La sfacciata compagna
"secessionista" di Umberto Bossi, che dovrebbe culminare con la
grottesca e illegale elezione di un Parlamento padano, crea sconcerto, reazioni
di valore civile, polemiche politiche e prese di posizione istituzionali, Sembra tuttavia tardare
l'analisi di fondo di un fenomeno di inquietante lacerazione della società
italiana come quello della Lega-Nord. Generale è lo sdegno dei democratici,
anche di destra, ma le due più diffuse strategie di contenimento paiono
insufficienti.
La prima si appella agli atti di forza,
all'imperio della legge, per porre fine alla consumazione, implicita ed
esplicita, di reati e violazioni che minano la convivenza civile e l’immagine internazionale
dell’Italia. La seconda confida sul logoramento di un leader insultante e
umorale, sul velleitarismo del suo disegno di sovversione, su un isolamento culturale
e politico che giornali e televisioni infrangono per primi e che diffuse
alleanze locali ispirate a ragioni di potere privano di credibilità.
C’é
subito da notare che vi sono elementi essenziali e inseparabili per una offensiva
in positivo contro l’eversione leghista in entrambe queste strategie. Quando si
vogliono dividere e contrapporre aree del territorio nazionale, operare
discriminazioni razziste, precostituire nuclei in divisa di una milizia di
parte, bruciare le tessere altrui e minacciare gli avversari si è già oltre il
limite. Se poi si indicono le elezioni di un
Parlamento diverso, si vilipende la bandiera nazionale, diventa un
dovere irrinunciabile, del Governo e non dei partiti, la difesa inflessibile
delle leggi, della Costituzione, delle regole della convivenza civile.
Così
come tocca alla Magistratura, sino a quando varrà il principio costituzionale
della obbligatorietà dell’azione penale, perseguire i reati noti o segnalati da
cittadini, da Amministrazioni o da organi istituzionali che non dovrebbero
concedere autorizzazioni contrarie alle leggi o avallare atti che ne
costituiscono violazione. Il far finta di non vedere non si addice alle istituzioni.
Gli interventi in difesa della legalità non hanno bisogno di roboanti
motivazioni, di spirito repressivo o persecutorio, ma di puntuali e severe
contestazioni, di fermi rifiuti, di passi verso l’autorità giudiziaria per le
violazioni di legge fatte da persone, gruppi o associazioni.
Si
sbaglia ad aspettare il “fatto” grosso, l’intervento plateale, più vicino alla
repressione che crea vittime che non ad una paziente, efficace, scrupolosa
difesa delle istituzioni e dei diritti di tutti. Questa linea di condotta è in
ritardo a causa di sottovalutazioni, furbesche tolleranze, anche se va
riconosciuto che il Governo Prodi ha lodevolmente annunciato un atteggiamento
di fermezza istituzionale in vista di scadenze cruciali della minaccia
secessionista.
Come
si è osservato il disegno della secessione, della rottura dell’unità nazionale,
animato da egoismo razzista, da miti paganeggianti, da un rozzo
anticlericalismo, richiede soprattutto risposte culturali, civili, politiche e
persino di costume. E’ qui che occorrono serietà di analisi e proposte concrete
da apporre al “leghismo” per radicare e far crescere nella società la coscienza
di reali soluzioni alternative. Vanno tenute nettamente distinte le azioni
illegali dalle opinioni sempre legittime in democrazia. Questo sforzo non può
essere chiesto alle istituzioni e non può limitarsi a condanne, polemiche,
contro-manifestazioni.
I forti richiami del Presidente Scalfaro
Tra
le voci più ferme in difesa della legalità e dell’ordinamento si è puntualmente
levata, con il massimo di autorevolezza, quella del Capo dello Stato. Appellandosi,
giustamente, al buonsenso di tutti, il Presidente Scalfaro ha per tempo
ammonito che le eventuali elezioni padane, escluse anche formalmente da una
decisione del Parlamento, sono “fuori e contro la Costituzione”. (1) A nessuno
può essere consentito di indire in Italia, unilateralmente, consultazioni per
eleggere una Assemblea parlamentare sulla base di liste camuffate di un solo
partito.
Per chiamare alle urne è necessaria, come
noto, una decisione formale del Governo, sottoscritta dal Presidente della
Repubblica e pubblicata sulla gazzetta Ufficiale, e vanno applicate e
rispettate procedure di controllo della presentazione delle candidature e
dell’esito del voto a garanzia del diritto di tutti i cittadini. Non basta
paragonare una violazione così grave e rilevante aduna bizzarria da sopportare
per non fare il gioco di chi punta alla secessione.
