Il PPI, a sua volta, ha avvertito soprattutto in periferia che una ripresa di ruolo (intese in pari dignità finalizzate al
buongoverno amministrativo) erano impossibili con una svendita a "Forza
Italia", legata a filo doppio con la destra,
mentre potevano essere positivamente sperimentati nuovi rapporti a sinistra. I gruppi
intermedi, che in passato
avevano spesso cercato spazio nella radicalizzazione dello scontro tra centro e sinistra hanno meglio compreso i
rischi della situazione.
Ne è discesa la conseguenza non della prefigurazione di uno schieramento
generalizzato, che sarebbe stato
improprio, ma di scelte politiche libere da pregiudiziali e finalizzate a contrastare localmente pericolosi scivolamenti a destra e a favorire seri
programmi amministrativi: scelte di candidati comuni di prestigio, aperture concrete alle migliori
energie della società civile con una minore interferenza di
partiti che hanno ripreso una fisiologica funzione di orientamento politico.
Gli elettori, percorsi anche da delusioni per la frammentaria e incoerente azione
governativa, hanno premiato questi
sforzi e processi diversificati di centro-sinistra o di sinistra-centro hanno registrato significativi successi. Mentre,
all'opposto, lo schieramento di destra, con una Lega in libera uscita quasi ovunque, ha rivelato la
sua inconsistenza politica ed un calo di consensi goffamente minimizzato.
La meritata affermazione, a Brescia, di Mino Martinazzoli è stata di grande importanza anche per il futuro di un PPI
capace di ritrovare una qualificazione politica e programmatica coerente; ma anche per
molti altri capoluoghi,
amministrazioni provinciali, non pochi comuni minori, la tendenza ad intese tra
sinistra e centro per superare una
radicalizzazione vantaggiosa solo a destra si è largamente affermata.
Si è giustamente osservato che quanto si è realizzato in periferia, con una giusta esaltazione politica delle autonomie
locali, non è meccanicamente esportabile sul piano nazionale. Ma il segnale non
può essere ridotto ad un allarme per lo sgretolarsi di una eterogenea maggioranza
governativa. Esso contiene insegnamenti preziosi anche per un nuovo modo di concepire i rapporti
tra i partiti che intendono restare sul terreno di una democrazia articolata e
pluralista.
La priorità dei programmi, la scelta trasparente delle candidature, la caduta di reciproche
pregiudiziali, la capacità di
fare agli elettori proposte verificabili (anziché sottostare alle logiche dei sondaggi
e dei plebisciti), il rispetto della
diversità delle situazioni locali e di quella nazionale, sono elementi di grande importanza se si vogliono
favorire ad
ogni livello, nel segno della chiarezza, convergenze costruttive di qualità non
comparabile con gli accordi opportunistici inventati da Berlusconi.
Per questo, mentre è positivo che a sinistra sia continuata una salutare riflessione sul processo avviato,
è francamente incomprensibile una certa indifferenza dimostrata dal segretario del PPI Buttiglione per il
successo delle non facili battaglie condotte dal partito in periferia. I riconoscimenti sono stati freddi
e formali e non solo con
Martinazzoli. Non si è avviata alcuna riflessione critica. Eppure la prova
dei fatti è stata abbastanza severa nei
confronti di una linea nazionale del PPI che ha continuato a privilegiare la ricerca di accordi con
"Forza Italia", quasi
ovunque respinti, e a ridurre a stato di necessità priva di significato ogni intesa a sinistra.
Sarebbe pertanto grave la mancanza di un chiarimento politico nel PPI su questo punto. Sciupare
una occasione
come quella che si è delineata vorrebbe dire frustrare, anziché
svilupparla, una esperienza di grande valore proprio per
la concezione "sturziana" del ruolo del partito. Martinazzoli ha ragione quando osserva che dove il PPI ha scelto con coerenza e chiarezza, non nascondendosi
difficoltà
e rischi, ha visto riconosciuto con dignità il proprio ruolo di partito di centro anticonservatore
e orientato, come diceva
anche De Gasperi, a sinistra.
