Dal senatore Luigi Granelli, della direzione DC, riceviamo questa lettera che volentieri pubblichiamo.
Caro Direttore, chiedo ospitalità alla “Repubblica” per una doverosa risposta a taluni rilievi contenuti nella “lettera aperta” che mi è stata rivolta dai magistrati che sono al centro di una recente interpellanza presentata al Senato. Comprendo lo stato d’animo di chi è investito del sospetto di una grave accusa, strumentalmente amplificata da certa stampa, anche perché conosco l’amarezza di molti esponenti politici oggetto di indagini non sempre obiettive e di campagne denigratorie fondate su semplici indizi. Né trascuro, per la concezione che ho sempre avuto ed ho dell’ordinamento democratico e del rispetto assoluto delle idee altrui, la giusta preoccupazione di salvaguardare il tessuto istituzionale, di evitare generalizzazioni tendenti a colpire per le loro opinioni gruppi di magistrati, di tutelare il prestigio dell’ordine giudiziario fugando ogni ombra che possa investirlo sulla base di fatti circostanziati e documentabili.
L’accertamento rapido della verità è nell’interesse di tutti quando nell’esercizio della funzione di controllo del parlamentare, si è messi a conoscenza di un documento che solleva forti preoccupazioni.
Un documento che richiede certo anche accertamenti, da effettuare con spirito di verità, da parte di chi è in grado di dissolvere dubbi o di perseguire eventuali e specifiche responsabilità.
Lo strumento dell’interpellanza parlamentare è funzionale a questi obiettivi, ed il ricorso ad esso, dopo le valutazioni necessarie, non può essere oggetto di scandalo o di censura. Per questo, ho affermato e ripeto che prima di giudicare io intendo conoscere, nella responsabile sede del Parlamento, risposte concrete agli elementi di fatto richiamati, giudizi precisi su circostanze remote e presenti, eventuali prove aggiuntive, per fare luce su un episodio inquietante e tranquillizzare la mia coscienza.
Del resto lo stesso organo di autogoverno della magistratura è ricorso a procedure di accertamento, giustamente sollecitate dagli stessi interessati, e sarebbe grave precludere questa possibilità a un libero Parlamento. Anticipare conclusioni o precludere chiarimenti su elementi di fatto inquietanti sarebbe arbitrario. Se risultassero confermati contatti operativi con il terrorismo in delicati settori dell’ordinamento, e ciò vale come regola generale, limpido ed inflessibile dovrà essere l’impegno ad isolare e rimuovere eventuali responsabilità. La posta è talmente alta che non può essere inquinata da compiacenti silenzi o da strumentalizzazioni particolaristiche, di cui si scorge qualche avvisaglia, che non potrebbero coinvolgere non solo me ma anche altri autorevoli firmatari.
Proprio per prevenire polveroni unilaterali si è convenuto di assicurare all’iniziativa un sostegno che, al di là delle biografie personali e delle diversità di opinione politica, garantisse un rigore assoluto nel non travalicare limiti di obiettività che saranno in ogni caso tutelati nella sede parlamentare.
Quella che è stata interpretata come presa di distanza, a seguito di una doverosa precisazione, altro non è che la riaffermazione di limiti invalicabili chiari sin dall’inizio. È fuori campo la ricerca di reati d’opinione. Non è in gioco il giudizio sulle origini del terrorismo, la sua natura, i suoi sviluppi, che è fenomeno rispetto al quale io stesso. Come altri, ho cercato di darmi ragione da posizioni di dialogo e di serio approfondimento. Nessuno può sindacare opinioni o giudizi in una società libera se non in un corretto confronto di idee. Né sono in discussione i metodi di lotta, sempre nel quadro della Costituzione, sui quali il dissenso è pienamente legittimo. È sui fatti e sul loro effetto concreto in rapporto alla doverosa impermeabilità delle istituzioni al terrorismo, in ogni ordine e grado, che bisogna far luce per dare forza e prestigio a quanti operano in situazioni di rischio contro l’eversione armata.
Così come va respinta, e non si mancherà di faro, ogni generalizzazione che tenda ad allargare a macchia d’olio, con gravi conseguenze di destabilizzazione e di sfiducia, accuse immotivate per dar corso ad una inammissibile caccia alle streghe. Anche qui c’è, almeno per me, un limite invalicabile. L’accertamento della verità su fatti limitati e precisi, a tutela della stessa onorabilità di chi si sente ingiustamente colpito, è il solo modo per sradicare la “cultura del sospetto” che va rifiutata a prescindere da radicali e legittime differenze ideali e politiche.
Abbiamo tutti interesse che lo Stato democratico, in ogni sua parte, sia una casa di vetro a tutela di quella convivenza civile che il terrorismo non rispetta e dal quale bisogna difendersi isolando i suoi tentativi eversivi. Se ci sono responsabilità vanno perseguite, nelle sedi proprie e nel massimo rispetto dell’indipendenza della Magistratura, così come ogni sospetto va bandito se elementi di fatto documentati risultano infondati o irrilevanti.
Questo e soltanto questo mi ha portato ad assumere la mia parte di responsabilità in Parlamento. Non sono mosso da secondi fini, né sono disponibile a strumentalizzazioni che sarebbero oltretutto scorrette. La verità dei fatti è il solo antidoto contro deformazioni, falsi timori reverenziali, ma ci si può rimettere ad essa con l’intento di tutelare gli onesti e di rafforzare le istituzioni se non si evita in ogni sede un rigoroso accertamento dei fatti.
La regola vale, ovviamente, anche per i parlamentari che sono chiamati a rispondere personalmente oltre che come gruppo delle loro iniziative.
la
Repubblica
venerdì 18 gennaio 1980
Luigi Granelli