Granelli/La sinistra democristiana e De Mita
Milano – Sarà soltanto un referendum pro o contro De Mita l’ormai imminente congresso democristiano? O sarà invece l’occasione per un rilancio politico della DC popola batosta elettorale del 26 giugno e dopo la perdita di Palazzo Chigi? Su questa alternativa il partito si gioca il futuro: il senatore Luigi Granelli ne è convinto. Ora ministro alla Ricerca scientifica nel gabinetto Craxi, Granelli è uno dei leader storici della sinistra democristiana, che oggi raccoglie soprattutto ciò che resta dell’area Zac e della Base. Lo vado a trovare nella sua casa milanese, lontano dal fragore della capitale politica, per capire dalla sua viva voce come la sinistra democristiana si prepari all’appuntamento congressuale.: De Mita – gli dico – nel maggio dell’82 fu eletto a quell’incarico come espressione della sinistra, e ha governato la DC quando alla presidenza del Consiglio per la prima volta si insediava un socialista, Bettino Craxi. Ebbene, voi della sinistra come valutate, due anni dopo, la segreteria De Mita? E cosa pensate della presidenza Craxi, che è una conferma della crisi del vostro partito?
Granelli non si fa troppe illusioni sulla possibilità che il congresso si confronti con le grandi questioni politiche che il partito ha di fronte. Teme purtroppo che si trasformi in un referendum plebiscitario, o quasi, per De Mita e in un avallo senza ripensamenti del pentapartito guidato da Craxi. Eppure, è su questi due temi che la DC si gioca il futuro. Per spiegarlo, Granelli prende le mosse da lontano. Dice, per cominciare: “Fuori dal partito molti si chiederanno come mai De Mita sarà riconfermato segretario, pur popola sconfitta elettorale: altri leader, come Fanfani dopo il referendum sul divorzio, passarono la mano. Lui no, e perché? Perché tra noi e forte e diffusa la convinzione che le elezioni anticipate dell’83 abbiano posto un freno al processo di rinnovamento da lui avviato. E poi, come sempre, gioca anche la paura delle novità. Diamo dunque a De Mita il tempo necessario. Ma il tempo non basta: occorre un progetto”.
Quale progetto, senatore?
“Il rischio di De Mita è che la sua riconferma a segretario si traduca in un boomerang. Lo sarà sicuramente se De Mita governerà il partito come lo ha governato dopo le elezioni del 26 giugno, cioè pensando più a tenere a bada i suoi critici che a superarli in velocità con una forte iniziativa politica. De Mita, o utilizza la candidatura per rilanciare una strategia più definita, oppure resterà imbrigliato in un atteggiamento di censivo, che alla lunga è sempre perdente”.
Poiché De Mita è espressione della sinistra democristiana, nelle sue
parole, senatore, c’è forse anche una autocritica?
“Certamente. La sinistra ha una grande responsabilità, perché la difesa di De Mita alla guida del partito ha finito per appiattirne tutta la condotta politica. Bene inteso, è difficile che De Mita, come segretario di tutto il partito, abbia la scioltezza di un leader della sinistra. Ma se noi ci imbrigliamo in una logica di pura difesa, egli sarà vittima della legge inesorabile degli equilibri interni. Se invece noi lo stimoleremo e lo correggeremo, offrendogli anche le occasioni per resistere alle pressioni della destar, allora lo aiuteremo a ripristinare il ruolo del partito in termini propositivi e moderni. Così come De Mita deve capire, al pari di Aldo Moro, che la sinistra non è solo un gruppo di sostegno, na è soprattutto una antenna sulla realtà, capace di una analisi più ampia di quella che può fare il partito nel suo insieme e soprattutto sensibile alla realtà politica e sociale del paese”.
In termini politici, cosa chiedete a De Mita?