Di fronte ai guasti politici del "berlusconismo" non sarebbe serio
improvvisare, senza la necessaria preparazione, una risposta di puro
schieramento, tra gruppi che escono da esperienze di governo e di opposizione. E'
necessario,
per prima cosa, determinare l'uscita dalla scena del Governo della destra, a ciò
sempre più ridotto anche per il
contrasto con la Lega, non per una mediocre rivincita ma per il danno che esso
provoca al Paese e per i pericoli cui
espone, manipolando persino la Costituzione, la democrazia parlamentare.
Siamo da tempo di fronte ad alti rischi. La propensione
a governare anche quando viene meno la maggioranza, scavalcando il Parlamento in un rapporto diretto con gli
elettori prescindendo dai poteri di scioglimento delle Camere del Capo dello Stato,
rivela una gestione arrogante del potere che minaccia le istituzioni repubblicane. Ma questo è solo
uno degli episodi che chiedono di correre ai ripari per la
difesa dei nostri ordinamenti.
Quando il Presidente del Consiglio si autoassolve in televisione, invece di attendere il giudizio della
Magistratura, rivendicando come tutti i cittadini una pur legittima presunzione di innocenza, si
altera in modo grave il corretto
rapporto tra i poteri di uno Stato democratico e costituzionale. Se poi si aggiunge
che anche in caso di rinvio a
giudizio il primo ministro non valuterebbe, nemmeno sotto il profilo della opportunità, le conseguenze sulla propria
funzione pubblica la preoccupazione aumenta. Se poi si coinvolge il Governo in un conflitto quasi
permanente con i
Magistrati impegnati in delicatissime indagini, con un ruolo di punta del Ministro della
Giustizia, l'allarme per la credibilità delle istituzioni è doveroso.
Non meno inquietante è il fallimento della politica economica. Dopo aver
tentato di ridicolizzare lo sciopero generale
contro gli aspetti iniqui della legge finanziaria, provocando tensioni dannose per la ripresa
produttiva, si è giunti in
poche ore ad accedere allo stralcio sulle pensioni richiesto dai sindacati, solo per salvare il Governo. Di conseguenza
la manovra economica governativa (che sostituendo un equilibrato ricorso al fisco con scandalosi condoni e patteggiamenti
"una tantum"' era già insufficiente) è
risultata inesistente e incapace di risanare la finanza pubblica.
Permane diffidenza sui mercati finanziari, non c'è copertura per oltre ventimila miliardi di oneri per interessi, derivante
da tassi elevatissimi rispetto al contenimento di Ciampi, la spesa non essenziale resta fuori
controllo, nessuna
convincente misura è prevista per dare sostegno allo sviluppo economico,
alla ripresa del Mezzogiorno, al rilancio degli
investimenti e all'occupazione. Non a caso il Ministro del Tesoro, Dini, riconosce il
fallimento e annuncia per i primi mesi del 1995 una manovra aggiuntiva che, in
pratica, dovrà essere una nuova legge finanziaria.
Anche l'immagine internazionale dell'Italia appare compromessa. Già la presenza di esponenti
di derivazione fascista aveva determinato rigetto e freddezza, ma se a ciò si aggiunge
l'europessimismo del Ministro Martino, che ci
colloca tra le posizioni di retroguardia, e una linea nazionalista e provinciale della nostra
politica estera, usata dal
presidente Berlusconi soprattutto per un retorico presenzialismo privo di proposte credibili, si
comprende come non
siano assolutamente sottovalutabili i rischi di un nostro passaggio tra i Paesi di
seconda serie.
