L’obiettivo è di raddoppiare gli stanziamenti entro il 1990 – I
progetti seri e concreti non mancano
– Le “grandi macchine”? Sì, ma è necessaria la collaborazione
internazionale.
Questa è la Fisica dei miracoli: finalmente tornano i “cervelli”. Gli uomini di scienza voltavano le spalle all’Italia. Ora – interessati – indirizzano i loro passi verso la patria. “Tra qualche settimana firmerà il contratto un primo gruppo di ricercatori italiani che lavoravano a Berkeley”, annuncia in anteprima, in un’intervista al “Giorno”, il ministro per la Ricerca scientifica Luigi Granelli. “Rientrano per dedicarsi al prestigioso laboratorio di Trieste per la luce di sincrotrone, un progetto concepito da un comitato presieduto dal premio Nobel Carlo Rubbia”.
All’Elba,
dove trascorre le vacanze, Granelli riflette anche sull’idea della “grande
macchina”, l”Eloisastron”, che in questo momento accende la fantasia
degli scienziati: dovrebbero permettere all’uomo di entrare nel cuore delle
leggi della materia, guardando in faccia all’infinitamente piccolo. “Se
Goria mi dà i 50mila miliardi necessari … possiamo anche farla in Italia a
nostre spese”, confida con un sorriso scettico. “Ma penso che la scelta
migliore sia comunque di farla in collaborazione con tutto il mondo”. Quel
che è certo è che la fisica italiana è sulla cresta dell’onda: riviste
come “Nature” e “New Scientist”, che per i fisici sono una specie di
sacre scritture, non fanno che parlare della nostra “scuola”; anche il
Nobel a Rubbia ci ha giovato molto. Ma con tutto il rispetto per i geni,
Granelli è convinto che la vera ricchezza del Paese sia la schiera di 50mila
ricercatori che ci siamo allevati e che lui vuole portare a 100mila,
raddoppiando la spesa per la ricerca.
La fuga del “cervelli” sta per arrestarsi?
Il fatto
drammatico non è tanto l’uscita quanto il mancato rientro, la mobilità a
senso unico. Il laboratorio di Trieste dimostra che, se attirati da progetti
di alto livello scientifico, i “cervelli” emigrati tornano, e come.
Significa che hanno constatato che in Italia si può fare meglio che in Usa.
Il che è tutto dire. Siamo davanti al primo, lusinghiero segno di una
controtendenza.
Perché è importante il laboratorio di Trieste?
Perché si
pone sulla strada delle “grandi macchine” di cui si parla tanto in questi
giorni, o progetti avveniristici che dovrebbero permetterci di scatenare, per
scopi pacifici, energie cento volte maggiori di quelle di cui oggi disponiamo.
Il laboratorio di Trieste è unico, anticipa quello che verrò realizzato a
Grenoble e nasce dalla collaborazione tra il Cnr, l’Istituto nazionale di
fisica nucleare e la Regione. Ma non è soltanto Trieste a esercitare un
richiamo sulla comunità scientifica internazionale.
Abbiamo altri assi nella manica?
Certo. È
al nastro di partenza il laboratorio del Gran Sasso per le ricerche sui
neutrini. Una galleria scavata nel ventre della montagna più alta
dell’Appennino è la sede ideale per studiare queste particelle elementari
in condizioni di assoluto isolamento. E vorrei ricordare anche il cosiddetto
“Tandem”, il ciclotrone che si realizzerà tra Milano e Catania.
Scienziati di tutti i continenti verranno a fare ricerca da noi.
Sì, ma Rubbia dice che, se non ci spicciamo a costruire in Europa la “supermacchina”, ci penseranno gli Usa. E saremo tagliati fuori.
Rubbia ha
ragione quando deplora la fuga dei cervelli, che però ora stiamo arginando.
Ma attenti a non cadere nei luoghi comuni. La scienza è universale. Il
nazionalismo potrebbe emarginarci più della fuga dei cervelli. Tanto per
cominciare, 50mila miliardi rappresentano una somma dieci volte superiore a
quanto oggi spendiamo, per qualsiasi tipo di ricerca, in Italia. E poi una così
ingente massa di risorse è la metà del deficit pubblico…
Lei è favorevole o contrario alla supermacchina?
