Seguo con interesse l’importante dibattito avviato da l’Unità sui problemi della guerra e della pace. L’autorevolezza degli intervenuti sollecita un contributo. Si tratta di problemi cruciali che coinvolgono fortemente anche i cattolici stimolati da un Magistero della Chiesa che, in questo secolo, è venuta elaborando, sotto il profilo morale, una dottrina specifica che condanna la guerra e impegna alla costruzione della pace. Il dibattito riprende le affermazioni di Veltroni a Le Monde sulla “guerra giusta”, provocata da barbari massacri etnici, e sulla “pace giusta” da realizzare con l’intervento militare della NATO che coinvolge l’Italia in base ai suoi obblighi internazionali. È l’impostazione che solleva perplessità.
Per
la “guerra giusta”, innanzitutto. L’allarme di Bobbio è da condividere.
Il ricorso alla forza per imporre ad uno Stato sovrano, senza autorizzazione
dell’Onu, il rispetto di principi umanitari può trascinare verso concezioni
da “guerra santa”. Stupiscono le reazioni di Giolitti. Anche perché
Bobbio cerca poi di giustificare l’intervento militare sia pure con ragioni
di necessità che con pericolose teorie. La stessa distinzione tra “guerra
santa” e “guerra giusta” di Walzer è un argomento da sofista. La giusta
azione viene infatti proposta dalla cultura laica come scelta indiscutibile.
La
Chiesa cattolica ha da tempo abbandonato talune ambiguità del passato sulla
“guerra giusta” ed ha pronunciato espressamente, con il Concilio Vaticano
II, la condanna della guerra nelle sue versioni aggressive. Essa denuncia
nella “Gaudium et spes”, nuovi rischi perché la guerra moderna offre a
coloro che “posseggono le più moderne armi scientifiche di compiere delitti
e, per una certa inesorabile concatenazione, può sospingere la volontà degli
uomini alle più atroci decisioni”.
È
singolare che una certa cultura laica e di sinistra si avventuri invece in un
cammino a ritroso. Dall’affermazione di Hegel e Schmitt che la guerra è un
evento inevitabile si è sviluppato un pensiero politico che non ha resistito
alla pressione fascinosa e ambigua della violenza. Ma va anche ricordato che
sulla scia di Kelsen e di Maritain ha preso forza, in Italia, un pensiero
alternativo che ha puntato, grazie al prezioso contributo di autori come La
Pira e Bobbio, sul diritto internazionale proprio per imbrigliare, a favore
della pace, lo “jus ad bellum” degli Stati moderni.
Dopo
l’ultima guerra mondiale, a coronamento di una intensa e diffusa pattuizione
di Trattati multilaterali, Convenzioni, Organi sopranazionali, per rafforzare
il diritto internazionale con l’insieme degli obblighi assunti dagli Stati
firmatari, si è dato vita all’ONU cui è stato affidato il compito primario
di mantenere la pace e la sicurezza mondiale. E al Consiglio di sicurezza sono
stati attribuiti poteri considerevoli in materia.
La
“guerra giusta” che anche in dottrina è considerata legittima solo se
difende da aggressioni, è inquadrata chiaramente nel sistema delle Nazioni
Unite e assai rigide sono le procedure per la sua autorizzazione ed il
successivo controllo del Consiglio di Sicurezza. Il ricorso alla forza,
proporzionato agli obiettivi, è chiaramente previsto. Non è vero che tale
intervento è per definizione inapplicabile. Lo dimostra la guerra del Golfo
che ha visto l’impiego, su mandato dell’ONU, della preponderante forza
degli Stati Uniti con un vasto consenso della comunità internazionale.
Anche
qui ha ragione Bobbio. Se si teorizzasse che, prescindendo dall’ONU,
qualsiasi potenza può autolegittimare un intervento armato, fuori da ogni
controllo, “il principio di legalità andrebbe a farsi benedire”. È perciò
allarmante che Antonio Cassese ed altri giustifichino con l’aberrante idea
delle “aggressioni umanitarie” un ricorso autolegittimato all’uso della
forza da porre a fondamento di un nuovo ordine internazionale.
Questo
nuovo diritto in gestazione, che riporterebbe al primato della consuetudine
sulla norma pattuita, si basa di fatto sulla violazione del diritto vigente,
sulla regolazione dei rapporti tra gli Stati e delle controversie
internazionali mediante un puro rapporto di forza. Il salto nel buio è più
che funesto. Bisogna, al contrario, difendere le positive conquiste del
diritto internazionale, riformare l’ONU anche con il superamento del potere
di veto, rafforzare il Consiglio di Sicurezza dotandolo di mezzi adeguati
d’intervento. Gli stessi riferimenti al diritto di “ingerenza
umanitaria” diventano ambigui e strumentali se posti al di fuori di questo
assetto giuridico e istituzionale.
Questo
diritto è maturato nell’ambito delle Nazioni Unite ed è inseparabile dalla
competenza del Consiglio di Sicurezza cui spetta di stabilire la portata ed i
limiti di ricorso alla forza per farlo rispettare. La sua applicazione, tra
l’altro, non può che essere universale e solo l’ONU può chiederne un
rispetto generalizzato, dai kosovari ai curdi e a quanti altri vedono violati
i loro fondamentali diritti. Se l’intervento, al contrario, è riservato
agli Stati è naturale che prevalga un interesse di parte.
