Riceviamo e pubblichiamo volentieri
Nel
dibattito sulle degenerazioni della partitocrazia ci si sofferma, di solito,
sul problema dell’indebita appropriazione da parte dei partiti di compiti
che, secondo la Costituzione, spettano alle istituzioni. Siamo stati tra i
primi, nella DC, a parlare dei rischi dell’occupazione del potere (convegno
di studio di Cadenabbia del 1965) anche come snaturamento della funzione
ideale e politica dei partiti e sentiamo, in una situazione ancora più grave
in termini di “questione morale”, l’importanza di questa discussione. Si
parlerà, nella prossima Assemblea nazionale della DC, anche dei possibili
rimedi a quest’intollerabile degenerazione.
Ma c’è
un altro aspetto della patologia partitocratrica che non può essere
dimenticato, ed è quello della democrazia interna ai partiti. L’articolo 49
della Costituzione è esplicito. “Tutti i cittadini – esso afferma –
hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale”. In rapporto a
questo principio fondamentale c’è da preoccuparsi di alcune tendenze che,
non da oggi, sono in atto.
La
democraticità interna ai partiti, che significa rispetto dei diritti di chi
vi aderisce, trasparenza del dibattito e legittimità del dissenso, conformità
agli statuti delle decisioni adottate e garanzie di controllo nella gestione
di potere, è una condizione essenziale circa la correttezza della funzione
dei partiti stessi nell’ordinamento.
Quanto sta
avvenendo, ad esempio nel PSI, è preoccupante ed il dovere di non interferire
nelle questioni interne ad un partito in cui non si milita non può indurre al silenzio. Se non altro perché la
restrizione della democrazia interna, magari in altre forme, so è verificata,
avviene e può ulteriormente aggravarsi in tutti i partiti con conseguenze
gravi sulle possibilità di ripesa della democrazia italiana. Si pensi (è
anche questo un caso attuale) ai limiti del “centralismo democratico” che
impedisce di decifrare, se non si ricorre a confuse indiscrezioni, quanto è
accaduto negli organi nazionali del PCI per decidere il nuovo assetto del
gruppo dirigente del partito. Tornerò poi sui rischi, in parte nuovi e poco
conosciuti, di un’alterazione delle regole democratiche che investono anche
la DC. Le preoccupazioni, in questa sede, sono di carattere generale e
vogliono essere un invito alla riflessione e all’approfondimento di problemi
non certo trascurabili.
Pur
prescindendo da un giudizio di merito
sulle tesi in contrasto in un partito, è grave che il dissenso, per apro che
sia, venga in qualche modo criminalizzato e non trovi possibilità di
esprimersi sempre in qualsiasi occasione con il massimo di libertà. Quando le
posizioni risultassero, come è spesso capitato nella storia dei partiti, di
rottura non con la politica ufficiale di un gruppo dirigente, che può essere
dialetticamente contestata, ma con la natura ideale e politica del partito,
con le regole di una disciplina liberamente accettata, si può ovviamente
giungere al disimpegno o anche all’espulsione motivata ma le procedure
devono accertare, facendo salvo il diritto dell’interessato alla difesa, la
fondatezza e l’irrevocabilità di tale rottura. Non sembra che tutto questo
sia rispettato nel PSI, la cui “forma-partito” viene da tempo indicata, da
alcuni politologi, come un modello
di efficienza che ha saputo superare discussioni inconcludenti e frazionismi
negativi del passato. I pericoli di scissione, e cioè di una scelta che non
è mai una soluzione politica, tornano a riaffacciarsi all’orizzonte. La
tesi che una critica aspra e insistente, a sua volta criticabile, sia da
stroncare perché non si distingue, al di là della semplice accusa di
complotto, dagli attacchi esterni al partito, è estremamente inquietante.
Tutte le involuzioni autoritarie partono da questa tesi. Una critica alla
politica estera non può essere giudicata, con metodi sbrigativamente
applicati nel sistema di “socialismo reale” come un servizio a Stati
stranieri? La figura del dissidente come elemento anti-partito non può essere
accreditata in una reale e moderna democrazia.
Ma altri
rischi non vanno sottaciuti. L’affermazione unilaterale da parte di organi,
la cui funzione è la garanzia dell’iscritto e del partito, che un gruppo di
dirigenti si è collocato in posizioni che troncano di fatto il rapporto di
militanza, è un precedente da non accreditare con giustificazioni puramente
politiche. In tal caso infatti quegli organi si riducono ad una attività di
semplice ratifica di decisioni
prese altrove. Come possono i cittadini, siano essi socialisti o democratici
cristiani, essere garantiti nel loro diritto di “concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”? L’augurio
è che il PSI, forza essenziale della democrazia italiana, possa superare un
momento difficile con una netta ripresa democratica, con un allargamento della
sua capacità rappresentativa e non con dannose restrizioni e con la
normalizzazione che accentua il principio di autorità. Ma anche
nella DC vi sono sintomi assai preoccupanti. La direzione del partito opera,
dopo le dimissioni di tre membri, a ranghi ridotti ed in contrasto con quanto
è previsto dallo statuto senza che, nonostante le sollecitazioni interne, si
ponga rimedio a questa anomalia. C’è una tendenza, che mira ad affermarsi
alla prossima Assemblea nazionale, ad emarginare il diritto degli
iscritti e ad affidare poteri di decisione a simpatizzanti liberi da ogni
rapporto di militanza. Tutto ciò è cosa ben diversa dall’apertura al
dibattito ed alla proposta di realtà esterne vitali per partiti che non
vogliono chiudersi in una grigia burocratizzazione. Si assiste ad un calo del
dibattito interno e ad una minore valorizzazione degli organi decisionali.
Nella DC il metodo è più quello della tolleranza repressiva, che ignora le
critiche ed evita le risposte, che non quello della condanna del dissidente;
ma l’impoverimento della vita democratica interna non è meno preoccupante. Sono
tendenze che si manifestano in modo diverso ma che vanno affrontate senza
reticenza prima che sia troppo tardi. La democrazia nei partiti è una delle
garanzie della democrazia nel paese. Essa deve essere vissuta, allargando e
non restringendo le regole interne, soprattutto da quei partiti che criticano
e rifiutano, giustamente, le chiusure e le povertà di articolazione ideale e
politica del “centralismo democratico”.
la
Repubblica
15 ottobre 1981
Luigi Granelli