Né si può teorizzare, come fa Bossi, una
doppia legalità in vista di una trattativa per lottizzare le spoglie
dell’ordinamento perché questo è già una rottura dei principi costituzionali e
della legislazione vigente. Lo stato può e deve essere riformato anche con
ipotesi radicali solo ricorrendo, correttamente, agli strumenti legali delle
decisioni in Parlamento e, nei casi previsti, al referendum popolare. Altre
procedure sono illegali e richiedono atti di prevenzione, interventi motivati,
da parte di chi ha il dovere di fare rispettare le leggi, prima del ricorso,
dopo che i reati sono stati compiuti, all’autorità giudiziaria.
L’inerzia istituzionale non paga. Veltroni ha
giustamente ricordato che non possono esistere, in un Paese democratico, due
Parlamenti. E’ da condividere l’opinione che si tratta di eleggere,
coinvolgendo in forme anche inedite elettorali e simpatizzanti, organi di
partito o di movimento, non ci sono obiezioni. Ma questo è un chiarimento da
ottenere da chi organizza la consultazione, non da chi osserva e magari cerca
alibi per non assumere le proprie responsabilità.
La realtà non cambia solo perché è
interpretata diversamente o si decide, finalmente, di dare minore spazio alla
Lega. Né l’insuccesso delle più recenti manifestazioni per la proclamazione
della Padania, accompagnate da giuramenti, insulti, vilipendi, oltre che
dall’invito a non commettere il reato di pagare le tasse all’Italia, può
cancellare la manifesta volontà di infrangere ogni principio di legalità.
Non si tratta di mostrare i muscoli o di
ricorrere con leggerezza ad atti repressivi, ma di difendere in ogni momento,
senza tentennamenti, le leggi in vigore tenendo sempre aperta,
responsabilmente, la via del dialogo, del ritorno operativo nelle sedi
istituzionali, che non impediscono alla Lega di far valere con piena
legittimità le proprie proposte o di svolgere, con il massimo di intransigenza,
le sue battaglie di opposizione. Il futuro dirà se il buonsenso è prevalso o se
i democratici, a prescindere dalle logiche di schieramento, saranno stati
all’altezza di questa significativa prova.
Giusta e parziale
l’analisi di Michele Salvati
In un articolo sul “Corriere della Sera”, che
riprende la prima parte del suo intervento al convegno di Cernobbio della
Fondazione Ambrosetti, l’on. Michele Salvati (PDS) ha avviato, sulla scorta di
un’analisi giusta anche se parziale, una seria discussione sul come affrontare
l’inquietante pericolo secessionista. (2) E’ questa l’unica strada percorribile
per opporsi costruttivamente, sul piano culturale e politico, al fenomeno del
leghismo. E’ opinione diffusa, da lungo tempo, che l’attuazione in anticipo di
alcune proposte antistatali di Bossi o la rincorsa sul terreno di un ambiguo
federalismo avrebbe, in sostanza, svuotato la Lega ridimensionandone
l’affermazione.
Salvati attribuisce con una certa generosità
alla protesta leghista, concentrata nel settentrione ed in alcuni ceti sociali,
il merito di aver espresso una domanda di “federalismo” che ha costretto a discutere
di riforma federale dello Stato. La tesi è in parte corretta dalla fondata
constatazione che alla base della suggestione della macro-regione del nord,
anzi della presunta “nazione padana”, vi era un irreversibile impulso
separatista. La Lega non si è mai fatta carico, in nessun momento, dei problemi
e del destino delle atre aree del Paese e del complesso delle istituzioni
repubblicane.
La separazione avrebbe di per sé risolto, con
una chiusura localista ed egoista, i problemi della corruzione, delle tasse,
dell’inefficienza pubblica, dell’accumulazione delle risorse e della prosperità
economica. L’obiettivo non era, sin dall’inizio, nemmeno quello della
integrazione federale tra entità differenziate in un unico territorio in
alternativa con una omologazione nazionale di tipo centralistico. In questa
ipotesi ci sarebbe stata, in parte, almeno qualche analogia con altri modelli
di Stato federale. Il dato prevalente era invece ed è la rottura dell’unità
nazionale. Si può convenire con Salvati che, alla luce di questa impostazione,
il passaggio da un presunto federalismo alla secessione non stupisce più di
tanto. Una prima conclusione merita qualche chiarimento. “E’ evidente – scrive
l’on. Salvati – che l’offerta di federalismo verso cui si sta orientando la
Bicamerale non può soddisfare le domande politiche della Lega, e che tale offerta
sarà accettata solo strumentalmente, solo nella misura in cui i maggiori poteri
concessi alle Regioni possono costituire un trampolino di lancio per una
escalation secessionista”. La sfida impropria è tra una accentuazione
dell’autogoverno regionale, delle Regioni così come sono, ed una corsa senza
fine alla secessione anche per questa via.