Una tregua anche per preparare il futuro del PPI
Il governo Berlusconi ha dato una pessima prova in pochi mesi. Esso deve uscire di
scena non per inesistenti
complotti a fini di rivincita elettorale, con ribaltoni politici di cui non esistono
le condizioni, ma perché la sua azione è
risultata dannosa, improvvisata e dilettantistica, per gli interessi del Paese e
perché di fronte alle difficoltà difende il suo potere con insulti al Capo dello Stato, attentati alla
Costituzione, manipolazioni della prassi parlamentare sino al
limite della tentata corruzione di singoli deputati e senatori. Non è tollerabile questo gioco finale al
massacro per andare, alle spalle del Parlamento, alle elezioni anticipate avventurose.
Per questo lo sbocco della crisi non può intaccare il diritto-dovere del Presidente della Repubblica di
verificare, in
piena autonomia, se esistono le condizioni per un Governo ad investitura parlamentare
che faccia fronte alle difficoltà
economiche, tuteli il prestigio internazionale dell'Italia, completi la riforma elettorale, avvii il riordino
istituzionale, per favorire a tempo debito un ricorso pacato e costruttivo alle urne. E' positivo
che le opposizioni, in particolare il PDS,
riconoscano che una alternativa politica alla spuria maggioranza di destra (caduta per le sue
contraddizioni)
possa nascere; non è a portata di mano e può essere correttamente prevedibile solo dopo nuove elezioni ispirate
alla massima chiarezza.
Determinante, in questa situazione di evidente emergenza, è il ruolo di
garante del presidente Scalfaro. Nessun partito può sostenere per ragioni di comodo la tesi del governo del
Presidente, quasi a condizionarne le scelte, ma è chiaro che dopo avere
verificato se esistono possibili soluzioni politiche non può che nascere un
esecutivo di transizione, non
contrattato tra i partiti, che ottenga la legittimazione del Parlamento in un
rapporto di fiducia e di garanzia del capo
dello Stato. Questa assunzione di responsabilità alla luce del sole non ha nulla a
che fare con strumentali ribaltoni.
Ma la transizione deve valere anche per riflettere e pensare al futuro, a nuovi rapporti tra i partiti,
al modo di andare
con proposte chiare al confronto con gli elettori. Anche il PPI deve affrontare questa
prova. E' meritoria la difesa dai maldestri tentativi di assorbimento del
partito, della sua dignità, dei suoi programmi da parte di Berlusconi, ma non
può reggere a lungo una tattica ondivaga che privilegia un suicida rapporto a destra
e non va oltre lo stato di necessità
per le convergenze a sinistra.
Né si può pensare di avere un futuro in un blocco moderato e conservatore, presuntuosamente
"liberista", sia pure
ripulito da un radicalismo autoritario di destra. L' identità di un partito
popolare, riformista, ad ispirazione cristiana,
aperto a possibili soluzioni di centro-sinistra, torna in primo piano sia per superare la transizione
che per preparare
nella chiarezza gli equilibri futuri della democrazia italiana. La "leadership" di
Buttiglione non garantisce, allo stato
attuale, chiarezza di scelte.
Bisogna uscire dall'incertezza e dalle tentazioni del trasformismo. "Il
cristiano-ha detto in un discorso inedito del
1983 Giuseppe Lazzati- non è un conservatore: esso guarda le
cose nuove c he nascono, con intelligenza critica
per vedere se valgono o non valgono. Infatti non è che ami il nuovo perché
è nuovo, ma solo se è valido. Se non è valido è un nuovo fasullo
e già vecchio prima di nascere. Ma se è valido, allora, il
cristiano si apre al nuovo e lo inserisce nel corso della storia e lo valorizza".
Il tono è profetico, ma il monito va raccolto perché senza le scelte
coraggiose, programmaticamente motivate, di un
partito di centro che guarda a sinistra, come nei momenti migliori della stessa Democrazia Cristiana, è difficile
che il
PPI resista al richiamo conservatore, ad un perdente trasformismo e assuma al più presto, mobilitando le diffuse
risorse del cattolicesimo democratico, quel ruolo ideale e politico determinante
che gli insuccessi della destra possono
facilitare.
Da: "Cultura -
itinerari di politica e di cultura" n. 21
ottobre-dicembre
1994
Luigi Granelli