serie Costituzione – DOCUMENTO 1 (gennaio 1998)

La Costituzione non va stravolta nel riformarla. Ci possono
essere modificazioni della seconda parte capaci di portare a
riduzione dei diritti dei cittadini garantiti dalla prima parte.
Giuseppe Dossetti

LIBERTA’ E DIGNITA’ DEL PARLAMENTO

E’ cominciato a Montecitorio l’iter per l’approvazione, in prima lettura, delle proposte di riforma della seconda parte della Costituzione. Toccherà poi al Senato e dopo una seconda lettura, in entrambe le Camere, saranno i cittadini elettori a doversi pronunciare definitivamente. Solo se approvate dalla maggioranza dei voti validi, con una partecipazione al Referendum non inferiore al 50% degli aventi diritto, le nuove norme costituzionali potranno essere promulgate.

La procedura complessa e non breve, con dubbi con dubbi non risolti sulle modalità di un referendum finale che contrasta, per la materia mista del quesito, con sentenze della Corte Costituzionale, ha un preciso significato di garanzia e non può essere ridotta ad una "routine" burocratica e ripetitiva. La doppia lettura è stata voluta dai costituenti per consentire, ad ogni passaggio, eventuali correzioni o meditate convalide delle decisioni prese.

In ogni momento la sovranità del Parlamento deve essere fuori discussione. Così come nessuna modifica che interferisca nella prima parte della Costituzione è ammissibile. La legge che istituisce la Commissione Bicamerale è esplicita nell’affermare, all’art. 4, questo limite invalicabile e di questo dovrebbero essere vigili garanti i presidenti delle due Camere. Nessuno contesta questi principi, ma non sono pochi i tentativi per aggirarli.

Il primo di essi è quello di considerare "blindati", e quindi immodificabili, alcuni compromessi maturati a volte persino al di fuori della Commissione nella Bicamerale. Questa singolare interpretazione va respinta con decisione. Le proposte trasmesse al Parlamento hanno certo un valore rilevante, in forza della legge costituzionale che istituisce una commissione ad hoc, ma nessuna di esse può essere sottratta al potere decisionale delle Camere.

Né si può distinguere per materie in modo da considerare ammissibili su alcuni punti emendamenti anche sostanziali e da poter invece precludere altre modifiche, come ad esempio quelle riguardanti il semi-presidenzialismo

o il premierato, con il pretesto che verrebbero stravolte le proposte di revisione della Costituzione.

Se questa singolare tesi fosse accettata sarebbero vulnerate la libertà del Parlamento e la sua stessa dignità istituzionale. A cosa si ridurrebbe la sovranità parlamentare qualora si ritenesse già approvato, nelle scelte fondamentali, un progetto di riforma e in pratica si considerassero possibili solo modifiche marginali ?

Non è nemmeno concepibile che siano precluse all’esame in Aula correzioni sostanziali, modifiche di testi lacunosi frutto di votazioni di disturbo o a sorpresa, integrazioni conseguenti dovute al dibattito o a maggiore riflessione. Tanto più che il diritto di emendare una proposta equivale a quello di difenderla, anche riproponendo lo schieramento che l’ha approvata, senza considerarla una decisione senza appello e non modificabile.

Ma vi è anche chi cerca di mettere il Parlamento di fronte al fatto di patti politici concordati in altre sedi per eleggere direttamente il capo del Governo o il presidente della Repubblica. I mass media hanno ripetutamente accennato, tra smentite e conferme, ad un patto siglato a casa Letta tra D’Alema e Berlusconi ed altri "leader" di partiti tra cui il PPI. La stessa Bicamerale è risultata condizionata da richiami analoghi che tendono, in sostanza, allo svuotamento delle prerogative parlamentari.

Un incontro tra pochi vertici, con proposte di scambio anche in altre materie, diventa così il foro quasi segreto in cui decidere modifiche della Costituzione da ratificare poi, senza troppe discussioni in Parlamento. Anche questo tipo di condizionamenti è inaccettabile. Nè vale la minaccia che non rispettando l’intesa fallirebbero le riforme perché l’approvazione di proposte diverse, o la loro modifica, è comunque una soluzione.

Gli accordi politici in un ambito più ampio della maggioranza di governo sono certamente auspicabili, specie in materia costituzionale, ma devono maturare ed essere resi espliciti nella trasparenza delle istituzioni. I cambiamenti di posizione sono certamente possibili. Nella fase finale dell’Assemblea Costituente del 1947 il PCI assunse, dopo il passaggio all’opposizione, una posizione più aperta sul regionalismo e si delinearono così, senza contropartite, convergenze significative nel varo della seconda parte della Costituzione.

Ma è ben diversa la tendenza a muovere da contropartite d’interesse, concordate in circostanze poco chiare, per imporre al Parlamento soluzioni preconfezionate. Per questo l’invito a rispettare i patti non può trasformarsi nell’obbligo ad accettare, senza spiegazioni pubbliche convincenti, soluzioni a scatola chiusa per la revisione della Costituzione. E’ in gioco, insieme alla credibilità della politica, la libertà e la dignità del Parlamento.