Intendiamoci:
il sogno dei fisici è di vedere tutta la Terra trasformata in un unico
laboratorio, un acceleratore di particelle che ha per diametro il diametro del
globo. C’è chi propone di costruire laboratori nello spazio, servendosi dei
satelliti. Perfino l’utopia è la molla del progresso. Bisogna valutare
tutti i suggerimenti senza miopia. Anche in Usa fioccano le proposte più
affascinanti, poi però l’amministrazione federale taglia le spese. Il
proposito di impostare la “grande macchina” in concorrenza con gli Stati
Uniti mi sembra velleitario. Invece io dico sì all’Eloisatron” se fatta
in collaborazione.
Con chi?
Ma con
tutti: europei, americani, giapponesi e russi. Per un progetto del genere
occorre mobilitare le risorse di tutto il mondo.
E se intanto si sfalda la solidarietà scientifica europea? Gli inglesi vogliono far morire il Cern di Ginevra.
È vero.
Siccome la “lady di ferro” ha intenzione di fare economie sulla ricerca,
il Centro europeo per la ricerca nucleare rischia di restare senza ossigeno.
L’Italia è il solo Paese in Europa che si stia battendo per salvare il Cern.
I tedeschi fanno i pesci in barile, i francesi preferiscono potenziare i
laboratori nazionali. Noi invece, pur di aiutare il Cern, pensiamo di
dirottarvi molti progetti. Ci stiamo attirando l’ammirazione di tutto il
mondo per il nostro impegno pro-collaborazione. Del resto, gli italiani ci
tengono al Cern, il nostro Amaldi lo realizzò, in gran parte. Ma ho detto
tutto questo per arrivare al succo: fuori dalla collaborazione non c’è
varco per la scienza. Tutte le scoperte che proprio noi italiani abbiamo fatto
nella fisica delle particelle non sarebbero state possibili senza il Cern, cioè
senza la collaborazione europea. Su quel fronte dobbiamo continuare a
batterci.
Ma l’Italia è proprio un modello? Per esempio, quanto spendiamo per la ricerca, in rapporto al reddito nazionale?
Il mio
obiettivo è di arrivare entro il 1990-92 al 2,5-3 per centro del prodotto
interno lordo, cioè di raggiungere la quota dei nostri partner europei. Ora
siamo all’1,3% o poco più. Gi stanziamenti per la ricerca aumentano del 10%
all’anno, che è un tasso di crescita superiore a quello del resto della
spesa pubblica.
La gente può chiedersi: ma è veramente utile destinare tante risorse alla fisica?
E infatti
c’è chi si pone questa domanda. Io rispondo: dalle ricerche fondame tali
discendono proficue applicazioni pratiche in tutti i campi. I soldi investiti
nella ricerca fruttano e danno lavoro. Attualmente l’Italia ha avviato tutto
un complesso di ricerche sulle biotecnologie, sui farmaci, sullo spazio,
sull’informatica, sui nuovi materiali. E soprattutto abbiamo progetti e
cervelli per attuarli, mancano soltanto i quattrini.
È solo questione di finanziamenti o manca anche una mentalità adatta?
Beh,
bisognerebbe far capire ai nostri giovani che, se si vuol fare ricerca ad alto
livello ed essere pagati bene, un po’ di rischio individuale conviene
correrlo. Negli Usa un grande scienziato non ci pensa due volte a lasciare il
posto sicuro in una multinazionale per andare a sperimentare qualche
interessante novità in un piccolo laboratorio. Da noi domina il tabù
burocratico del posto e del ruolo, i professori muoiono in cattedra. Questo
formalismo soffoca la ricerca.
Dunque neanche gli Stati Uniti sono la Mecca che si crede?
Tutt’altro
che una Mecca. Lì il ricercatore si misura con il mercato, vive di contratti.
C’è un forte collegamento fra università e industria. Perciò i nostri
giovani vadano pure a specializzarsi altre oceano, ma poi noi dobbiamo essere
in grado di farli rientrare con proposte allettanti.
Lei vuole raddoppiare i ricercatori in Italia…
Ma sia
chiaro: portare i ricercatori da 50mila a 100mila non vuol dire inventare
borse di studio per il precariato di domani. Le borse di studio debbono essere
agganciate a progetti scientifici seri e concreti da realizzare. E ne
abbiamo…
Quello è
il modo migliore, come insegna il caso di Trieste, per mettere fine
all’esodo dei cervelli. Il flusso di ritorno è già incominciato.
Politica-attualità
18 agosto
1986
intervista di Luigi
Dell’Aglio