La visita a Roma del presidente francese Giscard d’Estaing rientra nei normali contatti tra statisti della Cee, ma non vi è dubbio che la decisione di far partecipare agli incontri il ministro degli Esteri, Poncet, ha accentuato l’interesse politico per le conversazioni in programma. Non mancano certo novità sulla scenainternazionale per attribuire importanza alla verifica dei rispettivi punti di vista. L’ingresso di Reagan alla Casa Bianca, la liberazione degli ostaggi americani in Iran, la ripresa della Conferenza di Madrid sulla sicurezza e la cooperazione, le difficoltà per il bilancio approvato dal Parlamento europeo con l’aperta ostilità di Parigi, sono punti di grande rilievo per lo sviluppo nei prossimi mesi delle politiche estere di Pesi legati da vincoli di amicizia pur in presenza di diversità di vedute.
Il fatto
però che gli incontri romani abbiano avuto luogo a breve distanza dalla
visita a Tripoli del ministro italiano per il Commercio con l’Estero, Manca,
in un momento di accentuata tensione tra la Francia e la Libia per la politica
africana del colonnello Gheddafi, ha finito con il polarizzare un’attenzione
particolare per la “questione” libica. Anche se, per la verità, questa
attenzione pare un po’ sproporzionata, può essere utile dedicare qualche
riflessione al delicato problema dei rapporti con la Libia.
Non si
scopre nulla di nuovo se si rileva che la politica di Gheddafi ha sollevato e
solleva molti interrogativi. Da tempo la Libia è per tutti, anche per molti
Paesi arabi, un partner scomodo e imprevedibile. La volontà del leader libico
di assumere la guida di intese tra Paesi arabi più o meno vicini, che si è
di recente manifestata con il progetto di federazione con la Siria dopo i
clamorosi fallimenti di analoghi tentativi con l’Egitto, il Sudan e la
Tunisia, ha avuto una non trascurabile accelerazione con l’ipoteca del
diretto controllo su un Ciad in crisi, indebolito da gravi divisione interne.
In tutto il mondo e particolarmente in Africa questa mossa di Gheddafi ha
provocato vaste reazioni.
Anche in
rapporto a tale evento l’Italia non deve nascondere le sue preoccupazioni e
ha il dovere di ribadire il principio della non interferenza nella vita
interna degli Stati in linea, peraltro, con l’analoga opinione di Paesi
arabi e africani oltre che europei. Diversa, se non latro per ragioni
storiche, è la posizione della Francia che non manca di esercitare influenze
e interferenza nello stesso Ciad e in altre zone africane. Le preoccupazioni
francesi devono essere oggetto di valutazione, ma esse non possono implicare (è
bene dirlo con chiarezza) una limitazione dei comportamenti autonomi
dell’Italia nel decidere l’intensità e la qualificazione politica dei
rapporti con la Libia. Parigi, del resto, non ha mancato di privilegiare in più
di una occasione i propri rapporti con Tripoli anche al di fuori di
quell’ottica europea, che è invece costante preoccupazione della politica
estera italiana.
È il
governo italiano, che ne risponde al Parlamento, a dover valutare in piena
autonomia e sulla base della situazione internazionale e di quella interna
l’opportunità, i tempi, i modi dei contatti con le autorità libiche, ivi
compresa la visita nel nostro Paese del colonnello Gheddafi, nel quadro delle
relazioni ufficiali esistenti. Tutti i fattori vanno esaminati con serietà.
Tale rilievo vale anche per le osservazioni fatte da autorevoli esponenti
politici. Il segretario liberale Zanone ha affermato, dopo il
socialdemocratico Longo, che il sospetto di collusioni nella trama intricata
del terrorismo rende improponibile, per il momento, la visita di Gheddafi.
Questa impostazione non è accettabile. Dai sospetti bisogna passare agli
accertamenti ed il governo, costituzionalmente responsabile nel campo dei
rapporti internazionali, ha l’obbligo di trarne tutte le conseguenze, sino
alla rottura diplomatica, se emergono responsabilità. Ma in caso contrario e
sino a tale dimostrazione non è corretto porre veti o impedimenti che non
siano quelli del già ricordato giudizio di opportunità.
Ma la
portata del problema è più ampia. L’Italia è da tempo interessata a
sviluppare, in piena fedeltà alla sua vocazione europea, una strategia di
sicurezza e di cooperazione nel Mediterraneo. Alla base di questa scelta non
vi è una confusa concezione terzo-mondista, ma un evidente interesse
geo-politico e una obiettiva complementarietà economica. Proprio nei giorni
scorsi il ministro degli Esteri della Repubblica Federale Tedesca, Genscher,
ha usato la significativa espressione di “sud-politik” dell’Italia con
riferimento ai contributi di rilievo dati dal nostro Paese nella definizione
degli atteggiamenti della Cee sul Medio Oriente, nell’accordo realizzato con
Malta, nei buoni rapporti con i Paesi arabi al di là delle oggettive
difficoltà che ciascuno di essi può presentare.
In tale
contesto l’Italia non può ignorare la Libia. Sarebbe anche un grave errore
pensare di sviluppare vantaggiosi rapporti economici accantonando, per comodità,
i problemi politici, difficili certo e comunque da affrontare anche per dare
un minimo di certezza all’intrecciarsi degli affari. Nel 1980 le imprese
italiane hanno realizzato contratti per circa 1.400 miliardi. L’Italia copre
oggi con le sue esportazioni, il 25% delle importazioni della Libia, che è,
per noi il secondo mercato extraeuropeo. Il nostro fabbisogno di petrolio è
coperto per il 15% da quello libico che è notoriamente di ottima qualità. La
Libia, infine, dispone di rilevanti risorse e prevede, nei prossimi cinque
anni, investimenti per oltre 50 mila miliardi in settori in cui le capacità
produttive e le tecnologie italiane sono per generale riconoscimento
competitive.
Possiamo
trascurare queste possibilità? Si può continuare a sviluppare rapporti
economici reciprocamente vantaggiosi, che rientrano in una valida prospettiva
di scambio tra materie prime e tecnologie in un quadro di cooperazione, senza
mettere ordine, anche su temi difficili, nelle relazioni politiche tra i due
Paesi?
Abbiamo già
pagato, in casi come l’Iran e l’Iraq, questa tendenza a una provinciale
sottovalutazione dei fattori politici come cornice di sicurezza per il
razionale svilupparsi degli scambi e della cooperazione economica. L’Italia
non può tacere il suo dissenso politico nel contesto delle relazioni con la
Libia, nell’illusione di favorire così qualche affare in più, né può
accantonare per motivi di interesse le priorità che vanno riservate ad altri
Paesi mediterranei, come è il caso dell’Algeria e della Tunisia, che
mostrano maggiore disponibilità a un costruttivo dialogo politico. Ma è
evidente che in una strategia d’insieme nel Mediterraneo, l’Italia non può
e non deve trascurare, con cautela e grande chiarezza politica, i rapporti con
la Libia anche perché non siamo i soli a nutrire determinate preoccupazioni e
a sapere, per esperienza storica, che la paziente costruzione di relazioni
positive nei vari campi serve, più dell’isolamento degli affari sottobanco,
a frenare velleità espansionistiche o di dominio.
Il Sole 24
Ore
25
gennaio 1981
Luigi
Granelli