RISANAMENTO E SOLIDARIETA': DUE CONDIZIONI PER LO SVILUPPO

Amici carissimi, credo che possiamo dire, dopo queste due giornate abbastanza faticose, che abbiamo voluto assumerci un compito difficile e che ci siamo in gran parte riusciti, perché non è usuale, non solo nei residui gruppi di pensiero, ma neanche nel nostro grande partito, destinare una riflessione di fondo ai contenuti della politica, ai problemi del Paese che vengono prima delle formule, degli schieramenti e delle contese sul potere. Noi abbiamo di proposito voluto tentare questo ritorno ai contenuti, per guardare alla politica economica non in termini aridamente tecnocratici, ma per farci carico della difficile situazione in cui viviamo e della soluzione dei problemi che stanno davanti a noi. Abbiamo già raggiunto dei risultati ma questo deve essere il primo di una serie di convegni del nostro gruppo. Molti ricorderanno che su questo lago, a Belgirate, negli anni cinquanta siamo partiti un po' così e abbiamo dato qualche contributo alla Democrazia Cristiana a alla democrazia italiana.

Abbiamo seguito in questi due giorni la presentazione di ottime relazioni, serie ed impegnate, mi riferisco in particolare a quelle del Prof. Roggi a dell'amico Camillo Ferrari. Abbiamo dato vita ad una tavola rotonda vivacissima, drammatica, per certi aspetti anche sconcertante, ma certamente non falsa, perché negli atteggiamenti delle persone a nello scontro dei punti di vista noi abbiamo visto riflessa esattamente la fase di transazione che il Paese sta attraversando e il grado di incomunicabilità anche tra le forze che dovrebbero essere protagoniste della trasformazione. Abbiamo avuto il concorso di amici autorevoli, dal Ministro del

Tesoro ad altri, abbiamo assistito ad una discussione di buon livello e sappiamo che tanti altri amici avrebbero potato prendere la parole a aumentare la sensazione che nel nostro gruppo non mancano certo energie intellettuali, personali e morali che purtroppo non sono tenute in gran conto nella vita pratica del nostro partito, dove sembra che la furberia, l'ambizione a la tentazione del potere abbiano più spazio rispetto alle immense risorse di cui potremmo disporre.

Non siamo certo giunti a delle conclusioni, e sui temi che abbiamo affrontato il discorso resta evidentemente aperto: saremmo lontani da quella giusta attenzione allo spirito critico che abbiamo sempre avuto se pensassimo che un convegno basta per mettere a punto una volta per sempre una posizione. Dobbiamo invece dire che abbiamo ricominciato a riflettere per ricostruire posizioni programmatiche, ideali e politiche che consentano alla Democrazia Cristiana di rompere la tendenza di seguire i fatti anziché di governarli con le sue concezioni e con le sue prospettive. Ed è questo che conta di più nel rinnovamento del partito.

Vorrei che anche De Mita comprendesse che è illusorio immaginare il rinnovamento della Democrazia Cristiana soltanto con un ricambio di generazioni. La Democrazia Cristiana si rinnova, se insieme al mutamento della sue dirigenza, che è fisiologico in un partito democratico, accentua, la sua capacità di rispondere ai problemi reali, in coerenza con le sue aspirazioni di fondo. Infatti, in tutti i momenti drammatici della vita italiana, la Democrazia Cristiana ha salvato se stessa e io suo futuro solo lanciando idee non inventando formule bizantine come la staffetta. o scorciatoie di poco conto nello scambio fra i partiti a livello locale o ad altri livelli istituzionali.

La Democrazia Cristiana deve avere coscienza che il declino può essere inevitabile se la ripresa non è sui grandi temi, sui grandi problemi. Siccome voglio concentrarmi soprattutto su quelli, mi consentirete di mettere subito da parte, senza però trascurarli, alcuni problemi che sono emersi in questi giorni. Proprio avvalendomi della ricchezza di questo gruppo, dove esistono uomini the hanno ormai sulle spalle una lunga esperienza (e si avvicinano anche a tempi in cui dovranno passare la mano) devo dire ai giovani che hanno sicuramente davanti un futuro se non avranno troppa fretta sotto la spinta dell'ambizione e cercheranno invece di riflettere e maturare. In politica la conquista delle posizioni non è mai una cosa semplice.

La questione principale che non possiamo abbandonare, perché coinvolge generazioni diverse, è stata affermata con grande lucidità ieri nella tavola rotonda dal Prof. Barucci, e in parte anche da Padre Reina, ed è la questione della laicità. Voi sapete che noi nella Democrazia Cristiana siamo forse la tendenza di pensiero che dopo Sturzo, e in parte insieme a Moro, abbiamo sempre difeso anche pagando di persona la posizione laica dei cattolici nella vita democratica del Paese. Abbiamo sempre superato il rischio del confessionalismo, del clericalismo, che non è solo dannoso per la politica, è mortificante per la coscienza religiosa e per la stessa società ecclesiale; ma la laicità per noi non è indifferenza, non è pragmatismo, non è predisposizione a fare con più spregiudicatezza di giorno in giorno quello che conviene: laicità per noi vuol dire appello alla ragione, alla intelligenza, all'approfondimento per assumere storicamente delle responsabilità che non possono essere calate automaticamente dal magistero delta Chiesa. Neanche la dottrina sociale, come si è tentato di dire ieri, può essere la terapia per dare soluzioni concrete.

Il magistero della Chiesa è la grande ispirazione di fondo, ma il dovere di attuarlo nella storia spetta a ciascuno di noi, a noi nel nostro insieme, a partiti che sappiano vivere la laicità nel senso di una grossa realizzazione della ispirazione cristiana. È interessante the anche i comunisti su questo punto vadano riaffermando il valore della laicità, anche loro non come agnosticismo, ma come metodo critico per uscire dai condizionamenti di una ideologia soffocante che limitava le possibilità creative di questo partito. Quindi noi dobbiamo restate fedeli a questa visione laica della politica, all’assunzione delle nostre responsabilità, al legame indistruttibile con la ispirazione cristiana senza della quale noi non sapremmo leggere nelle cose che accadono e in quelle che devono avvenire i valori da difendere a le cose da abbandonare. Dico questo perchè mi impressiona, voglio sottolinearlo per i giovani, le circostanza che viviamo in tempi in cui basta leggere i documenti dei vescovi americani, certe prese di posizione delta Chiesa cattolica in Italia, il magistero ecclesiale del Cardinale Martini per constatare che oggi la Chiesa è avanti a tutti nel ricordarci il dovere del rinnovamento. Magari negli anni cinquanta noi avessimo potuto disporre di questa spinta! Noi abbiamo dovuto lottare duramente, abbiamo dovuto costruite nel sacrificio la conquista laica della responsabilità della politica, ma quello che ci preoccupa in questo momento è che di fronte ad una Chiesa così lungimirante il partito invece sia attardato, sia miope, sia in ritardo e la politica sia più il terreno degli accomodamenti opportunistici che quello dal grande rilancio dei nostri doveri morali.

