LA CULTURA DELLA LEGALITÀ: CONDIZIONE ESSENZIALE PER LA DEMOCRAZIA

Tutti uguali davanti alla legge

In una delle sue ultime sortite contro la magistratura Silvio Berlusconi ha ripetuto, con l’occhio rivolto ai processi che lo riguardano, che certi Pubblici Ministeri usano la legge per distruggere gli avversari politici della sinistra e sono paragonabili alle “brigate rosse”. Le parziali rettifiche non hanno modificato queste gravi affermazioni che minano, alla radice, il principio costituzionale dell’indipendenza della Magistratura. È da condividere il comunicato dell’Associazione nazionale magistrati che rifiuta di farsi trascinare “in un clima di scomposti insulti che dimostra l’assenza di argomentazioni razionali e di senso dello Stato da parte di ricorre alla contumelia”. Ma gli appelli non bastano.

Tocca soprattutto ai politici che hanno una visione corretta dei problemi della giustizia tracciare un limite netto, invalicabile, in difesa della legalità e dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Una delle anomalie che impediscono in Italia di affrontare con rigore i problemi dell’ordinamento giudiziario è il perdurante conflitto di interessi tra Silvio Berlusconi e le istituzioni. In un nessun paese democratico è immaginabile l’utilizzo del ruolo dell’opposizione per contrastare con mezzi politici l’operato della Magistratura. Questo vulnus, di per sé inammissibile, è aggravato dalla pretesa di contrattare ogni intervento legislativo in materia di giustizia in base a reiterati interessi di parte.

La giustizia non può essere materia di scambio

Uno sconcertante esempio delle richieste di scambio dell’on. Berlusconi in materia di giustizia, assecondato da indescrivibili cedimenti nelle molte bozze del relatore Boato, si è avuto nella Bicamerale. Ma la propensione al “do ut des” è continuata. I DS, facilitati dall’appiattimento di altre posizioni, PPI compreso, si sono spesso distinti nella ricerca ossessiva di intesa con questa destra per interventi legislativi più orientati a limitare l’iniziativa del Magistrati che a riordinare in modo trasparente, il sistema giudiziario e la sua capacità di fare giustizia in tempi rapidi.

La lezione di “tangentopoli” non sembra aver lasciato traccia. L’esplosione della “questione morale”, che continua a essere attuale perché la politica è sempre minacciata da rischi di corruzione, è stata utilizzata per sostituire gran parte della classe dirigente di allora, ma non ha dato avvio a riforme capaci di prevenire i reati contro la pubblica amministrazione e di assicurare un più efficace funzionamento della Giustizia. Ed è via via mutata la percezione dell’importanza del processo di risanamento morale della vita pubblica e spesso, ora, sono i Magistrati a essere sotto accusa. Non si tratta certo di avere nostalgie per campagne moralistiche poco utili a far luce sul malcostume.

Un vero senso di giustizia contrasta con la tendenza a fare processi sommari, sulle piazze o dalle colonne dei giornali, e richiede la tutela dei singoli cittadini a difendersi da infondate accuse. Ma anche questa regola è offuscata dalla pretesa teorizzata da Berlusconi e da altri ad autoassolversi e a sottrarsi ai controlli di legalità sul loro operato. Si preferisce denunciare complotti politici, aggredire la Magistratura, anziché dimostrare la propria innocenza o contrastare con gli strumenti a difesa prevista dall’ordinamento possibili forzature o abusi.

L’appello dei vescovi per una cultura della legalità

Il fenomeno di Tangentopoli, tutt’altro che concluso ha segnalato una caduta di costume, la perdita di riferimenti etici della politica, il degrado di molti apparati pubblici, il diffondersi di una prassi clientelare di potere, oltre che il ritardo a riformare le leggi e l’ordinamento giudiziario. La situazione che è venuta a crearsi esige una seria riflessione e una forte iniziativa di quanti hanno a cuore i valori della legalità e della moralità nei comportamenti privati e pubblici. Una società democratica ha alla sua base il rispetto, da parte di tutti, della legge e esige una severa e efficiente amministrazione della giustizia, nel pieno rispetto dei diritti della persona sottoposta a giudizio che sono da tutelare anche in caso di condanna.

La Commissione “justitia et pax” ha elaborato, nel 1991, un pregevole documento, fatto proprio dalla CEI come nota pastorale, in cui si ricorda che la “legalità, intesa come rispetto a osservanza delle leggi è una forma particolare della giustizia”. In esso, inoltre, si faceva un pressante appello per creare nel Paese e nelle istituzioni una cultura della legalità perché se mancano o non si applicano chiare regole di convivenza “la forza tende a prevalere sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto, con la conseguenza che la libertà è messa a rischio fino a scomparire. La legalità, ossia la pratica delle leggi, costituisce perciò una condizione fondamentale perché vi siano libertà, giustizia e pace tra gli uomini”. (Nota pastorale della CEI, Edizioni Paroline, Roma 1994).