IL FALSO SCOPO

E’ un convincimento diffuso che vadano ricercate, nella stesura o nella riforma di una Costituzione, le maggioranze più ampie possibili. Le regole che son o poste alla base dell’ordinamento devono tenere conto di tutti. E’ saggio in questa materia andare al di là del rapporto tra maggioranza ed opposizione. A questo criterio si sono ispirati i lavori dell’Assemblea Costituente del 1947. E’ degno di lode che questo orientamento venga difeso anche per la revisione della Costituzione. Negli ultimi tempi è emersa una interpretazione strumentale di questa preoccupazione. In molti caso si è trasformata la ricerca di convergenze.
In una specie di obbligo ad ampie maggioranze, pressoché unanimi, che sembrano considerare non praticabili decisioni con un consenso più ristretto e pur sempre legittimo delle Camere. La giusta preoccupazione diventa così un falso scopo. Co n il pretesto dell’ampia maggioranza si cerca spesso di forzare le scelte parlamentari a favore di intese contraddittorie e di impedire la chiara distinzione di posizioni su argomenti di fondamentale importanza. Il Parlamento non può accettare uno strisciante ricatto. Un voto che raccolga la prevista maggioranza, pur se di misura, è pienamente legale anche in materia costituzionale. Le larghe convergenze vanno sempre ricercate, con serietà d’intenzione, sino all’ultimo, ma non vanno escluse votazioni di maggioranza quando l’importanza della scelta lo richieda. Si sono comportati così anche i padri fondatori della Costituzione.

PRO E CONTRO : il principio di sussidiarietà

La Commissione Bicamerale ha corretto, nell’ultima stesura, il titolo della seconda parte della Costituzione definendo "federale" l’ordinamento della Repubblica. La concessione è largamente nominalistica e non fanno seguito sviluppi coerenti con questo annuncio nell’articolato. L’impostazione resta, giustamente, quella di una forte autonomia che dovrà essere ulteriormente rafforzata in sede di emendamenti. Sarebbe quindi opportuno, per una ragione di chiarezza, ripristinare il testo originario della proposta.

L’art. 55, migliorato con la soppressione di alcuni commi, vi è una singolare definizione della Repubblica, propria della prima parte della Costituzione, pone sullo stesso piano i Comuni, le Province,le Regioni e lo Stato. Cos’è la Repubblica se non uno Stato che riconosce pienamente le autonomie? L’art. 5 della Costituzione è esplicito su questo punto e sembra utile un maggiore coordinamento con esso per evitare interpretazioni equivoche e assai pericolose.

L’art. 56 contiene, al comma 1, la riaffermazione nella seconda parte della Costituzione del principio di sussidiarietà. Il testo, migliorato nella stesura finale della Bicamerale dopo vivaci polemiche, appare riduttivo e in grave contrasto con gli articoli 3 e 5 che sanciscono con pienezza di significato il principio di sussidiarietà posto alla base dell’intero impianto costituzionale. Lo scopo più volte richiamato sia dalla proposta che dalla versione attenuata è quello di riservare costituzionalmente ai privati in grado di svolgerli "adeguatamente", anche attraverso formazioni sociali, i compiti attribuiti ai Comuni, alle Province, alle Regioni, e allo Stato.

E’ anzitutto evidente il sostanziale sconfinamento nella prima parte della Costituzione che la legge istitutiva della Commissione Bicamerale esclude. La stessa Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che la Costituzione italiana "contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure la leggi di revisione costituzionale" (sentenza n° 336 del 1991).

Sarebbe opportuno porre al Presidente della Camera il problema dell’ammissibilità o meno della formulazione presentato del primo comma dell’ art. 56. Nel merito la preoccupazione è ancora maggiore. E’ una mistificazione far credere che con questa proposta si introduce nella Costituzione il principio di sussidiarietà. La tutela dei diritti originari della persona, delle comunità intermedie, delle formazioni sociali, è ampiamente garantita negli articoli 3 e 5 ed è anzi fatto esplicitamente carico allo Stato di "rimuovere gli ostacoli" che ne impediscono l’esercizio effettivo.

L’ art. 41 stabilisce inoltre che "l’iniziativa privata è libera" e può svolgersi in ogni campo tenendo conto dell’utilità sociale e della necessità di "non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Ci sono dunque ampie possibilità, a Costituzione vigente, per valorizzare le iniziative della società civile, delle formazioni sociali, del terzo settore. Anche per quanto riguarda le autonomie l’ art. 5 è più incisivo del primo comma del proposto art. 56, che rinvia alla legge ordinaria di garantire le "autonomie funzionali", perché riconosce il diritto originario delle istituzioni intermedie e non si limita ad attribuirle e a ripartirne le attività.

Dietro un apparente ossequio al principio di sussidiarietà c’è il tentativo di comprimere il preciso doveri dello Stato, in tutte le sue articolazioni, di rimuovere per quanto di competenza gli ostacoli giuridici, economici e sociali per l’ affermazione di diritti costituzionalmente riconosciuti. Questo obiettivo, assai pronunciato nella proposta iniziale, è stato da più parti ribadito di fronte alle attenuazioni introdotte dalla Bicamerale. Si tende cioè a ripristinare una idea di Stato minimo, anteriore alla Costituzione del 1947, sostituito surrettiziamente da attività private che possono, se "svolte adeguatamente", sostituire le funzioni pubbliche diversamente attribuite.

E’ evidente il rischio di aprire la via, più che ad una estensione del principio di sussidiarietà, a lucrose iniziative anche settori che, pur essendo aperti alla cooperazione con i privati non possono essere sottratti al dovere di intervento delle istituzioni o oggetto di delega. Per tutte queste ragioni il primo comma dell’art. 56 andrebbe abrogato o meglio definito nel pieno rispetto degli articoli 3 e 5 della Costituzione.

I TESTI

primo comma dell’art. 56 della proposta della Bicamerale

Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni pubbliche sono attribuite a Comuni, Province, Regioni e Stato sulla base dei principi di sussidiarietà e di differenziazione. La titolarità delle funzioni compete rispettivamente a Comuni, Province, Regioni e Stato, secondo i criteri di omogeneità e adeguatezza. La legge garantisce le autonomie funzionali.

articoli 3 e 5 della vigente Costituzione