È una grande occasione che hanno oggi le nuove generazioni di rilanciare la qualificazione ideale dal partito in senso laico senza scontrarsi, anzi ricavando spinta da un rapporto corretto col magistero della Chiesa. A condizione che nei discorsi trionfalistici sulla politica, ne abbiamo sentiti anche ieri, i riferimenti ai convegni tipo "farsi prossimo" non servano soltanto per concedere qualcosa a quelli che un giorno dovranno votarci e non invece per ricavarne l'elemento di riflessione autocritica su quello che noi facciamo. Avvicinarsi a quello che dice la Chiesa è grande responsabilità, ma noi dobbiamo andare in questa direzione.

E per non perdere l'occasione storica, cari amici, bisognerà riscoprire anche nel nostro partito quel senso del dovere, della milizia, della solidarietà, dell’amicizia, di una Democrazia Cristiana che proprio in base a delle ragioni etiche non effimere e transitorie si costruisce dal basso nella partecipazione.

In questo convegno c'è una vasta partecipazione: abbiamo dissensi che sono superabili discutendo. Sembra invece che nel partito nel suo complesso questa partecipazione cada: c'è una frantumazione di posizioni personali, c'è una illusione attivistica pericolosa. Se vogliamo reagire alla crisi, dobbiamo creare le condizioni in periferia per la mobilitazione ed il rilancio del partito. Troppe volte si pensa con consoli, proconsoli e commissari di sostituire dall'alto autoritariamente una realtà di popolo the noi invece dobbiamo mobilitare dal basso secondo la nostra tradizione, secondo la nostra concezione della politica. Stiamo attenti a non cadere in questa trappola del movimento elettorale, fatto di efficienza, di uomini fedeli, di gente capace di ubbidire, rispetto invece al modello di un partito di uomini che pensano, che sono liberi, che esprimono il dissenso, che assumono le loro responsabilità. Ho raccolto questi problemi per dire che noi ci avviciniamo alla tematica economica con questo spirito: per noi parlare di economia non vuol dire parlare di cose differenti dalla politica. Non siamo un convegno scientifico di economisti, siamo un convegno di quadri politici the si occupa di politica economica a la premessa è, quindi, quella di una rivalutazione del primato della politica. Questo dell'impegno reale è l'unico modo per arrestare quel balletto abbastanza scandaloso che continuiamo a leggere sulla stampa e per cui le sortite quotidiane di Nicolazzi, Spadolini, Altissimo, Martelli sono solo legate ad un gioco, ormai logoro, di gestione di una formula che tutti condannano e ciascuno vorrebbe sfruttare per sé e che non è espressiva di nessuno dei problemi che, invece, il paese vuole che si risolvano. Ed è per questo che la politica sta staccandosi sempre di più dalla realtà del paese, e che i consensi o i dissensi, le intese o le torture, le crisi o la stabilità di governo si giocano più sui vantaggi dei partiti o sulla bontà dell'accordo di potere, che non sulla proiezione nello schieramento della volontà di risolvere determinati problemi.

Se voi pensate a questo e alla necessità di non stare inerti, in attesa di una staffetta che un giorno ci promettono e un giorno ci negano, come se noi dovessimo vivere ormai più della concessione altrui che della capacità di conquistare in proprio quello che ci appartiene, comprendete anche perché questo nostro convegno di grande utilità, e lo sarebbe anche per il partito in generate, se cominciasse a fare qualche conferenza organizzativa in meno e qualche convegno di San Pellegrino in più, certo non solo sulla politica economica. Abbiamo sentito ieri Dell'Orto, oggi Bertoja, ed anche Donato, riferendosi ad un mio vecchio magistero, che io cerco di esercitare ancora, perché mi spiacerebbe che la fedeltà fosse riservata soltanto ai tempi antichi a non anche ei tempi che viviamo richiamare giustamente l'attenzione sull'importanza dei problemi internazionali e Barucci ha aggiunto con grande acutezza che non c'è salvezza neanche per i paesi industriali progrediti, se non si apre la via ad un diverso sistema economico internazionale. Il che non è una foga in avanti verso l'idea di un mondo più giusto, me è la constatazione che la distruzione di risorse che non sono infittite, in una folle corsa agli armamenti, l'esistenza di un debito internazionale di mille miliardi di dollari, che non viene fatto esplodere per evitare le ricadute su molte grosse banche americane, l'impossibilità di svilupparsi di gran parte dal mondo che oltre ad avere il diritto allo sviluppo rappresenta una parte importante del mercato mondiale, della quale hanno bisogno anche i paesi produttori, il permanere dell'Europa in una logica miope, fatta tutta di vino, di burro, di provvidenze marginali e non di grande slancio, sono tutti temi di tale rilevanza per cui la politica estera potrebbe essere un altro grande argomento per un convegno, così come la politica istituzionale, o la politica sociale, la famiglia, la case, la sanità, i servizi: questa è la strada della politica, perché su questa strada possono nascere dissensi, consensi, si possono rompere vecchiefedeltà, acquisire solidarietà nuove, non nel senso dal potere, ma nel senso del  dare alla Democrazia Cristiana una linea attorno alla quale aggregate le alleanze. Quindi faremo insieme queste altre esperienze.  Ma veniamo a quelle di oggi: ebbene, mi pare che noi siamo andati un pó fuori dalla lettura superficiale dei temi del risanamento economico e della solidarietà  come condizione allo sviluppo, formulazione generica esprimente buona volontà, ma certamente insufficiente rispetto ai temi che abbiamo noi stessi discusso. L'abbiamo fatto con coraggio, anche se non ci siamo ancora liberati da talune  difese d'ufficio di quello che facciamo dall'enunciazione delle aspirazioni di quello che dovremmo fare come se "quello che dovremmo fare" ad un certo punto  capiterà, non si sa bene in che modo, e non discenda, invece, da quello che facciamo oggi.

Non c'è futuro the non cominci con l'assunzione della responsabilità del presente e dobbiamo dire che sotto questo profilo abbiamo fatto bene a discutere di economia, basandoci anche sull'importante relazione del professore Roggi  che, quando pubblicheremo gli atti, io invito tutti a rileggere con attenzione, perché solleva anche molte questioni, dato che si deve forzatamente semplificare quando in un’ora si riassumono quarant'anni di vita economica italiana, ma importante perché  ci fa riflettere sul passato come elemento di guida per il futuro, rispetto al diffondersi di una cultura attualistica, in base alla quale il nuovo è, per definizione, una cosa positiva mentre il vecchio è sempre da cancellare, come se non fosse carico di esperienza a di insegnamento.

