L'ALBANIA NON È UN PROTETTORATO

Angelo Panebianco ha scritto un fondo del “Corriere della Sera” per invitare il Governo a mettere subito in campo una “missione militar-umanitaria” la cui azione sarà lunga perché non potremo evitare di accollarci l’onere della pacificazione, del disarmo, con le buone o con le cattive, delle varie bande di pistoleros sperse per l’Albania. Premessa indispensabile perché sia anche possibile contribuire alla ricostruzione economica del “protettorato” (usiamo senza ipocrisia, le parole giuste) di Albania. L’operazione avrebbe anche il vantaggio di mettere “gli struzzi ed i farneticanti”, cioè i buonisti della crociata “cosmopolita-multiculturalista”, nelle condizioni di “non nuocere”.

Non è di meno su “Repubblica”, Alberto Flores d’Arcais. Poiché l’Italia “dovrà cavarsela da sola”, non potendo disporre della bandiera europea, l’editorialista si augura che il Governo sia consapevole che il giorno in cui una “forza di intervento militare metterà piede sul suolo albanese lo farà sotto il tricolore e sapendo che ogni errore, ed un eventuale fallimento, ricadrà interamente sul nostro Paese. Se ci saranno incidenti occorrerà “tenere i nervi saldi ed evitare i facili mammismi” che hanno accompagnato le nostre truppe nel Golfo ed in Somalia. È una prova del fuoco, ma superandola, l’Italia “potrà definitivamente considerarsi una potenza regionale e marcare un punto in più nella marcia verso l’Europa”. Tra i commentatori di primo piano solo l’ambasciatore Sergio Romano ha messo in guardia, con lucide argomentazioni  su la “Stampa”, i gravi pericoli e le scarse probabilità di successo di un intervento militare, specie se a prevalente responsabilità italiana. Nel frattempo taluni comportamenti ufficiali del Governo hanno contribuito a diffondere, con annunci affrettati, semplicistiche attese di soluzioni affidate, insieme ai soccorsi umanitarie, alla presenza di un contingente militare. Si è addirittura insistito su un possibile interevento di polizia internazionale, salvo poi ripiegare, in conseguenza delle difficoltà incontrate in sedi europee, su formule più ambigue. Sono state anche diffuse, autorevolmente, versioni di decisioni prese a Bruxelles a favore di un intervento militare a guida italiana verificatesi poi assai più complesse. Si continua a dare per scontato il sostegno dell’organizzazione per la sicurezza europea mentre è in corso, a Vienna, una istruttoria che pur non escludendo una forza militare di “protezione” degli aiuti costituita dai Paesi disponibili, a cominciare dall’Italia, si cerca giustamente di vincolare, d’intesa con lo stesso governo albanese, a mandati precisi data la grande delicatezza di un simile intervento.

C’è troppa insostenibile leggerezza attorno alle varie ipotesi di intervento militare in Albania. Sono fuori discussione le particolari responsabilità dell’Italia. Basterebbe la considerazione degli effetti dell’ondata dei profughi, della massiccia infiltrazione di immigrazione clandestina, della consistente presenza di attività economiche italiane, dei problemi di sicurezza nell’Adriatico e nell’intera area, per comprendere l’importanza di un nostro contributo di primo piano, sia pure ancorato ad una indispensabile solidarietà europea ed internazionale.

Ma questa consapevolezza non ha niente a che fare con la nostalgia di antistorici “protettorati”, che evocherebbe a nostro svantaggio solo la megalomane ed odiosa occupazione fascista dell’Albania nel 1939. Né l’intervento italiano può essere paragonato ad una occasione per conquistare finalmente, “manu militare”, un rango di potenza europea. Il nostro vero problema è quello di cooperare efficacemente, insieme ad altri, per arrestare in Albania una esplosiva crisi economico-sociale, una decomposizione dello Stato che può avere effetti destabilizzanti di ampio raggio (si pensi al Kossovo ed alla Macedonia), una criminalità con risvolti internazionali, e per favorire la pacificazione interna che assicuri una massiccia ricostruzione, anche per offrire sbocchi produttivi all’inquietante emigrazione. L’Italia deve fare con impegno la sua parte e le scelte di fondo del Governo, come del Parlamento, sono condivisibili. Ma è un grave errore sottovalutare le difficoltà obiettive di un non meglio definito intervento militare e non informare di esse l’opinione pubblica in contro-tendenza rispetto a campagne stampa che esaltano le soluzioni di forza. L’Ambasciatore Romano non è non certo un portavoce di ingenui pacifisti quando ripete l’invito al realismo che non si può ignorare. L’intervento di una forza militare più o meno multilaterale in un Paese straniero deve disporre, oltre che di una legittimazione internazionale, di un mandato specifico, ben definito, sull’uso delimitato delle armi. Anche le iniziative dell’ONU non prescindono da questi vincoli. Non è quindi il timore per gli eccessi di “mammismo”, in caso di incidenti, che deve indurre a cautele che solo un insano avventurismo potrebbe non avere. Sotto questo profilo è un passo in avanti, in vista dell’intervento in Albania, la definizione di una forza di “protezione” degli aiuti umanitari che molti Paesi sono disposti a dare.

