IL VIRUS PRESIDENZIALISTA DI "LIBERAL", OVVERO LA CENTRALIZZAZIONE DEL POTERE

La rivista, dopo un esordio che sembrava ispirarsi a un confronto tra laici e cattolici di stile "degasperiano", si qualifica come portavoce delle tentazioni autocratiche. Al di là del dissenso sulla scelta del presidenzialismo, è la gracilità del disegno politico e la pretesa di affidarlo alla pura e semplice pressione di una "lobby" che impressiona.

In una interessante intervista sul “Corriere della Sera” Mino Martinazzoli prende le distanze dal progetto presidenzialista della rivista “Liberal”, cui collabora sin dal suo sorgere. Il fatto è politicamente rilevante. La presa di posizione è riferita alla disponibilità di Ferdinando Adornato di discutere di presidenzialismo, non di un nuovo Polo, con la destra di Fini.
“Mi sento più popolare che liberal” ha detto significativamente Martinazzoli, aggiungendo di condividere l’impostazione di politica istituzionale di Romano Prodi. Adornato ha risposto di considerare legittima la diversità di copione di Martinazzoli, perché “Liberal” non è un partito, ricordando a sua volta che il progetto presentato vuole soprattutto “superare la centralità del Parlamento”.
La discussione è molto importante. Ad una valutazione critica del progetto di “Liberal” è dedicato un saggio di Luigi Granelli, scritto per la rivista “Cultura” di Firenze, che “Il Popolo” è lieto di riprendere. In esso si auspicava la presa di posizione che Martinazzoli ha cominciato a prendere.

In pompa magna, come si addice agli eventi mondani, si è dato luogo a Milano, al Circolo della Stampa, alla presentazione del documento elaborato dalla rivista “Liberal” per realizzare finalmente in Italia la seconda Repubblica. Un “cast” d’eccezione ha tenuto a battesimo l’iniziativa. Adornato, grande promotore deluso dell’esperienza a sinistra, e soprattutto Cesare Romiti. E poi Galli, Della Loggia, Rumi, Baldassarre, Barbera, Brancoli, Panebianco, Romano e Mino Martinazzoli, al solito un po’ perplesso, ma presente. Non c’è stata discussione perché la formula della Conferenza stampa, stracarica di televisioni in cerca di battute, è giustamente riservata agli addetti ai lavori e serve alla politica spettacolo. È probabile che questo si volesse. L’eco sulla stampa è stato esteso. Almeno l’effetto “lobby” si è avuto, come gruppo di pressione. In modo più marcato sulla stampa piuttosto sensibile ai grandi interessi economici.

Generale attenzione è stata dedicata alla presenza di Romiti. Non è dato sapere in che misura abbia contribuito alla stesura del documento presentato. Poco decifrabile è stato anche il suo intervento, limitato a sottolineare una scelta esclusivamente personale e a fare un elogio della stabilità essenziale alla crescita della produzione, ma senza dubbio è significativa – tra tanti consiglieri del principe – la presenza del manager per eccellenza.

La tradizione politica dei cattolici democratici

Pininfarina, ex presidente della Confindustria in buoni rapporti con Agnelli, ha precisato autorevolmente che “non c’è niente di male che un industriale si interessi di fatti collettivi, politici e abbia una parte attiva” aggiungendo che “è vero che Romiti non parla a nome della Fiat, ma parla con l’esperienza di chi ha guidato la Fiat per tanti anni”. Ed è anche vero che egli sostiene da tempo il maggioritario, il bipolarismo, una semplificazione politica che renda più agevoli i rapporti con il mondo economico. È perlomeno il segnale che i “grandi interessi” di maggior consistenza economica vogliono esercitare in proprio un’azione di “lobbying” per distinguersi, tranne che nel desiderio di blocchi alternativi teleguidati, dalla discesa in campo di Berlusconi che, pur essendo ben accolto su “Liberal”, non sembra aver dato buona prova nel perseguire un disegno forse superiore alle sue forze e comunque non privo di ostacoli reali.

C’è da riflettere sulla tendenza ad occupare direttamente, in nome dei propri interessi, il vuoto lasciato dalla politica e di modellare su questo processo, che lascia alle sue spalle con la partitocrazia l’alto grado di partecipazione popolare sancito dalla Costituzione, istituzioni di stampo presidenzialistico e stabilità di governo. “Liberal” si è sempre qualificata, dopo un esordio che sembrava ispirarsi ad un confronto tra laici e cattolici di stile “degasperiano”, come portavoce delle tentazioni autocritiche molto presenti tra i sostenitori degli interessi forti.