Questa dialettica tra il vecchio a il nuovo, introdotta nel nostro dibattito per una giusta esigenza di rinnovamento, ha prodotto una conseguenza di arretramento culturale complessivo, per il prevalere di atteggiamenti astorici o addirittura antistorici assai negativi per una forza politica che nella storia ha le sue radici e nella storia - e non solo nell'attualità - deve operare.

In estrema sintesi, la relazione di Roggi ci ha detto the nei quarant'anni che hanno trasformato questo paese da paese agricolo a paese industriale, a paese che può oggi aspirare a collocarsi anche davanti all'Inghilterra, al quinto posto della graduatoria mondiale, questo paese è passato attraverso tre fasi che sono ancora oggi molto istruttive: la prima, quella della ricostruzione intesa prevalentemente come restaurazione a rimessa in movimento dei meccanismi tradizionali dell'economia, che certamente ha recuperato il vuoto di domanda che esisteva, ha superato l'arretratezza produttiva, ha utilizzato la spinta della liberalizzazione degli scambi, ma ha avuto con sé anche il limite, che già Dossetti denunciava, della ricostruzione, come restaurazione, cioè di fare quasi tutto come prima, anche le cose che dovevano essere cambiate. Pensiamo all'eredità che ancora oggi subiamo dei cantieri navali ricostruiti dopo la guerra come se la follia del "mare nostrum" dovesse continuare a all'incapacità di liberarci per tempo di strutture anacronistiche dal punto di vista dello sviluppo produttivo a moderno del paese. Quindi quella fase importante ci ha fatto crescere, ma ci ha lasciato anche delle pesanti eredità. E poi la fase che è stata definite di Saraceno e di Vanoni, alla quale noi abbiamo dato alcuni contributi di lotta politica, che ha introdotto il tentativo della programmazione, dell'uso delle risorse in base a delle finalità. Vorrei ricordare a tutti che significativamente lo schema Vanoni s'intitolava "lo sviluppo del reddito a dell'occupazione', non "sviluppo del reddito e dei consumi"; sviluppo del reddito e dell'occupazione, quindi capacità di accumulare risorse e di destinarle non egoisticamente al nostro benessere, ma solidalmente alla soluzione dei problemi di chi non ha lavoro o di chi si trova in condizioni di arretratezza.

Ma Roggi ci ha detto, con la brutalità dello storico, che la programmazione è rimasta una grande conquista da vocabolario, e non si è mai tradotta nella vita istituzionale e politica.

È sintomatico poi che il fallimento dei tentativi della programmazione, certamente influenzati in modo negativo dalla morte di Ezio Vanoni, coincida con l'involuzione del centro-sinistra, che aveva sollevato tante speranze al suo inizio e che poi è diventato, in pratica, una spartizione di potere tra la Democrazia Cristiana e i Socialisti, tra la Democrazia Cristiana, che non voleva il centrosinistra e poi l'ha fatto per realismo, e i Socialisti, che sono arrivati a questo appuntamento emarginando le loro energie intellettuali migliori, facendo strada a quelli più pragmatisti e più capaci di intendere il rapporto con la Democrazia Cristiana come rapporto di potere. E’ da allora che l'involuzione è proseguita ed è arrivata fino allo scambio, al cedimento della presidenza del Consiglio, alla logica perversa delle staffette, una volta a te, una volta a me. Il fatto che la programmazione non sia stata realizzata è a mio avviso particolarmente grave perché il momento della programmazione era quello più alto nel quale la politica economica risultava permeata dalla nostra ispirazione di fondo. Infatti la ricostruzione poteva essere fatta, anche da partiti non ispirati cristianamente, ma la programmazione traduceva, nella politica, la volontà di usare l'economia per raggiungere certi fini ed era la più vicina, la più congeniale ai nostri ideali. Qui forse Roggi è stato un po' troppo sbrigativo.

A mio parere non è vero che il gruppo di Cronache sociali, il dossettismo, in particolare, abbiano introdotto soltanto dei temperamenti sociali alla politica di Pella a di Einaudi; questo è vero soprattutto per Fanfani e in parte per La Pira, per il sue modo di concepire generosamente le cose, ma non bisogna dimenticare che il gruppo di Cronache sociali, con gli articoli sull'attesa della povera gente, la volontà di mettere la disoccupazione al primo posto nelle valutazioni economiche, il trasferimento in Italia di esperienze di programmazione come quelle del piano Beveridge, in Inghilterra, ha introdotto anche elementi di dottrina, Keynes e la politica della spesa, dalla quale, successivamente, anche Vanoni riceverà più forza per lanciare il suo schema. Però sul fallimento della programmazione si è innestata un’illusione liberista: io non credo alla straordinaria potenza che Roggi ha attribuito a Guido Carli di essere divenuto, da allora, in avanti,  il grande regista che ha determinato tutte le cose. Certo la filosofia di Carli ha vinto sul fallimento della programmazione, ma vi è stata una sorta di rinuncia della politica a guidare l'economia, a orientarla verso determinati fini. E questa tendenza di neoliberismo, the affida tutto alle forze del mercato, è stata poi accentuata dall'avvento, sul piano internazionale, degli esperimenti della signora Thatcher, del reaganismo e di quanti in Europa hanno sostenuto che era sufficiente restituire il profitto alle industrie, privatizzare monopoli a servizi per uscire dalla crisi a riprendere lo sviluppo.

La conclusione di Roggi è stata drammatica su questo punto, perché ci ha detto: "Attenti, se non uscite da questa trappola neoliberista e non rilanciate, non tanto lo schema di Vanoni e di Saraceno, che è superato, ma la filosofia della finalizzazione dell'economia, dell'organizzazione delle risorse economiche, non in rapporto ad alcuni obbiettivi mediocri, ma in rapporto ad esigenze generali, voi rischiate di perdere la specificità della vostra preparazione politica. E Ferrari ha aggiunto, sulla stessa linea, come in definitiva sia legata all’ispirazione vanoniana la possibilità ancora oggi, di guardare ai temi del credito, alla funzione attiva del risparmio, al risanamento non puramente contabile, ma concreto delle strutture amministrative, alla concezione del sistema creditizio non soltanto in termini strumentali per cui, di volta in volta, si alterna la confusione tra banca ed industria o tra industria e banca, ma come elemento importantissimo nella ristrutturazione industriale. In molte delle cose dette acutamente da Ferrari anche sulla politica dei tassi, sulle rendite finanziarie, ho riletto la continuità di una ispirazione di fondo del nostro gruppo, non solo, ma anche l'emergere di una seria a approfondita competenza di questo nostro amico, al quale va tutta la nostra solidarietà in un momento in cui nel nostro partito, ancora una volta, si sono preferite le scorciatoie di potere, rispetto all'utilizzazione delle competenze degli uomini che hanno reso un lungo servizio alla Democrazia Cristiana.

