprio quell’ambito nel quale le esigenze del buon governo si manifestano diversamente che nel Parlamento nazionale. Per cui la questione delle giunte va liberalizzata non nel senso della riscoperta dell’autonomia locale di tipo sturziano che consente, per governare un comune e fare pulizia in una situazione compromessa, di sperimentare soluzioni che hanno la stessa dignità di altre.

E riferendomi direttamente alle prove dolorose che ci sono state anche tra di noi su questo punto, io sostengo apertamente che non dobbiamo denunciare ai probiviri i dirigenti locali che operano queste scelte, ma dobbiamo riconoscere in loro un’esperienza preziosa per tutto il partito. Se infatti noi togliamo al dirigente periferico il diritto di valutare come fare o non fare una giunta locale, assumendosi la responsabilità della scelta, noi non facciamo crescere la democrazia del paese. Siccome però questo problema delle giunte ogni tanto emerge e poi scompare, riemerge e poi scompare di nuovo, credo si debba una volta per tutte chiarire che le giunte diverse dal tradizionale non siano giunte anomale, ma siano giunte che rientrano nella valorizzazione delle autonomie locali, e che andrebbero attentamente valutate per evitare fenomeni di degenerazione trasformista. Seguendo questo orientamento si possono creare delle condizioni di agilità politica per riforme elettorali che non nascondano il trabocchetto di liberarsi della politica attraverso la legge elettorale. Per quanto attiene poi al livello legislativo, devo dire che oltre al tema elettorale, che possiamo verificare, vi è tutto il ritardo assai grave della legislazione che continua ad essere centralista e sostanzialmente contraria alla crescita delle autonomie locali.

Il quinto punto riguarda il tema del partito. Ballarin ha fatto una lettura come sempre intelligente della relazione di De Mita, che impure ho votato in Consiglio Nazionale, però la relazione ha evitato di affrontare i temi del partito che in realtà comportano un chiarimento che non è facile nemmeno tra noi. Intanto dobbiamo dire che il rinnovamento avviato da Zaccagnini e da De Mita non deve essere interrotto e soprattutto non deve tornare indietro. Quando si fanno delle ammucchiate contro questo segretario, magari a favore di un altro che sarà domani nel segno della nostalgia, dobbiamo vedere che cosa c’è nel partito dietro gli altri leaders, dietro Andreotti, Forlani, Piccoli, Donat Cattin. E quindi non inversione di marcia, ma correzione: il che significa ritorno al confronto per tendenze politiche, per idee, e quindi rivalutazione della funzione delle correnti e della loro capacità di elaborazione.

Io non condivido l’opinione che i chiarimenti nel partito debbano avvenire per c contrapposizione di blocchi a livello regionale. Sia ben chiaro: non sono contro la regionalizzazione del partito, tanto che in un lontano convegno di San Pellegrino ho presentato addirittura un rapporto per accompagnare la realizzazione dell’istituto regione con la regionalizzazione del partito. ma il partito n on può diventare una somma di regioni: la Democrazia Cristiana è un grande partito nazionale che si articola regionalmente, non una federazione di regioni addirittura contrapposte tra di loro, con il rischio di dar voce anche a motivazioni esasperate al localismo. Lo schema bavarese ha altre motivazioni storiche e non può certo essere invocato nel caso italiano, se non a scopi frazionistici.

Un altro elemento che mi trova fortemente critico nell’0attuale gestione del partito è quello relativo al commissariamento dei grandi centri. Liquidare il vecchio, perché insufficiente, ed esaltare il nuovo senza mai definirlo, è pericoloso, perché introduce solo l’arbitrio. Non si può commissionare per lungo periodo realtà di partito, senza precisare anche i termini temporali i poteri del commissario, senza dare agli iscritti la possibilità di sapere quando avranno di nuovo la possibilità di determinare democraticamente i loro comportamenti.

E ancora: non si può presentare 1'elezione diretta del segretario politico a livello nazionale, regionale e provinciale, come la soluzione di tutti i nostri problemi. In ogni sistema presidenziale vengono fortemente rafforzati i poteri degli organi collegiali, perché 1'esigenza di autorevolezza nella guida deve combinarsi con una ricchezza di apporti nella discussione interna, che deve essere alla base di ogni decisione. Sono rimasto solo, dopo le elezioni, a chiedere un Consiglio Nazionale per discutere i risultati elettorali e affrontare la formazione del governo su di una base che doveva essere diversa dal discorso propagandistico elettorale. Questo Consiglio Nazionale non si è voluto fare perché da troppo tempo è caduta 1'abitudine a discutere nelle sedi istituzionali del partito la linea politica sulla quale poi il segretario porta avanti la sua iniziativa.

Pochi Consigli Nazionali, pochissime direzioni, riunioni che spesso sono di ratifica di decisione già prese, processo di formazione della classe dirigente che non avviene più sullas base del dibattito delle idee e delle scelte conseguenti, ma sulla base della cooptazione dei fedeli, anzi dei "fedelissimi". Se quindi siamo d'accordo nel dire ce il rinnovamento va continuato, occorre però anche sottolineare ce va corretto profondamente attuando meccanismi dì maggiore democraticità interna di ripristino del dibattito politico e programmatico, di gestione collegiale, di ripensamento degli uffici. Riguardo a questi ultimi è a tutti nota la loro moltiplicazione, dovuta spesso a sistemazione "di consolazione" per mancati incarichi ministeriali, e il loro costo eccessivo sia in rapporto all'efficacia del loro lavoro, sia in rapporto alle esigenze pressanti, talvolta addirittura di sopravvivenza degli organismi periferici (segreterie provinciali, soprattutto).