Ne sono abbondante riprova gli attacchi che questa rivista ha rivolto a Rossetti, a Moro e sul versante opposto agli intellettuali di sinistra che, rimanendo ancorati alla Costituzione, sono incapaci di rinnegare interamente il loro passato. Può darsi che il cattolico Rumi, operoso tessitore di tele moderate in nome della Patria e della religione, e che il “popolare” Martinazzoli, assorbito dal suo gusto letterario nelle rubriche di costume, non si siano accorti dell’involuzione a senso unico di “Liberal” culminata nel recente documento-manifesto.

La svolta di questa esperienza è quantomeno allarmante per i cattolici democratici che non intendono cancellare dal loro impegno culturale e politico attuale le lezioni di Rosmini, di Sturzo, del “professorini” dell’Assemblea costituente e di Aldo Moro. Si tratta di una amara constatazione, non di un pregiudizio, confermata dalla valutazione attenta riservata sin dall’inizio alla rivista di Adornato, Della Loggia e Rumi. 

La conferenza stampa di Milano, turbata dal solito spettacolino delle domande al dott. Di Pietro, presente per imparare, ma non indifferente alla sortita, è stata un po’ confusa, sommaria e assai velleitaria. Nemmeno la attenta lettura del documento distribuito, alla luce di altri e più corposi interventi dei suoi estensori su giornali e riviste, ci ha aiutato. In altra occasione potrà essere fatto un esame approfondito, ma la lettura degli intenti immediatamente politici è deludente. 

Ma al di là del dissenso di merito sulla scelta di fondo del presidenzialismo, è la gracilità del disegno politico e la pretesa di affidarlo alla pura e semplice pressione di una “lobby” che impressiona. Nessuno è stato risparmiato. La destra, divisa al suo interno, è criticata per aver dimostrato, con l’esperienza negativa di un governo condizionato dalle insofferenze della Lega, di essere incapace di fare la Seconda Repubblica e di voler sfruttare la scadenza elettorale a soli fini di potere. 

Il centro-sinistra, frutto di intese eterogenee che si ostinano a difendere i partiti ed una coalizione tra diversi, è giudicato troppo ancorato alla Costituzione del 1947, che sarebbe ora di accantonare, per poter raccogliere la sfida del futuro dando vita alla Seconda Repubblica. Un centro animato da notabili senza partito sarebbe bello, ma è ritenuto troppo esiguo per competere con successo in un sistema bipolare e maggioritario.

E allora? Non c’è che la ricetta “Liberal” confezionata con tecnica sapiente da politologi trasformatisi, senza il travaglio della partecipazione democratica, in politici pronti a salvare la Nazione dal suo declino. “Senza ridisegnare il profilo di tutti i poteri – sentenzia il documento elaborato, che di fatto li ridimensiona a vantaggio del presidenzialismo – l’Italia non uscirà mai dallo stallo in cui si è cacciata”.

Ammettiamolo pure, ma chi si impegna per la sua attuazione? Vi presenterete alle elezioni? Chi sosterrete? Pensate di dar vita ad un partito, ad un movimento? A queste domande, del tutto pertinenti, non si è data alcuna risposta. I promotori di “Liberal” hanno precisato che intendono solo essere un gruppo di pressione, una “lobby”, per costringere altri a fare quello che è troppo difficile tentare di realizzare in prima persona.

La manipolazione dell’opinione pubblica

La formula è più vicina ai progetti di manipolazione dell’opinione pubblica, ai regimi plebiscitari che non hanno conosciuto il liberalismo, che non alla democrazia dell’alternanza nelle sue varie edizioni. Per quanto riguarda poi il “virus” presidenzialista – che è al fondo di questo ambizioso disegno politico – esso serve solo ad alimentare una inquietante febbre autoritaria nel sogno di poteri personali diretti che configgono con i fondamenti della Repubblica parlamentare.

Non a caso il Parlamento è stato il bersaglio di molti interventi dell’equipe di “Liberal”, in particolare da un sorprendente Sergio Romano. Politicamente la sortita è apparsa, di fatto, sbilanciata più verso il Polo della destra che non del centrosinistra. Il sospetto di agire per conto di altri ha irritato Galli della Loggia, che ha risposto sul “Corriere della Sera” che le regole sono di tutti e non degli uni o degli altri.