Voi sapete che abbiamo di proposito escluso che certe polemiche potessero tornare qui dentro, ed è un'altra dimostrazione di stile del nostro gruppo, ma io dovevo fare questa sottolineatura, perchè quello che chiedevamo e chiediamo non è un vantaggio per qualcuno di noi, ma è la possibilità di collocare gli uomini giusti al posto giusto, sulla base dell'esperienza e non sulla base di momentanee valutazioni di opportunità o di interesse personale o di gruppo.

Dopo il quadro tracciato dalle relazioni, veniamo all'attualità alla quale ci ha esortato anche l'onorevole Bianchi ed in rapporto alla quale Tiziano Garbo ci ha dato molti elementi per riflettere.

Abbiamo lasciato alle nostre spalle una divisione artificiosa: che il risanamento sia di destra e lo sviluppo sia di sinistra. Uso questi termini per capirci meglio; se noi vogliamo lo sviluppo net nostro paese, il risanamento è la condizione essenziale. Non possiamo immaginare, che sia possibile forzare un pó , nei dati contabili del bilancio, l'aumento prevedibile del prodotto nazionale lordo, per aumentare, poi, tutti gli investimenti e risolvere tantissimi problemi: il risanamento deve essere effettivo, le risorse devono esistere non solo contabilmente, l'accumulazione, che io preferisco come termine al profitto, è una condizione basilare per la ripresa economica. Il risanamento della finanza pubblica, e il risanamento dei conti delle imprese sono la premessa per uno sviluppo non effimero dell’economica. Dobbiamo tuttavia non trascurare la circostanza che molti risultati che abbiamo raggiunto, ivi compreso quello di aver ricondotto l'inflazione ad una cifra sola, con la possibilità di scendere alla fine dell'anno al di sotto del cinque per cento, sono state determinate da fattori internazionali che non dipendono dalle nostre azioni.

Provate ad immaginare cosa accadrebbe, dell’economia italiana e del nostro risanamento, se il dollaro dovesse riprendere a salire e i paesi produttori di petrolio conseguissero il loro scopo di far aumentare il prezzo del barile.

Dobbiamo tenere conto che, certamente, alcuni atti coraggiosi di politica economica che hanno trovato consenso nel paese, come la correzione del meccanismo automatico della scala mobile, hanno contribuito a far raggiungere i positivi risultati di oggi; lo possiamo ascrivere a merito della Democrazia Cristiana e anche ad una linea di tenuta, non sempre compresa, di Andreatta, prima, e di Goria, dopo, sulla linea del rigore e sulla necessità di risanare la nostra economia. Io ho altri motive di diversità rispetto a Goria, per non riconoscere i meriti che ha acquisito. Ma qui, tra noi, dove non dobbiamo fare i comizi e dove certi interventi, anche autorevoli, mi sono apparsi francamente troppo propagandistici, privi di capacità riflessiva, dobbiamo stare attenti a dire: adesso il risanamento è compiuto, dobbiamo fare lo sviluppo.

Non vorrei che si dimenticasse, insieme ai dati che Garbo ha portato qui, che centomila miliardi di deficit pubblico non sono una condizione di normalità e di risanamento della finanza pubblica. E vorrei anche che non si dimenticasse che, di anno in anno, noi lavoriamo su cifre di cinque, sei, otto, diecimila miliardi, e quindi non modifichiamo il carattere strutturale della nostra disfunzione, in termini di finanza pubblica. Si possono elencare tutte le cifre del bilancio dello Stato, ma è addirittura drammatico constatare che, nelle varie stagioni di politica economica che abbiamo attraversato, l'impostazione fondamentale del bilancio dello Stato non è mutata. Gli aggiustamenti sono stati sempre contabili, non abbiamo modificato l'impianto strutturale del bilancio come parte essenziale di una manovra di risanamento per cui, in rapporto al risanamento reale della finanza pubblica, noi dobbiamo farci carico di politiche molto più incisive di quelle che abbiamo fatto sin qui.

Che Craxi faccia dell’ottimismo perché convince o vuol convincere che tutto quello che fa lui, cambia il paese, lo si comprende, ma che noi dobbiamo accreditare questo ottimismo come se, giunti al termine di un periodo dì governo, l'operazione di risanamento è stata contemplata non dobbiamo assolutamente accreditarlo non solo per ragioni di rapporto politico, ma perché la verità delle, cose non è questa, e il risanamento richiede interventi più coraggiosi.

Ho mandato, in agosto, una lettera, abbastanza lunga, a Visentini, a Goria e a Romita sull'opportunità di usare in modo più penetrante la nuova finanziaria e la congiuntura internazionale, più favorevole che non negli anni precedenti e forse anche in quelli futuri, se si pensa soltanto alla scadenza delle elezioni che introducono sempre elementi di disturbo, nell'impostazione delle politiche economiche. Io ritengo si debba fare qualcosa di più in questa finanziaria, che si debbano dare dei segni più concreti di un risanamento non soltanto contabile, che si incida su alcuni nodi strutturali del nostro impianto di finanza pubblica e che si cerchi di creare spazio all'accumulazione delle risorse per gli investimenti, non soltanto attraverso il gioco delle cifre, ma attraverso il mutamento delle condizioni stesse in cui si sviluppa l'economia. È su questo terreno, cari amici, che dobbiamo fare anche giustizia delle polemiche a delle diversità di opinioni di ieri sulla marcia di Torino.

Voi sapete che io sono uno specialista, in questo campo e mi fa molto piacere vedere che quando le marce vengono da certi ambienti, c'è più attenzione. Quando, invece, molti giovano marciano per la pace o per il disarmo, si guarda con grande diffidenza a questi movimenti popolari, quasi che non fosse importante per il nostro futuro evitare di essere stritolati dal pericolo atomico. Però non contrapponiamo marce di segno diverso: quando nel paese energie intellettuali e sociali diverse si mettono insieme per protestare, possono sempre avere davanti a loro il rischio dell'ambiguità o del qualunquismo, ma certo è che esprimono delle esigenze, rispetto alle quali la classe politica è in ritardo nella sua azione.

E allora noi dobbiamo dire che sul terreno del risanamento la Democrazia Cristiana ha, sin qui, mantenuto una linea di troppa prudenza a deve aprire un discorso polemico nei confronti della politica fiscale realizzata da Visentini.

Da troppi anni noi abbiamo una politica di immobilismo fiscale e la questione "fisco” determina le marce e la protesta, non per il rifiuto di pagare le tasse, ma perché ingiusto che vi siano categorie di cittadini che pagano troppo a sono totalmente controllabili con aliquote che superano il quaranta per cento e vi siano cittadini che non pagano affatto o che sono autorizzati a non pagare attraverso esenzioni di tipo legale. Dobbiamo ridistribuire il carico fiscale e questa è la posta della politica fiscale.