Non si tratta allora di andare al Congresso solo per eleggere De Mita o Martinazzoli, o magari Galloni, o Gava, ma di impostare un dibattito per arrivare all'elezione di un gruppo dirigente che completi il rinnovamento avviato e lo arricchisca proprio nei punti in cui è risultato carente, perché è da queste carenze che è derivata la debolezza dell'iniziativa del partito. Questi passaggi chiarificatori evidentemente non passano attraverso la pratica dei listoni, pratica che è deteriore a Roma così come a Milano. Le intese di convenienze e di potere, i falsi unanimismi, sono negativi quando si fanno in sede nazionale, ma lo sono altrettanto in Sede regionale.

Su questi cinque punti sono possibili molti approfondimenti, ed io mi auguro anche di recuperare talune difformità di valutazione che sono riemerse in questa discussione. Non mi illudo che sia facile, ed ho comunque un grande rispetto per la diversità di opinioni quando sono sincere e motivate. In ogni caso ritengo che non sia possibile procedere ad un chiarimento net partito sotto la spinta della sinistra politica della Democrazia Cristiana senza affrontare i temi del governo sulle giunte e la gestione interna della democrazia Cristiana.

Se siamo d'accordo nell'aprire una grande stagione di discussione, a tutti i livelli, dobbiamo anche essere d’accordo nel rifiutare da subito certi comportamenti: dobbiamo rifiutare di partecipare a Congressi celebrati a tavolino, dobbiamo escludere di partecipare ad alleanze che non siano precise sul terreno dei contenuti e delle modalità di gestione, dobbiamo rifiutarci di partecipare ad un Congresso nazionale imperniato sul referendum pro e contro la Segreteria. Tutto questo può portarci a dei passaggi difficili che possono concludersi anche con una scelta minoritaria, di opposizione. Molti ovviamente si chiedono come si possa essere di sinistra, e addirittura come si possa pensare di passare alla opposizione con tutte le responsabilità anche istituzionali che abbiamo. La sinistra si fa a vent'anni, oppure - in mancanza di alternative - si inventa un gruppo di sinistra per entrare negli equilibri di potere, ma una volta entrati nel potere si estingue la società essendo stati raggiunti gli scopi sociali. II vecchio slogan: "A vent'anni a sinistra, a quaranta al centro, a sessanta a destra", sembra ancora valido per molti, e l'idea che uno che va verso i sessant'anni pensi ancora alla sinistra appare romantica o, peggio, maniacale. Ora io ribadisco con orgoglio che dalla nascita della Base a Belgirate ad oggi, noi non siamo mai stati la sinistra del più uno, la sinistra sociale, il gruppetto nato per contrattare gli equilibri di potere. Noi siamo sempre stati - e forse possiamo tornare ad esserlo - la sinistra che indica a tutto il partito una politica coerente con la sua natura, con la sua tradizione popolare, con i suoi valori di fondo. Consapevole di questo ruolo, la sinistra non può permettersi nè l'orgoglio integralista delle sue tesi, nè l'arroccamento su se stessa, ma deve ricercare le collaborazioni perché queste tesi diventino patrimonio di tutto il partito.

Nessuno quindi pensa che rilanciare la sinistra significhi raggiungere i lidi della testimonianza, anche se io mi rifiuto di credere che "testimonianza " sia una brutta parola, perché testimonianza è un dovere della politica: si testimonia facendo il ministro in un certo modo, si testimonia facendo il sindaco in un certo modo, si testimonia facendo il segretario in un certo modo.

E ancor più duramente contesto quanti credono the la sinistra non abbia oggi la possibilità di offrire a tutto il partito una linea sui temi che ho indicato. Cito i primi nomi che mi vengono in mente: De Mita, Goria, Martinazzoli, Galloni, e quanti altri potrei mettere in fila, per storia personale, per maturità culturale

e, se mi passate la parola, per intelligenza politica, sono il meglio che esista nella Democrazia Cristiana e hanno tutta la capacità - se ritrovano un senso collegiale di impegno - di dare al partito quella spinta, quell'iniziativa, quella qualificazione, che sono necessarie per far riprendere alla Democrazia Cristiana la

sua funzione di grande partito popolare.

A Belgirate, più di trent'anni fa, abbiamo iniziato un lungo cammino. Paradossalmente ora la situazione è più difficile, ma noi siamo consapevoli e delle difficoltà e delle nostre possibilità. II documento che pubblicheremo domani, e che verrà mandato a tutti gli amici, dà il senso della nostra ripresa e serve di orientamento almeno sui punti sui quali più manifesto è stato 1'accordo. Sul problema delle giunte locali, quand'anche non fossero così garantite come a Vimercate, non si potrà più intervenire soltanto con metodi sanzionatori. Sul fatto che rilanciamo la sinistra e per questo intendiamo qualificarci su alcuni temi, che approfondiremo in vista del prossimo Congresso, credo siamo tutti d'accordo. Questo non è stato un convegno consolatorio, dove tutti ci siamo sfogati, questa volta o si riprende con una netta qualificazione politica, o la nostra funzione è esaurita, e i Congressi nazionale, regionale e provinciale avverranno al di fuori della nostra logica. Troppi oggi si preoccupano non della linea da dare al partito, ma di organizzare gruppi per condizionare chiunque dirigerà il partito. Le correnti sono tornate ad essere corposi gruppi di interesse, e per battermi contro questa concezione del partito ed aiutare il Segretario - chiunque esso sia - a portare avanti una linea di movimento valida per tutta la Democrazia Cristiana, io sono disposto a prendere la mia parte di responsabilità. Ma la svolta deve avvenire nei comportamenti, non soltanto nei discorsi. Per svolte fittizie io non sono disponibile.

Quaderni della Base
Atti del Convegno tenuto al centro congressi Leonardo da Vinci a Bruzzano
26 settembre 1987
Luigi Granelli