L’idea di cavalcare sia la continuazione della legislatura, con un Governo consociativo, sia l’immediato scioglimento delle Camere, mostra un possibilismo più vicino a politici accomodanti che ad intellettuali decisi a scegliere e a difendere con rigore le loro proposte. La prima ipotesi è motivata dalla speranza della realizzazione, con l’apporto di tutti, di una repubblica presidenziale proposta con l’offerta di vari modelli, tutti importanti, ispirata ad una logica di centralizzazione del potere che piace alla destra.

La seconda ipotesi, nel caso di elezioni anticipate da fare subito, è ancorata ad un piccolo passo verso una accentuazione del sistema elettorale maggioritario condensato nella proposta minimale, accolta con freddezza in Parlamento, di Augusto Barbera. Non ci sono terze vie. Nemmeno quella, ragionevole, che ogni democratico dovrebbe essere portato a considerare, del varo di normative rassicuranti in materia di “par condicio”, di conflitto di interessi, di antitrust, per dare a tutti garanzie di trasparenza in un imminente confronto elettorale.

Esercitazioni di pura ingegneria costituzionale

Sarebbe una perdita di tempo, un tirare a campare da prima repubblica, si è fatto capire in sintonia certa con Berlusconi. Sul piano delle tesi si avverte poco di nuovo e preoccupa la mancanza di risposte ad obiezioni altrettanto note. Come si può pensare ai poteri del Presidente americano, che si trasformerebbero in Italia in una pratica di autoritarismo, senza riscrivere completamente la Costituzione per potenziare ed introdurre preliminarmente i contropoteri del Congresso, dell’Alta Corte, di un sistema federale, di una stampa forte ed indipendente, e stabilire, come in USA, limpide garanzie in materia di conflitto di interessi?

Che senso ha suggerire, in alternativa, un sistema “semipresidenziale”, alla francese, che indebolisce in ogni caso il primato del Parlamento, non dei partiti malati di partitocrazia, ed esporrebbe l’Italia, in caso di “coabitazione”, alla paralisi politica e ad una crisi istituzionale senza rimedio? E ancora, perché rifiutare il “cancellierato” alla tedesca, bilanciato dal Parlamento e da un vitale sistema di autonomie, che altri – ed in particolare il PPI e il PDS – propongono con più aderenza alla realtà italiana?

Sono sempre rischiose discussioni che si limitano a modelli astratti di Stato, ad esercitazioni di pura ingegneria costituzionale, ed il pericolo aumenta quando si constata che nel documento di “Liberal” non c’è traccia né dei problemi sociali, economici, che sono tanta parte della crisi, né di quelli storici nel senso di una corretta valutazione delle forze reali che hanno animato e animano, in Italia, la dialettica democratica.

Sembra essere una tentazione consociativa, una voglia di governassimo, che dovrebbe almeno dare forza all’idea del centro-sinistra di modificare la Costituzione con larghe maggioranze, con quel rafforzamento dell’art. 138 che la destra si propose di smantellare, ma invece la “lobby” di “Liberal” vede in questa procedura un residuo della prima Repubblica e preferisce sognare un impossibile accordo di tutti.

La proposta è altrettanto politicamente ambigua e pericolosa. Con essa appare un ruolo di “Liberal” assai lontano dal dialogo avviato all’inizio che avrebbe dovuto coinvolgere i cattolici democratici ed i laici riformisti che, come Dovetti e Bobbio, respingono il populismo e le scorciatoie di una democrazia plebiscitaria foriera di autoritarismo.

Se ne rende conto Giorgio Rumi che non può ignorare, pur nel suo moderatismo, i valori del pluralismo e le conquiste dei cattolici italiani del Risorgimento alla democrazia post-fascista? Vuol prendere coscienza Martinazzoli che il PPI “sturziano”, da lui fondato, non può che essere su un fronte culturale e politico assai diverso?

Non manca a questi amici la preparazione culturale e l’esperienza politica per capire che il ruolo di “Liberal” sta sviluppandosi in una direzione diversa dai propositi iniziali. Da questi sviluppi almeno Martinazzoli dovrebbe prendere le distanze, come ha cominciato a fare con qualche intervista – in cui giustamente difende il primato del Parlamento – senza dover escludere di dover “togliere il disturbo”, per usare il suo linguaggio, da un “parterre de rois” di intellettuali certamente attraenti ma che, nel loro illuminismo, rischiano di essere organici solo ai “grandi interessi” e di dare voce, lo vogliano o no, ad un presidenzialismo senza rete che porta con sé un pericoloso autoritarismo. 

Luigi Granelli
Il Popolo
29 novembre 1995