Anche qui dobbiamo riscoprire Vanoni: Vanoni voleva un rapporto semplice e leale tra contribuenti a fisco, leale anche dalla parte del fisco, il che vuol dire ridurre le aliquote a allargare la base delle impostazioni.

Ridistribuire il carico fiscale secondo giustizia, comporta anche il principio della progressività: non bisogna solo pagare tutti, per pagare meno, ma bisogna che ciascuno paghi in rapporto alle sue possibilità.

Il ministro Visentini ha sempre difeso il suo immobilismo su questo terreno, ricordandoci che non si poteva fare una politica più coraggiosa (che tra l'altro nella sua abilità, non respinge mai dal punto di vista teorico anzi la considera un elemento di modernizzazione del paese) perché la politica del debito pubblico ha raggiunto dimensioni tali da sottrarre al fisco una larga base di imponibilità.

Il riferimento è evidentemente ai percettori di rendite finanziarie derivanti dalla compravendita di azioni in borsa. Naturalmente occorre guardarsi da posizioni semplicistiche, poiché la giusta remunerazione del risparmio è essenziale in un paese the ha alti livelli di risparmio familiare e rappresenta una delle componenti fondamentali dell’accumulazione

Sotto questo profilo la tassazione dei Bot ha fatto più vittime psicologiche che reali, mentre dal punto di vista del bilancio dello Stato, abbiamo fondamentalmente una partita di giro che potrebbe addirittura costringerci ad aumentare i tassi, anziché a diminuirli.

Il problema di principio è però quello dell'esclusione dal dovere fiscale di gran parte dei percettori di redditi finanziari.

E, allora, quando Visentini giustifica l'immobilismo fiscale con la ridotta base di imponibile e con la impossibilità di aumentare ulteriormente le aliquote, pone contemporaneamente anche il problema di una diversa gestione del debito pubblico. Nel debito pubblico non confluiscono soltanto i costi della sanità, o della previdenza, c'è la finanza locale, il finanziamento dei contributi, la cassa integrazione, i vari salvataggi, ci sono i settantamila miliardi di interessi the noi dobbiamo ai risparmiatori, ma che hanno rappresentato la caduta della capacità della classe dirigente politica di coprire la spesa ordinaria dello Stato con le entrate ordinarie.

Allora abbiamo bisogno di una politica di risanamento obiettivo the riveda i criteri di gestione del debito pubblico, che riapra il capitolo di nuove politiche fiscali più penetranti, più giuste, che riduca la spesa là dove essa può e deve essere ridotta con atteggiamenti però, coraggiosi a che destini risorse all'investimento produttivo. Non vi è molto tempo, ma voglio fare anch'io qualche provocazione. E giusto dire quanto costa la difesa in Italia, me si potrà pure sottolineare che nella concezione strategica moderna dei sistemi di difesa una riduzione a metà del periodo della leva non sarebbe affatto pericolosa per la nostra sicurezza e sarebbe un buon risparmio per la spesa pubblica. Occorre dire che, avendo fatto le Regioni, un certo numero di ministeri potremmo anche chiuderli; occorre dire che se vogliamo potenziare i Comuni, potremmo cominciare anche a pensare di chiudere le Province anziché aumentarle di numero e inventare per loro nuove funzioni. La riduzione della spesa non è solo un fatto contabile, è la riorganizzazione dell'apparato della spesa pubblica che deve insistere su scelte coraggiose tuttavia, insieme alla gestione del debito pubblico a all’uso corretto delle risorse, la riduzione della spesa è anche un fatto contabile almeno nel senso di una diversa allocazione delle risorse.

Io devo ringraziare Goria che quest’anno nella finanziaria ha riservato alla ricerca scientifica un trattamento migliore rispetto alla finanziaria precedente, tuttavia siamo ancora sull'uno e cinque per cento della spesa per la ricerca scientifica sul PIL, in confronto ai paesi più moderni che sono, già adesso, sul tre per cento. Inoltre non posso dimenticare, che rischiava di saltare una parte del programma concreto della politica spaziale e che ho dovuto fare enormi sforzi per trovare una soluzione d'intesa con Goria, mentre nel bilancio dello Stato abbiamo voci tra l'effimero e il paternalistico, come i giacimenti culturali e i giacimenti ambientali, che sono mille e duecento miliardi regalati ad alcuni ministri per farsi della popolarità a buon mercato oppure una concezione di interventi per l'occupazione giovanile, che è estremamente perversa, perché fa credere che ai giovani si può dare lavoro a prescindere dalla modernizzazione del sistema produttivo, come se il problema dell'occupazione non fosse invece quello dell'allargamento della base produttiva.

Potrei fare tanti altri esempi di tipo "contabile". Possiamo allora dire the il risanamento è avvenuto? Possiamo dare a Craxi questo diploma? Possiamo immaginare the non esistono più questi problemi per il Governo di fine legislatura? O non dobbiamo, come Democrazia Cristiana, invece dell'ottimismo ufficiale, predisporsi a chiedere la ripresa della guida del governo, non per tornare al potere, ma per fare quelle cose che ancora devono essere fatte, perché il risanamento sia effettivo e consenta poi la ripresa dello sviluppo economico?

Non c'è molto spazio in un anno, ma qualcosa si può fare e in ogni caso nell'88 dovremo andare davanti agli elettori e se non avremo proposto nulla, pagheremo pesantemente. Quanto poi al legame tra la politica di risanamento, che spero di aver chiarito in termini generali, e lo sviluppo, io pregherei di essere molto cauti sull'automaticità.

Non basta avere un'economia più risanata: se bastasse questo, molti paesi europei che hanno una situazione di bilancio migliore della nostra non avrebbero la disoccupazione che invece li affligge come noi. Certo noi abbiamo una disoccupazione elevatissima, tre milioni di disoccupati, in più vi sono i sottoccupati, le nuove povertà, ricordate da Farinone; nel Mezzogiorno la situazione è particolarmente esplosiva e non saranno i provvedimenti alla "De Michelis" che la renderanno meno grave. Tuttavia non dobbiamo dimenticare the creare nuovi posti di lavoro vuol dire modernizzare e allargare il sistema produttivo e, qui parla il ministro della ricerca scientifica pro tempore: "Il progresso tecnologico è inevitabile, ma non aiuta ad allargare i posti di lavoro, se non è inquadrato in una politica economica di forte ripresa”. Voglio citare uno dei casi più eclatanti, perché dà l'idea della tendenza: negli Stati Uniti la Elettrolux produceva lavatrici per tutto il mondo, con stabilimenti che occupavano ottantacinquemila persone; in questi anni ha automatizzato tutti i suoi impianti, ha mantenuto il livello di produzione e la struttura commerciale e l’occupazione è scesa a quattromila e cinquecento persone. E negli Stati Uniti, per la grande flessibilità del sistema produttivo, certamente Reagan può dire che si sono creati posti di lavoro, perché, nel momento in cui entravano in crisi i settori tradizionali anche per l'introduzione del progresso tecnologico, è nato un terziario avanzato, flessibile, fatto di società di piccole dimensioni, molto progredite che hanno creato posti di lavoro, e altri posti sono stati creati, probabilmente più numerosi, nel terziario tradizionale, nel fast-food per esempio o in altri tipi di servizi. La flessibilità della società americana ha reagito creando posti di lavoro, mentre in Europa la disoccupazione è aumentata e non tanto per effetto del progresso tecnico e scientifico, perché la nostra polemica tradizionale consiste nel dire the in Europa siamo in ritardo rispetto agli Stati Uniti. In realtà l'Europa è in une situazione di stallo, incapace di diffondere pienamente il Progresso tecnologico e incapace di attivare le necessarie reazioni sociali.