È un appello che dovrebbe trovare sensibili, in particolare, i cattolici impegnati in politica che hanno il dovere di essere in prima fila in un’opera di moralizzazione e di riforma. Questa ispirazione di fondo, sancita nella Costituzione, sarebbe di grande aiuto per opporsi a sconsiderate campagne di delegittimazione della Magistratura sia per avviare l’adeguamento delle leggi, la riforma dell’ordinamento giudiziario, il ritorno alla prassi del buongoverno. Per questo, prima ancora di un esame in merito dei singoli provvedimenti, si impone una riflessione strategica.

L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge

Non giova a nessuno un approccio affannoso ai problemi della giustizia. Lo si è visto nei lavori della Bicamerale, nelle ambigue incertezze della maggioranza di governo di fronte all’iniziativa incostituzionale per dare vita a una Commissione Parlamentare di inchiesta, in pratica, sull’operato dei Magistrati. È stato confermato con il faro di alcune leggi di grande delicatezza, come ad esempio l’introduzione del “giusto processo” in Costituzione, che sono apparse viziate da intese tra sinistra e destra che hanno riproposto la logica di scambio.

Anche l’opinione pubblica ha colto la contraddizione di quanti fanno sfoggio di “garantismo”, con l’occhio rivolto ai processi che riguardano deputati eccellenti, e poi non esitano ricorrere a legislazioni fondate sull’inasprimento delle pene, sull’arresto e il prolungamento della custodia cautelare, sulle indagini della polizia giudiziaria senza l’autorizzazione della Magistrato, nei casi di microcriminalità diffusa che, spesso, coinvolgono anche minorenni tutelati da norme del codice penale in vigore. E che dire dell’impiego dell’esercito contro la criminalità senza nemmeno autorizzazioni di emergenza?

Questa involuzione è causata, anzitutto, dalla radicalizzazione di uno scontro, assai strumentale, tra “garantisti” e “giustizialisti”. E , in secondo luogo, è prodotta dalla fuga in avanti per risolvere con la revisione della Costituzione problemi che richiedono invece un insieme organico di leggi ordinarie, la riorganizzazione di apparati e procedure, il rafforzamento qualitativo di una Magistratura veramente indipendente. Senza prendere le distanze da queste devianti impostazioni sarà difficile concorrere, come si fece all’Assemblea Costituente, a un’opera di m moralizzazione di riforma ispirata a prospettive di lungo periodo.

Il “giustizialismo” è estraneo alle migliori tradizioni dei cattolici democratici che, da Capograssi a Moro, hanno influenzato la parte relativa alla giustizia della Costituzione. La difesa della separazione dei poteri nello Stato e dei diritti della persona, il dovere dell’osservanza delle leggi dal più forte al più debole dei cittadini, il carattere non vendicativo della pena per favorire la reintegrazione sociale dello stesso condannato, sono i capisaldi di una concezione della giustizia che vanno tenuti fermi anche nel fronteggiare con adeguati provvedimenti la crisi attuale.

Nessun avallo va dato alle aberranti ipotesi di “rivoluzione giudiziaria”, di “Governo dei giudici”, che richiedono agli altri organi dello Stato, dal Parlamento al Governo, ferme risposte e la rivendicazione di un’autonomia non minore di quella che va riconosciuta alla Magistratura. E a maggior ragione va respinta ogni forma di “giustizia spettacolo” e deve essere riequilibrato il rapporto tra accusa e difesa perché ogni fase del procedimento, anche nell’applicazione della pena, siano tutelati i diritti inalienabili della persona. Ma ciò non deve tradursi in un uso strumentale del “garantismo” per frenare il corso della giustizia o per indebolire, con misure ad hoc, il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini, prescindere dalla loro posizione sociale, di fronte alla legge.

Quello che ha insegnato il Moro giurista

Aldo Moro ha sempre avuto un’idea lucida dell’importanza della giustizia in una società democratica. Anche quando alla Camera si oppose ai tentativi di processare in piazza la DC non intralciò in nessun modo, anzi sollecitò, accertamenti della verità che considerava doverosi. Ma ancor prima dell’Assemblea Costituente egli aveva sostenuto, nei suoi lavori scientifici e nelle lezioni all’Università di Bari (1944-45), una concezione della giustizia e del diritto rispettosa della persona e dei diritti sociali e assai lontana dagli estremismi “giustizialisti” e “garantisti”. (Guido Formigoni, Aldo Moro: l’intelligenza applicata alla meditazione politica, Edizioni Centro Ambrosiano, Milano 1997).

Per Moro era fuori discussione il primato della legge, come garanzia di armonia sociale e di tutela dei diritti e dei doveri dei cittadini, ma altrettanto importanti erano processi culturali che diffondano nella società un costume tendente a rafforzare una prassi di legalità.