“Di non farsi imprigionare dal luogo comune che tutti sono d’accordo sul pentapartito e che non esistono dissensi. I dissensi, invece, esistono. Il pentapartito, per noi, è una formula di governo e basta. Non è l’ultima spiaggia, come vogliono i moderati. Certo, si può e si deve sostenere questo governo, ma ciò che conta è il modo in cui lo si sostiene. La DC non può essere subordinata all’iniziativa laico-socialista. Deve imprimere contenuti riformatori all’azione di governo, dialogare con tutte le forze in campo, testimoniare indipendenza ed aggressività. Guai se disperdessimo l’eredità morotea del confronto sistematico a sinistra, politicamente con il partito comunista e socialmente con i sindacati”.
Dall’interno della Democrazia cristiana alcune voci, come quella
dell’onorevole Scotti, che scende in campo come concorrente di De Mita,
accusano il segretario di avere abbandonato la tradizionale funzione
mediatrice del partito e di schierarsi in difesa solo di gruppi di interesse
industriali e finanziari.
“Certe voci possono avere intenti strumentali. Ma anche noi della sinistra diciamo che la DC non può diventare il partito del rigore a senso unico, che sicuramente va a genio a erti gruppi economici, ma non tiene conto del consenso sociale. La Democrazia cristiana non può limitarsi a fare l’altoparlante del governo”.
E così eccoci al tema “governo Craxi”…
“Se la Democrazia cristiana vuole recuperare una funzione di primo piano, deve sì sostenere questo governo, ma deve anche farvi confluire tutto il suo peso politico. È però necessario che sul punto il partito faccia chiarezza, per evitare due errori gravi. Quello di credere che con qualche dispetto a Craxi o per qualche suo infortunio si possa riaprire una crisi di governo da cui la DC tragga vantaggio come partito. E poi l’errore opposto di ritenersi subordinata a Craxi proprio per scongiurare il pericolo di una crisi. Ecco perché il congresso non deve tradursi in un s’ o in un no a De Mita, ma battere il ruolo della sua segreteria in vista di una incalzante strategia sui grandi temi del momento. Dipende anche dalla sinistra del partito, che non deve cadere nella rassegnazione o nel massimalismo, ma darsi un disegno di respiro nazionale che, alla maniera di Moro, tenga conto di tutte le forze politiche nazionali, partito comunista compreso”.
Sarà difficile, temo, visto che De Mita insiste sul principio
dell’alternativa.
“Ecco un altro punto molto delicato. De Mita ne dà un’interpretazione che a noi risulta poco persuasiva. Sostenere, come egli fa, che la DC è alternativa al partito comunista equivale a dire un’ovvietà: ogni partito è alternativo a tutti gli altri. E poi quella sua interpretazione sollecita i moderati a rintanarsi in una posizione difensiva perché li induce a ritener che il PCI sia legittimato a governare il paese senza la DC, anzi con la DC all’opposizione. Noi della sinistra non ne siamo per niente persuasi, non perché riteniamo che l’alternativa sia del tutto estranea allo sviluppo storico della nostra democrazia, ma perché ci sembra assurdo sostenere che un partito che può esserci alternativo senza riprodurre effetti negativi nella vita democratica non sia anche un partito con il quale si possa collaborare. Noi pensiamo che una democrazia forte non possa né debba escludere a priori e fin d’ora convergenze politiche che la storia può sempre, un domani, proporci”.
Nostalgia della solidarietà nazionale?
“Se i due grandi partiti italiani, DC e PCI, continuano a sostenere di essere alternativi l’uno all’altro – senza poter però, in assenza delle necessarie condizioni politiche, diventarlo nei fatti – perché poi lamentarsi se i partiti minori si atteggiano ad egemoni e, pur con poca forza elettorale, meditano di scegliersi gli alleati da una parte o dall’altra?”
Senatore, l’idea morotea è ancora così viva?
“Essa è radicata nella storia. Non a caso, di fronte a una crisi profonda delle istituzioni repubblicane, ecco riemergere la necessità che attorno al tavolo delle riforme costituzionali dialoghino tutti i partiti, anche quello comunista. E non è forse questa una applicazione, politica e attualissima, del pensiero moroteo, insomma di quella grande solidarietà che non è una formula di governo, ma un’espressione della coscienza storica di tutti i partiti?”
Cultura e società
Paese sera
10 febbraio 1984
intervista di Giulio Obici