Il problema è assai complesso e qui io entro nella fase conclusiva del nostro dibattito. Rispetto al tema dell'occupazione e dell'allargamento della base produttiva, non è più possibile sostenere soltanto il rilancio degli investimenti; non è possibile e non è utile inventare meccanismi che creino artificialmente dei posti

di lavoro: bisogna determinare dei cambiamenti di struttura e bisogna farlo in fretta, per evitare che sorgano dei problemi pericolosi dal punto di vista culturale e civile. Noi siamo sempre gli ultimi che lasciano le strade sbagliate, ma vorrei dire che in questi giorni, in Inghilterra, il governo delta signora Thatcher sta affrontando questi temi con una correzione di rotta, rispetto al liberismo classico, che crea qualche problema ai teorici della Thatcher e del periodo precedente. Non voglio riaprire la disputa sulla validità del keynesismo rispetto alle terapie del neoliberismo; ieri abbiamo sentito citare abbondantemente la vivacità del premio Nobel Miedler, che ad ottanta anni è riuscito a prendersi la rivincita, per dire che non tutto è morto nel keynesismo, anche se oggi è impensabile stimolare la ripresa attraverso il rilancio dei lavori pubblici, la manovra delta spesa, quando abbiamo problemi gravi di finanza pubblica.

Però il cancelliere dello scacchiere, il signor Lanson, in questi giorni ha constatato che la bassa inflazione non sta affatto portando all'aumento dell'occupazione o al pieno impiego a ha indicato, forse anche perché la signora Thatcher sta andando verso le elezioni, un'impostazione della politica economica inglese fondata su questi quattro punti, 1°) aumento dei lavori pubblici, qui si torna al keynesismo; 2°) sussidi a imprese che impiegano manodopera non specializzata e qui si rientra nell'assistenzialismo; 3°) contrattazione libera: salari, flessibilità, riduzioni dell'orario di lavoro, ma intervento fiscale dello Stato su imprese che consentano salari eccessivamente elevati, cioè limitazioni per intervento pubblico; 4°) difesa della sterlina, non più con l’occhio soltanto al deficit pubblico ma anche ad una manovra più rigorosa sui tassi di interesse. Sottolinea poi il cancelliere dello scacchiere che se gli Stati Uniti hanno creato più posti di lavoro, lo hanno fatto anche perché hanno aumentato il debito pubblico in misura consistente.

Il cancelliere dello scacchiere sta dunque correggendo la linea del puro contenimento dell'inflazione, con un misto di liberismo e keynesismo che vedremo quanto sarà efficace. Ma quello che mi impressiona di più delta situazione inglese, è che sta sorgendo una generazione di giovani the non attribuiscono più grande importanza all'idea di avere un posto di lavoro. Un’inchiesta condotta tra i giovani dà delle risposte impressionanti. Molti dicono: "Non mi interessa avere un lavoro, soprattutto se è continuativo; io qualcosa guadagno qua a là a poi mi godo la vita, che è la cosa più importante”. "Sento musica, vedo gli amici, faccio qualche lavoretto”. Pensate che in Inghilterra, in questo momento, il quaranta per cento delta forza lavoro giovanile ha rapporti part-time e che l’otto per cento svolge attività che in Italia definiremmo lavoro nero.

Vi è il pericolo di un decadimento sociale grave, perché il convivere con la disoccupazione comporta la perdita del senso di responsabilità sociale e insieme sottrae intere generazioni al processo di crescita e di costruzione economica. I giovani non rappresentano soltanto una massa che deve trovare lavoro, per il loro soddisfacimento individuate, i giovani sono l'iniezione di novità, di creatività, di mentalità fresca per il sistema economico nel suo complesso. Se la mancata creazione dei posti di lavoro si accompagna, dal momento che le imprese possono produrre anche senza manodopera o con manodopera ridotta, ad una decadenza a livello culturale e di costume dell'attenzione al lavoro, noi andiamo verso una crisi profonda della società: Barucci e padre Reina ieri ce l'hanno detto: dobbiamo rivalutare il lavoro come valore in sé. Certo la disoccupazione è una grande piaga sociale, una perdita di ricchezza economica, è uno squilibrio insopportabile, è una strozzatura nel sistema economico, lo sappiamo bene, ma nella Costituzione repubblicana, per l'apporto dei costituenti, di parte democratica o cristiana, il lavoro è stato messo tra i valori fondamentali delta Repubblica. E quando dico lavoro, non mi riferisco a certe formule, mi riferisco all'attitudine della persona a esprimere la sua potenzialità. Non mi interessa che nella prospettiva futura il nostro tempo, come dicono i sociologi, sarà per 1/3 lavoro, per 1/3 svago, per 1/3 formazione. Le formule possono variare, ma quando in una società si perde il senso del lavoro, si perde il senso del dovere e quindi della responsabilità e della solidarietà. E allora c'è spazio per il paternalismo, l'autoritarismo, il dominio di pochi, anche nel sistema economico. Quindi noi dovremmo, come fecero Vanoni a Saraceno, riprendere il valore del lavoro e del pieno impiego, come elemento forte di una finalizzazione, non solo economicistica, della trasformazioni dei prossimi dieci o vent'anni della società italiana. E per fare questo devono cadere molti tabù.

La tavola rotonda di ieri è stata drammatica da questo punto di vista, cari amici.

