IL PERICOLO DELLA DEMOCRAZIA SENZA REGOLE

Riprendo, dopo una pausa dovuta ai lavori parlamentari, le riflessioni sul partito già sviluppate su Il Popolo e che concluderò prima dell’annunciata Assemblea del 18 gennaio. Sono note le ragioni richiamate a difesa della Democrazia Cristiana, con una non nuova apertura a cambiamenti radicali, e quelle che mi hanno portato ad affermare come, a certe condizioni, sia accettabile una trasformazione in partito popolare di denominazione e di tipo “sturziano” che consenta di affrontare con novità anche esteriori, senza rinnegare il meglio, una drammatica congiuntura morale e politica. Temo che l’affanno che accompagna il processo, la sua incertezza e improvvisazione, non rendano facili le scelte personali.

La verifica degli aspetti ideali, programmatici, organizzativi, del cosiddetto nuovo soggetto politico, è ancora da fare, ma sembrano scarsi i segnali rassicuranti. Mi riferisco al ritardo di atti concreti di cambiamento del partito e non certo a contributi di rilievo emersi da un pur ristretto dibattito a cominciare da quelli di Franco Monaco dai quali non mi sento assolutamente distante in materia di tentazioni conservatrici e di malintesa laicità, anche in riferimento alle sue puntualizzazioni fatte al Popolo, anche se non condivido la ripetuta e non persuasiva tesi sulla fine storica della DC. Ma l’approfondimento che si rende ora necessario riguarda la concezione del partito. Questo aspetto precede la stessa progettazione della nuova forma partito.

Per partecipare alla lotta politica, diceva De Gasperi nel 1954, non bastano la fede o la virtù; occorre uno strumento adeguato ai tempi, cioè un partito con il suo programma, il suo statuto, le sue regole, la sua disciplina, che impegna il cittadino non la sua classe, la sua Chiesa. Il richiamo a De Gasperi è doveroso perché, a torto, molti gli attribuiscono il ricorso, nell’immediato dopoguerra, ad un movimento puramente elettorale subordinato, come scriveva Panfilo Gentile, alle parrocchie. Questa visione laica, autonoma, programmatica, di un partito a struttura democratica, ripresa da Sturzo, ha avuto varie accentuazioni ma non è mai stata abbandonata anche se la degenerazione partitocratrica ha sfigurato da tempo questa vitale concezione.

Rossetto aveva insistito sulla caratterizzazione ideale e sulla capacità di elaborazione programmatica, di controllo dell’azione di governo, del partito. Fanfani  aveva dato impulso ad una idea di partito espressiva di una struttura radicata nella società, guidata da quadri efficienti, aperta alla problematica internazionale. La Base aveva elaborato, sin dai primi anni Sessanta,  in un convegno di studi della DC lombarda a Cadenabbia, un progetto di riforma del partito orientato a rompere con la prassi di una indebita occupazione del potere nelle istituzioni ed ispirato ad una lungimirante articolazione regionale.

Moro aveva tentato, sin dalla contestazione del 1968, di aprire un partito chiuso nella gestione del potere alle spinte creative di una società esigente e in irreversibile trasformazione. Nessuno ha mai pensato a modelli di tipo leninista o a forme di centralismo democratico. La nostra vitalità democratica è provata da molti congressi non privi di lacerazioni e rischi. Su tutti questi proposti di rinnovamento sono prevalsi, di volta in volta, gli ostacoli degli interessi alla gestione del potere e delle furberie trasformiste.

Le misure d’emergenza non possono diventare norma

Il partito si è così trovato particolarmente esposto agli stravolgimenti della partitocrazia. Non sono servite, in tempi recenti, alcune idee modernizzanti sul partito d’opinione, all’americana, estranee anche alla realtà storica. La questione morale ha travolto gli argini e la crisi della DC, come quella degli altri partiti, è apparsa nella sua profondità. L’emergenza è stata affrontata con mezzi eccezionali, ma questa terapia d’urto non mette al riparo da altri e non  meno gravi pericoli. Anche la democrazia deve difendersi, a volte, da rischi di distruzione (si pensi al terrorismo) con legislazioni straordinarie, ma chi crede nei suoi valori si preoccupa di ritornare alla normalità al più presto possibile.

Abolizioni sommarie del tesseramento, diffuse gestioni commissariali, nomine di dirigenti con pieni poteri e mediante un ampio ricorso a cooptazione di vertice, azzeramento di organi e di regole democratiche, sospensione della giustizia interna, sono atti al limite della legalità che non possono trasformarsi in norma. Lo scontro spesso artificioso, senza verifiche, tra il vecchio e il nuovo può anche rendere permanente l’emergenza. Il partito così diventa una macchina di influenza e di potere costruita a tavolino, dietro lo schermo di apparenti novità, e il rischio è che le misure di emergenza diventino le regole di un nuovo soggetto politico privo di vita democratica interna.