“Dovunque gli uomini si incontrino – ricordava – è possibile e doveroso porre in modo pressante il tema della moralità privata e pubblica e di quei processi dello spirito senza dei quali le leggi sono deboli e forse vane”. Significativo è stato il suo contributo alla formulazione dell’articolo 27 della Costituzione, sul carattere “personale” della responsabilità penale, sulla esclusione della condanna a morte, su un’applicazione delle pene con trattamenti “non contrari al senso dell’umanità” e finalizzati alla rieducazione del condannato. Non minore fu il suo scrupolo a tenere distinta la norma costituzionale, ispirata a ragioni di principio necessariamente rigide, e la legge ordinaria destinata ad evolvere con i processi di trasformazione della società e con il suo comune sentire etico. Contrario alla pena capitale e, in via di principio, anche all’ergastolo, Moro si oppose ad introdurre la sua abolizione nella Costituzione perché era preferibile che la riforma, che sostenne apertamente negli anni settanta, fosse introdotta con una legge ordinaria anche in rapporto all’evoluzione sociale (Mino Martinazzoli, Francesco Tritto, Giuliano Vassalli, Giuseppe Bettiol, Aldo Moro e il problema della pena, Edizioni Arel, Il mulino, Bologna, 1982).

L’invito a riflettere anche sul prezioso insegnamento di Moro giurista e costituzionalista non è di tipo accademico. Sia la sua visione della giustizia ancorato al primato della legge e ai diritti della persona, sia la sua nota concezione dello Stato democratico, fondato sulla separazione dei poteri, mantengono un’evidente validità. Esse offrono ancor oggi un orientamento utile per diffondere una seria cultura della legalità per affrontare, in Parlamento, la revisione delle leggi e la riforma della Giustizia con un margine maggiore di iniziativa e di proposta.

La scorciatoia del “giusto processo” in Costituzione

È stata recentemente approvata al senato, e ora è in seconda lettura alla Camera, la legge costituzionale per l’inserimento in Costituzione del “giusto processo”. Si è tornati, in pratica, a quell’intesa tra i DS e la destra che ha influenzato negativamente i lavori della Bicamerale. È un esempio che merita qualche commento. Con la discussa riforma dell’art. 513 del codice di procedura penale si era andati oltre la giusta esigenza di meglio equilibrare i rapporti tra la difesa e l’accusa.

È indubbiamente una conquista di civiltà giuridica tutelare il diritto al contraddittorio nei processi. Ma la formulazione legislativa, ampliata su richiesta, dell’on. Berlusconi, aveva la conseguenza di cancellare indizi e di annullare molti processi per effetto della facoltà data ai testimoni, specie se oggetto di minacce e ricatti, di rifiutarsi di deporre di fronte al Giudice sulle dichiarazioni rese in istruttoria. La Corte Costituzionale, come è noto, ha corretto questa impostazione sollevando forti polemiche.

Il Parlamento poteva intervenire nuovamente, tenendo conto della sentenza della Consulta, ma ha preferito superare il conflitto, sotto la spinta delle forze interessate a quella norma, una specie di “super 513” messo al riparo da ogni giudizio di costituzionalità. La scorciatoia, come si vede, è abbastanza avventurosa. Il risultato è stato quello di dare rango costituzionale a norme di legge ordinaria e di indebolire le definizioni di principio sul “giusto processo” che trovano collocazione nella Costituzione.

Il precedente oltre che singolare è assai pericoloso. Mino Martinazzoli ha giustamente scritto sulla rivista Liberal che è stata “corretta la Costituzione contro la Corte costituzionale. Poiché una sentenza della Corte ha ritenuto incostituzionale il contenuto di una norma “ordinaria”, si barrica questo stesso contenuto dentro le inespugnabili mura di un articolo della Costituzione”. E aggiunge che, per tutelare particolari, si è dunque ricorsi a “un impianto normativo che rischia di mortificare il lessico costituzionale al livello di un prontuario o di una circolare prefettizia, ma non è una novità se si pensa alla debordante sintassi delle bozze bicamerali proprio con riferimento alla giustizia”.

È la critica del tutto condivisibile di un ex-Ministro della Giustizia molto apprezzato. Si potrà correggere questa impostazione alla Camera? Si potrà tenere conto del monito di Moro a non confondere la norma costituzionale con le discipline tipiche della legge ordinaria? Lo si vedrà, ma è certo che se non si avrà il coraggio di sciogliere il nodo dello scambio tra sinistra e destra non si avranno né una seria riforma della Costituzione, né l’avvio di una serie di leggi ordinarie per riformare l’ordine giudiziario e procedure che favoriscano, nel rispetto del diritto, una trasparente giustizia.

L’esempio portato, da approfondire, vale per sottolineare, come nei casi precedenti della Bicamerale, della Commissione di inchiesta parlamentare lesiva dell’indipendenza della Magistratura, della legge sulla microcriminalità, la necessità di un’inversione di tendenza nell’affrontare i problemi della giustizia in Italia. È necessario un severo confronto in Parlamento. Si parla tanto, soprattutto nel Ppi, della difesa dell’identità, ma a questo proposito va ricordato che i comportamenti coerenti, più che i richiami astratti ai principi, possono dimostrare che non si sono smarriti i propri valori e le migliori tradizioni dei cattolici democratici. La difesa della “cultura della legalità” contro i gratuiti attacchi alla Magistratura e una seria riforma della giustizia sono parte di questa ineludibile prova.

Luigi Granelli
Il Popolo
28 marzo 1999