Io ho visto con piacere che Ghidelli, nel suo intervento, ha ricordato le proposte di Alvin Toffler che in un recente saggio ha lanciato provocazioni da futurologo, ma molto efficaci per la situazione attuale. Quando Toffler dice che la ristrutturazione inevitabile dell'economia porta ad una varietà di imprese, di soggetti, a trasferimenti di funzione, a cambiamenti delta struttura, ne discende una conseguenza pratica. Di fronte a questi cambiamenti inevitabili, il sindacato perde potere, viene declassificato, destrutturato e non si salva ostacolando la trasformazione, come non si salvano le imprese, se non trovano nel sindacato un consenso ispirato ad una flessibilità di comportamenti, perché anche per introdurre l'innovazione tecnologica e trasformare le aziende occorre un consenso sociale. Quindi, c'è un cambiamento profondo dello scenario, e non è più possibile ripresentare lo schema Vanoni o modelli superati, perché bisogna collocare la politica dell'occupazione in un contesto che tenga conto anche del Progresso tecnologico e scientifico e del mutamento del costume imprenditoriale. Toffler, proprio per prevenire la reazione di quelli che, tra i sindacati e gli imprenditori, sono invece, immobilisti, ricorda che cento anni fa, quando si passò da dodici ore di lavoro a otto ore, le profezie sul crollo del sistema economico si sprecavano; così come i luddisti, quando distruggevano i telai meccanici in Inghilterra, pensavano che, arrestando il Progresso tecnologico, avrebbero salvato l'occupazione; le ore sono scese a otto, l'occupazione è passata dall'agricoltura all'industria, il progresso continuato e il mondo ha conosciuto una fase di espansione economica senza precedenti.

E allora Toffler, nella sua provocazione, che io non voglio applicare automaticamente all'Italia, arriva a dire che bisognerebbe coraggiosamente ridurre l'orario di lavoro e fa la proposta del piano 5.5.5 cioè una settimana di venticinque ore di lavoro, con più cinque ore obbligatorie di formazione, da utilizzare in modo assai flessibile e articolato nel corso dell'anno. Perché in effetti il problema dell'introduzione del progresso tecnologico nei settori produttivi e nei servizi è gravemente ostacolato dalle scarsa preparazione dei lavoratori non solo alle nuove tecniche, ma al cambiamento in sé. Toffler giunge persino a dire che è irrilevante il costo finanziario di questa impostazione: è molto più importante introdurre flessibilità nelle retribuzioni, nelle difese sindacali, nel comportamento rispetto alle trasformazioni aziendali. E agli imprenditori che, vedono sempre negativamente le riduzioni di orario di lavoro, ricordo che è assolutamente necessario non ostacolare, ma governare l'automazione e il progresso scientifico e tecnologico. E allo Stato suggerisce di privatizzare funzioni che portano a distruzione di risorse quando sono gestite nell'ambito della burocrazia e dei servizi statali. Toffler propone una sfida, che sicuramente farà discutere, ma quello che è importante da ricordare è che non basta aumentare le risorse finanziarie destinate agli investimenti, se gli investimenti non vanno nella direzione di una profonda riorganizzazione del sistema produttivo e se i sindacati non ritrovano la fantasia di difendere i lavoratori in senso dinamico e non in senso corporativo, guardando più al domani che non all'oggi. E Toffler arriva alla conclusione che un accordo tra sindacati e imprese su questa impostazione è indispensabile per sopravvivere come sistema industriale progredito. Io sono convinto che occorra un patto sociale in Italia per superare certe difficoltà. La lezione dal referendum sulla scala mobile, caro Bianchi, non è soltanto un successo di percorso, la dimostrazione che se noi ancoriamo i sacrifici a delle cose giuste, la disponibilità al sacrificio c'è.

Per questo pur accettando in parte questa spinta provocatoria di Toffler sul mutamento dei rapporti sociali e produttivi, noi non possiamo fare a meno di integrare questo patto sociale con la ripresa di una Funzione pubblica dello Stato nell'orientare l'economia. Mi lascia infatti perplesso la nuova retorica delle privatizzazioni.

Posso essere favorevole a che lo Stato non faccia automobili e lasci ai privati questa opportunità, anche se ho qualche preoccupazione quando vedo una forte concentrazione monopolistica in un settore, ma non accetterei che la lotta contro l'intervento pubblico nell'economia, si trasferisse anche nei grandi settori strategici d'avanguardia, dove le tecnologia e il progresso vanno governati e non soltanto lasciati alla gestione privatistica delle iniziative.

Quindi, bisognerebbe riorganizzare tutto il sistema di intervento pubblico nella economia, non sulla base di svendite o di acquisti valutati commercialmente, ma perché deve cambiare pelle e finalità l'intervento pubblico, rispetto al mutamento di uno scenario economico che in questi due giorni abbiamo approfondito.

La programmazione, se è fallita in un certo contesto storico a politico, non è detto che debba essere abbandonata per sempre, anzi la Democrazia Cristiana potrebbe rilanciare un grande piano per l’occupazione, da presentare agli elettori come base del Governo di legislatura, dalla prossima legislatura, per riportare in primo piano la sua volontà, come ha insegnato Vanoni, di usare l'economia a fini di giustizia, di riequilibrio, di modernità a di espansione del sistema italiano.

Noi dobbiamo dare alla Democrazia Cristiana questa capacità di riscoprire, come ci hanno ricordato ieri Barucci a Roggi, l'idea centrale della programmazione, come coscienza di una classe dirigente nel controllo del Parlamento, nella solidarietà dei sindacati e delle imprese, a guidare l'economia a fini di progresso generale. Ci vorrà coraggio, certo, ma noi che siamo vissuti per tanti anni di rendita sul miracolo economico degli anni Cinquanta, vogliamo renderci conto che, senza gli atti coraggiosi di quel periodo, la liberalizzazione degli scambi, la riforma agraria, certi investimenti nella siderurgia a nella chimica, che poi non siamo stati capaci di fermare, perché il nostro paese ci mette molto tempo a fare cose nuove e poi ci mette moltissimo tempo a fermarsi quando le cose nuove non hanno più senso, senza quelle scelte degli anni Cinquanta, l'Italia non sarebbe diventata la nazione industriale che si è affermata nel mondo. E, oggi, senza scelte coraggiose, noi non entreremo nella società post‑industriale, che è la società della flessibilità, del movimento, del merito, della selezione e non del paternalismo assistenzialistico o dello Stato burocratizzato. È una grande occasione per la Democrazia Cristiana questa di rilanciare un'idea generale di sviluppo e modernizzazione del paese, da porre alla base del confronto con i partiti, delle formule, dell'appello agli elettori, da collegare alla riforma delle istituzioni, alla modernizzazione della scuola, alla soluzione dei problemi della famiglia, delle case, dei servizi, non in una logica assistenzialistica, ma in una logica di costruzione di una società più moderna.

Ecco perché, allora, mi pare che se riflettiamo di economia a pensiamo non in termini di profitto o di aumento materiale del consumo, ma di economia come grande leva di trasformazione a di crescita civile di un paese, una Democrazia Cristiana che assume queste idee e che faccia della solidarietà non è un'espressione consolatoria, ma un grande ideale per i prossimi dieci o vent'anni, riacquisisce il titolo, insieme al consenso, di riprendere la guida del paese, collaborando nelle forme più ampie possibili con tutte le forze democratiche e costituzionali.

Il discorso, come naturale, torna al partito, cari amici. Devo dire che è un esempio raro quello di vedere qui tante persone che hanno seguito il lavoro in questi due giorni, con grande attenzione, anche con difficoltà, perché usciamo da un lungo sonno di immobilismo anche nel pensiero, come sinistra democratico-cristiana.