Ha
ragione Zolo quando osserva che se l’intervento militare della Nato, che ha
scopi puramente difensivi, avviene senza autorizzazione dell’ONU la
conseguenza è quella di “prefigurare una sorta di diritto di guerra
umanitaria che abroga l’intero complesso delle prescrizioni della Carta
delle Nazioni Unite relativo alle garanzie della pace”. Può diventare
normativa universale il fatto compito di una aggressione? Oggi nei Balcani,
domani ovunque? Del resto anche Cassese, pur non traendone le necessarie
conseguenze, riconosce che il “ricorso alla forza da parte della Nato è
stato contrario alla Carta delle Nazioni Unite” e suggerisce, a cose fatte,
alcune regole per verificare (da parte di chi?) l’esistenza di condizioni
che giustifichino un intervento militare contro un Paese sovrano.
Il
rapporto tra obiettivi e strumenti è fondamentale per stabilire la liceità
di ricorso alla forza. Per questo il controllo del Consiglio di Sicurezza per
il rispetto degli uni e degli altri è irrinunciabile. La guerra nei Balcani
non sta raggiungendo gli scopi fissati all’inizio, ma nessuno è in grado di
verificarlo. I massacri etnici sono aumentati, un tragico esodo ha preso il
posto della difesa degli inermi albanesi, gli accordi di Rambouillet, per il
rispetto dei quali si è ricorsi alla forza, non esistono più, i comandi
militari preparano un intervento a terra che è una invasione, la diplomazia
studia forme di protettorato, anche qui al di fuori dell’Onu, che ricordano
il periodo coloniale.
Le
ipotesi di un ritorno alla soluzione politica, al negoziato, nell’ambito
delle Nazioni Unite contrastano con la teoria della “guerra giusta” che
richiede la sconfitta dell’avversario e non rinuncia alla continuazione dei
bombardamento che preclude ogni ripresa delle trattative. Il ruolo dominante
degli Stati Uniti nella Nato privilegia inoltre il successo militare, da
ottenere con qualsiasi mezzo, rispetto ad uno sbocco politico che alcuni Paesi
europei preferirebbero. In questa inquietante prospettiva si concretizza il
pericolo che la più grande potenza mondiale diventi, con una spaccatura della
comunità internazionale gravida di conseguenze, negative, l’arbitro
esclusivo dell’uso della forza nelle relazioni internazionali.
Il
ruolo politico dell’Europa sarà sempre più marginale in questo contesto.
Nessuno vuole l’isolamento degli Stati Uniti. Ma non occorre scomodare la
teoria “hegeliana” del popolo dominante, che ha il diritto assoluto di
guidare lo sviluppo dello “spirito universale” per sottrarsi ad un
antiamericanismo di maniera.
Questa parte della posizione di Bobbio non convince. Nessuno nega i meriti
degli Stati Uniti, entrati in guerra contro l’aggressione di Hitler e di
Mussolini, ma non è questa una buona ragione per trasformarli in gendarmi del
mondo. Grandi presidenti americani, da Wilson a Roosevelt, a Kennedy, hanno
dimostrato che è compatibile un ruolo di primo piano degli Stati Uniti con
una collaborazione in pari dignità con l’Europa, con la comunità
internazionale, con le Nazioni Unite.
È
un errore incoraggiare una cultura di guerra che divide profondamente anche
l’America. Per questo bisogna agire per interrompere il conflitto ed aprire
la via al negoziato. In caso contrario sarà sempre più difficile rispondere
all’obiezione di coscienza che Asor Rosa ha sollevato contro la guerra come
strumento dell’etica di una super potenza delegata a dominare il mondo con
il ricorso alla forza. L’Italia dopo decenni di fedeltà ai suoi obblighi
internazionali, confermata persino con il recente “strappo” di un
intervento che va oltre i compiti difensivi della Nato, ha il diritto di agire
con continuità per realizzare, come ha chiesto il Parlamento,
l’interruzione dei bombardamenti ed il ritiro delle truppe serbe, allo scopo
di favorire concretamente la mediazione di Kofy Annan, l’accettazione di una
forza di pace sotto la guida dell’ONU e di un negoziato senza ultimatum
sulla tutela dei diritti umani, sull’autonomia del Kosovo e sul rispetto
dell’integrità territoriale della Federazione jugoslava.
Nulla può precludere all’Italia questa iniziativa. “Il diritto e le istituzioni internazionali - ha ammonito ancora una volta papa Wojtila – non siano soffocati dalle armi”. La guerra è sempre una orribile impresa, poco governabile. Per questo va interrotta al più presto per ricondurre la ricerca di una soluzione della crisi nell’ambito delle Nazioni Unite. A meno che si ritenga che sia preferibile una “pace giusta” come quella che di solito impongono i vincitori. Anche la pace non va più intesa come il risultato di un accordo tra le parti in conflitto? “La pace deve nascere dalla mutua fiducia delle nazioni – ha affermato il Concilio Vaticano II – piuttosto che essere imposta dal terrore delle armi”. Si vuole lasciare alla sola Chiesa cattolica anche la memoria storica dei guasti di Versailles?
l'Unità
Luigi
Granelli