Ma basta garantire una specie di scorta ai soccorsi, per portarli a buon fine, in un Paese in cui le forze legalmente preposte alla tutela dell’ordine pubblico sono sommerse dalla protesta e dalla criminalità organizzata? Che si fa carico, e a che titolo, di disarmare gran parte della popolazione? Quali conseguenze potrebbe avere, per i Paesi che eventualmente costituiscono questa forza, l’uso delle armi sia pure in caso di difesa, di attentati, di sequestro di persone?

Non sono domande di poco conto. Alla base della contrarietà di autorevoli Paesi europei, solitamente interventisti in aree connesse al loro passato coloniale o a perduranti interessi di potenza, come di sperimentare organizzazioni europee ed internazionali, ci sono difficoltà reali. La retorica dell’Italia che ha l’occasione di cavarsela da sola è solo un espediente tardonazionalista. Non è da escludere che tra i Paesi disponibili si tenda, a cominciare dalla Francia che non ama mettere i suoi militari sotto un comando altrui,a correggere generiche dichiarazioni e che l’ONU, giustamente interpellato, sollevi obiezioni o chieda garanzie.

L’Italia, nonostante il riscaldamento al bordo del campo con superflue esibizioni di attivismo militare, è esposta a una pericolosa frustrazione nel caso in cui, dopo tanti annunci, l’intervento fosse scarsamente praticabile o è destinata a correre gravissimi rischi nel sobbarcarsi il peso prevalente di una operazione poco chiara nei suoi obiettivi. È perciò augurabile una maggiore riflessione. Bisogna puntare di più, con determinazione multilaterale, su trasparenti assunzioni di responsabilità dell’Unione Europea, di altre organizzazioni internazionali quali l’OCSE e l’ONU.

Gli aiuti all’Albania e le garanzie per il loro corretto utilizzo sono essenziali per aprire spiragli positivi ad una crisi senza precedenti, ma non ci si può limitare a questo. Troppo trascurato, sinora, è il problema dell’agilità politica di una solidarietà efficace che non può ridursi ad aiuti di emergenza. Nel ripetere un accorato appello all’accoglienza per chi si trova in condizioni drammatiche, il Cardinal Martini ha ricordato che l’assistenza umanitaria, doverosa, non risolve da sola, anche in Albania, “un problema che è di carattere politico e riguarda la politica internazionale”.

È discesa da questo opportuno richiamo l’esortazione, priva di spirito di interferenza, a sostenere gli “sforzi di tutti i governi, di tutte le persone responsabili, perché facciano sì che non si verifichino eventi che abbiano conseguenze irreparabili”. Non va dimenticato che anche interventi militari allarmanti e malconfezionati potrebbero accentuare il disastro. Non si tratta soltanto di inviare in Albania aiuti e di proteggerli, ma di aprire la via ad una efficace collaborazione internazionale che consenta di ripristinare l’ordine pubblico e di avviare in un clima di concordia una impegnativa ricostruzione istituzionale, economico e sociale.

Nessun intervento di questo tipo è possibile senza una stretta e trasparente collaborazione con l’autorità legale del Paese aiutato. Se permangono nei fatti, al di là della stessa volontà del precario governo in carica, fattori di estrema lacerazione politica ed istituzionale, che tocca in primo luogo agli albanesi rimuovere, è fatale che chiunque intervenga sia coinvolto nel sanguinoso contrasto in corso. Non è certo tranquillizzante, in proposito, l’intervista concessa alla televisione italiana del presidente Sali Berisha per sollecitare aiuti e sostegno militare.

Per questo l’Italia, confermando senza incertezze la sua disponibilità a concorrere a soluzioni utili anche sotto il profilo della sicurezza, dovrebbe sollecitare, insieme all’Unione Europea, un concreto sforzo di ricomposizione istituzionale, sancito dalla formazione di un più ampio e solido governo di pacificazione interna, come precondizione indispensabile per togliere agli interventi richiesti quegli aspetti avventurosi che sarebbe un irreparabile errore sottovalutare.

Luigi Granelli
Il Popolo
29 marzo 1997