Se quella che è vissuta qui in questi due giorni è una corrente, io sono per il ritorno il più rapido possibile alle correnti, perché senza correnti che pensano, che elaborano, che approfondiscono, si organizzano potentati a gruppi che mirano solo alla distribuzione del potere a svendono anche la nostra tradizione storica. E non è un rimedio sostituire alle correnti nel vuoto, nel conformismo, la creazione di una super corrente del segretario politico, chiunque esso sia, perché questo, presto o tardi, porta male anche al segretario politico, che non ha bisogno di fedeli, ha bisogno di uomini liberi, che contribuiscano nel dibattito a rendere forte la strategia della Democrazia Cristiana.

Dobbiamo riprendere il dibattito politico, cari amici. Lo dico ai giovani soprattutto: state attenti a volere sempre la benedizione da Roma, il paracadute per le cose che si devono fare.

Penso agli enti locali: bisogna avere più coraggio in periferia, a fare le cose che devono essere fatte. Non facciamo come i giapponesi, nelle Filippine che continuavano la guerra nella giungla dopo anni che era finita, nel continuare a voler dappertutto il pentapartito, quando nessuno più lo vuole e quando i nostri dirigenti periferici, che sono impegnati in operazioni molto complesse, hanno il diritto alla nostra solidarietà e non al nostro ostacolo.

Sotto questo profilo dobbiamo riprendere autonomia anche nei confronto della Segreteria Politica. Non è vero che al congresso noi abbiamo deciso solo il pentapartito: al congresso, nelle relazioni di De Mita sul nuovo riformismo, c'erano molte cose che possono coincidere con quelle che abbiamo discusso noi qui, ma

che cresceranno nel partito solo se nel partito si riapre una fase di dibattito. Può darsi che qualcuno pensi alle congiure contro il segretario del partito: noi non saremo mai tra i congiurati, però non consideriamo esaurito il nostro dovere di fedeltà nel dire sempre sì, anche quando occorre dire no e nel fare quello che la sinistra deve fare e il segretario del partito non può fare, perché il segretario del partito ha la responsabilità complessiva della Democrazia Cristiana, mentre la sinistra deve tornare ad essere l'elemento di spinta, di creatività e di pensiero di un partito popolare come il nostro. E qui ha ragione Galloni nel dire che bisogna rifare una rivista, che bisogna ricominciare a scrivere, che bisogna uscire allo scoperto, che non bisogna considerare tutte queste cose come marginali per la politica, una sorta di week-end di consumo culturale, in base al quale scopriamo che siamo bravissimi nel fare discorsi, nell'assumere atteggiamenti morali molto rigorosi, nel volere una società bellissima per il dopodomani, ma appena usciti di qui ci dimentichiamo dei convegni, e nell'azione pratica non siamo coerenti con le cose che abbiamo discusso e approfondito.

Bisogna riportare a unità il pensiero e l'azione, la scoperta di un'idea a la coerenza pratica; bisogna riportare ad essere un valore della politica anche la sconfitta; troppi amici hanno paura di passare all'opposizione; troppi amici pensano che se uno è battuto su una idea giusta, dimostra di essere un politico poco lungimirante. Se potessi trasmettervi qualcosa, vorrei dirvi the nella mia esperienza politica mi hanno formato più le sconfitte e gli insuccessi, che non i successi che sono venuti dopo, perché la coerenza, nella vita politica è un bene the non si consuma. E allora ha ragione Camillo Ferrari quando dice: "Ricominciamo” Io l'ho interrotto dicendo: "In verità non abbiamo mai smesso”, però devo ammettere che abbiamo continuato senza quello stretto collegamento tra pensare e agire che c'era all'inizio del nostro movimento, quando sorse la Base.

Allora non si tratta tanto di continuare ma, forse, di tornare alle origini, di riprendere il ruolo di avanguardia che la D.C. milanese a lombarda hanno avuto nel contesto nazionale, cominciando a pensare adesso ad un prossimo congresso provinciale del partito, dove tutto non finisca a tavolino, in quelle liste unitarie pasticciate, che impediscono alla Democrazia Cristiana di riprendere quella scioltezza d'iniziativa di cui ha bisogno. Infatti anche i segretari eletti direttamente in queste condizioni non possono esercitare il loro peso politico, se il prezzo pagato per l'e1ezione unitaria è quello di una consorteria di posizioni diverse che paralizzano qualsiasi analisi a qualsiasi decisione.

Bisogna prepararsi al congresso e bisogna prepararsi non alla staffetta, che è cosa mediocre, ma alla ripresa di autorità e di prestigio nella Democrazia Cristiana, senza aspettare che altri ci concedano quello che a noi spetta.

Piuttosto fastidioso, da respingere con forza, è l'accenno di Visentini di ieri che la Democrazia Cristiana non avrebbe nemmeno la possibilità di tornare a Palazzo Chigi. Questo, ormai, lo pensa anche Nicolazzi, e c'è veramente il rischio che, in mancanza di contenuti politici, noi ci si divida, ancora una volta, nel cercare chi farà il governo.

Io sono dell'avviso, l'ho detto anche all'interessato, che per ridare un contenuto a questa scorciatoia bizantina della staffetta, bisognerebbe che la Democrazia Cristiana prendesse in mano il governo al più alto livello possibile.

Noi avremmo bisogno di un governo De Mita, con una Democrazia Cristiana unita dietro di lui, con programmi nuovi, con una squadra di governo efficace, capace di dire ai socialisti e ai laici che, ove non fosse garantita la stabilità e la continuità dell'azione di governo, che noi abbiamo garantito in questi anni, allora vi è l'appello all'elettorato, ma a testa alta e con un esperimento di governo che non sia transitorio o provvisorio, in attesa che, dopo le elezioni, ricominci la commedia dell'alternanza e delle staffette. Per fare questo occorre una grande Democrazia Cristiana. Noi possiamo contribuire a fare in modo che riprenda, perlomeno, questa coscienza.

Continuiamo a riflettere su quello che ci siamo detti tutti insieme, non disperdiamo la nostra amicizia, la nostra solidarietà; non trascuriamo di capire quelli che esprimono posizioni diverse; il nostro patrimonio è sempre stato questo: di non mettere in discussione l'amicizia, la cultura di fondo, la solidarietà, la vocazione che abbiamo per la politica e di arricchirla sempre con la discussione.

Se noi, da qui, continueremo, tornando però alto spirito delle origini che unisce il pensiero all'azione e rilancia su tutta Ia Democrazia Cristiana questa spinta della sinistra che non deve considerare esaurita la sua funzione, avremo fatto il nostro dovere di militanti democratici cristiani.

Quaderni della base
Pallanza
28-29-30 novembre 1986
Luigi Granelli