Non va dimenticato che il ricorso a decisioni eccezionali si è imposto, come nel caso dei pieni poteri a  Martinazzoli, per incontenibili ragioni di necessità, ma all’emergenza vanno fissati li miti, se non latro temporali, perché gli errori di metodo, non sempre inevitabili, si traducono facilmente in strappi di sostanza che possono alterare irreversibilmente la natura democratica del partito. Bisogna stabilire, prima che sia troppo tardi, un punto fermo: il partito democratico, vecchio o nuovo che sia, non può per noi che essere fondato sul diritto, sul rispetto della persona, come prescrive l’art. 49 della Costituzione.

Tutto ciò che contraddice a questo principio si scontra con regole morali, prima ancora che con il diritto, e favorisce di fatto un neoclientelismo della politica, lo strapotere dei vertici, le scelte imposte dall’alto senza alcuna discussione, e alla fine si trasformava in una inquietante involuzione autoritaria nella vita del partito. Un partito veramente nuovo, libero dai lacci e laccioli della partitocrazia, non può ridursi a una caricatura democratica.

Né si può pensare di costruire il nuovo con movimenti d’opinione, dominati da capi carismatici che non amano essere posti in discussione, perché si cancellerebbe di fatto la tutela costituzionale del diritto dei cittadini di “associarsi liberamente in partiti per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale”. Un partito democratico non esiste senza regole, statuti, libertà interna, disciplina rispetto alle decisioni di organi dirigenti legittimati. Su tutti questi aspetti bisogna fare assoluta chiarezza con il varo di norme organiche, trasparenti, che tutti siano tenuti ad onorare.

Ritornare alle regole vitali della democrazia interna

Inquieta l’affermazione che non tutti possono entrare in un partito. Chi decide?  Se il riferimento è ai valori, ai programmi, alla carenza dei comportamenti, al rispetto delle regole interne, è giusto, ma se è al giudizio discrezionale di chi si trova al vertice la procedura è arbitraria perché in contrasto con il diritto costituzionale del cittadino. È inaccettabile che la scelta opinabile di alleanze, da decidere liberamente in un dibattito interno, diventi un connotato per aderire o meno ad un partito. Né l’orientamento del centro che guarda a sinistra, che è una tendenza storica e non la formula di patti, come l’esclusione di ogni blocco a destra da sempre rispettato, possono essere motivo di rifiuto del partito a causa dello spazio strategico delle sue alleanze. Non si può escludere nessuno in rapporto ad una linea contingente, ad intese limitare nel tempo e reversibili, alle opinioni dei dirigenti, perché – tranne le idee di fondo che qualificano in modo permanente un partito – tutto può essere democraticamente cambiato.

Analoghe osservazioni valgono per la giustizia interna. È stato un grave errore non potenziarla, al massimo dell’autorevolezza e dell’imparzialità, di fronte alla crisi morale. Chi contravviene a ineccepibili norme di comportamento, o è inquisito per gravi reati, va sospeso con immediatezza dal partito, pur nel rispetto del suo diritto, alla presunzione di innocenza, e deve subire sanzioni esemplari, se colpevole, od essere reintegrato nei suoi diritti ad accertamento avvenuto. È una ipocrisia chiedere che chi ha sbagliato faccia passi indietro. Ciò, normalmente non avviene e nella zona grigia dell’indecisione l’onesto viene facilmente confuso con il profittatore con un danno irreparabile per la credibilità dell’intero partito.

E per finire: come può formarsi un gruppo dirigente senza la democrazia interna, il confronto delle idee, la legittimazione del consenso di chi aderendo liberamente ad un partito deve poterne determinare democraticamente i comportamenti, le priorità programmatiche, le scelte di alleanza? L’adesione, oltre che a finanziare il partito, è il metro di misura del consenso e la base della legittimazione di ogni scelta. Senza questo controllo la piramide della democrazia viene rovesciata con la prassi della cooptazione. I congressi in cui si decide e si eleggono democraticamente gli organi dirigenti diventano impossibili, tutto si riduce a “convention” determinata in partenza, se non si restituisce trasparenza e capacità decisionale alle adesioni al partito. Non c’è dubbio che il congresso, anche in forme e con modalità straordinarie, non può mai essere sostituito da nulla in un partito democratico.

È un altro il percorso di un partito popolare ad ispirazione cristiana, democratico, autonomo e capace di trasmettere dalla base al vertice le esigenze della società e il bisogno di cambiamento e di formare nel libero confronto la classe dirigente. Per fare diversamente, in una logica di involuzione della democrazia, sono più dotati demagoghi e capi carismatici alla Bossi o spregiudicati manipolatori della pubblica opinione come Berlusconi. Per noi questa novità sarebbe vecchissima e in antitesi con la tradizione dei cattolici democratici che, da Sturzo a Moro, hanno posto il diritto, non la discrezionalità di chi si trova ad esercitare il potere, alla base del PPI e della DC. La concezione del partito, da cui deriva anche la sua forma, è per questo una delle doverose verifiche della qualità del cambiamento.

Luigi Granelli
Il Popolo
29 dicembre 1992