In tale prospettiva Bossi può chiedere sempre
qualcosa di più e di diverso da quello che è in grado di ottenere e lo sbocco di
una ambiziosa mediazione politica, cioè di un incontro tra domanda ed offerta
di un equivoco federalismo, risulta assai fragile se non inconsistente. Non
solo. L’ipotesi di trattativa con alle spalle la minaccia secessionista,
accettata ora da Bossi per attenuare con il ritorno nella Bicamerale le
lacerazioni provocate, sembra escludere la riforma generale dello Stato, il
valore complessivo delle istituzioni, la solidarietà nazionale in settori
decisivi, dall’economia alla politica estera, che nessun modello federale
rigetta a priori o sottovaluta.
La costruzione della
Repubblica delle autonomie
Questi interrogativi non trovano risposte.
Salvati teme, anche in precisazioni al “Corriere”, che un federalismo limitato
ad un parziale aumento dei poteri delle Regioni e degli Enti locali si riveli
deludente, alla prova dei fatti, e possa provocare, per il suo scarso funzionamento,
una ancor più forte ondata secessionista. Di fronte a questo pericolo, scartata
la proposta della Fondazione Agnelli poco praticabile perché tecnocratica di un
più elevato numero di regioni, la proposta resta solo l’offerta di un più forte
federalismo o, comunque, di maggiori autonomie regionali.
L’on. Salvati si augura che emerga nella
Bicamerale questo maggiore coraggio, riconosce onestamente la spinta positiva
che può venire in particolare dai “popolari” eredi di Sturzo, si fa carico dei
dubbi che accompagnano un ambigua ipotesi federalista, ammette che è “difficile
e rischioso cercare di seguire la lega sul suo terreno, ma si ferma sulla
soglia di questo problematico giudizio. Di qui la parzialità di una sia pur giusta
e condivisibile analisi. Lo sbocco proposto non rompe la spirale perversa della
rincorsa alla protesta leghista, del federalismo strumentale e privo di respiro
nazionale, del permanente ricatto secessionista.
Il rischio evidente è la subordinazione alla
logica di una trattativa con il fucile in spalla che, per Bossi, altro non è
che lo stratagemma di una lottizzazione di istituzioni da frantumare più che da
riformare. Non è certo un rimedio continuare a scrivere e riscrivere, come fa
il relatore D’Onofrio, bozze oscillanti tra la protesta leghista e le
resistenze centraliste. Il voto beffardo della Lega sul presidenzialismo
dovrebbe pure insegnare qualcosa ai molti che solo per eventi imprevisti hanno
cambiato, tra accentuate contraddizioni, il loro percorso di riforma
costituzionale.
Il coraggio che manca è quello di proporre
una reale alternativa all’istinto secessionista e non negoziabile di Bossi, al
finto federalismo della lega e di quanti continuano a rincorrerla, e cioè di
attuare un progetto che unisca in un disegno organico di riforme un forte
sistema di autonomie regionali e locali, il reale smantellamento del
centralismo, la costruzione di una Repubblica con ampio decentramento di poteri
già delineata nella prima parte della costituzione del 1947 e, purtroppo, mai
attuata. (3)
Non è una prospettiva scontata. L’istituzione
di una effettiva camera delle autonomie, profondamente diversa dalla
insoddisfacente formula escogitata, un ampio e quantificabile trasferimento di
poteri fiscali coerente con il potenziamento ad ogni livello dell’autogoverno
locale, il riordino con criteri di reale decentramento della Pubblica
Amministrazione e degli apparati statali, sono le prove di credibilità da
offrire ai cittadini, più che alla Lega, se si vuole mettere a nudo il “bluff”
secessionista ed avventuroso di Bossi, sottrarsi al suo ricatto, acquisire
consensi durevoli tra elettori scontenti e delusi.
L’insostenibile paragone
tra Scozia e Padania
Per enfatizzare la sua
rumorosa e dirompente campagna per la secessione e l’indipendenza del Nord,
Bossi si è a volte richiamato all’esempio scozzese. Niente è più insostenibile
del paragone con la Scozia. La cosiddetta “nazione padana” è una invenzione da
tribuno, non ha alle sue spalle una storia vissuta, è di difficile definizione
quanto a specifici valori culturali, civili e a territorio. Tutto il contrario
della Scozia che, dall’atto di Unione con l’Inghilterra del 1707 alla durevole
e intransigente rivendicazione di autonomia, è chiaramente identificabile, ha
dietro di sé un patrimonio storico incontrovertibile, ed è tuttora protagonista
di una ferma difesa delle proprie tradizioni.
Già duecentonovanta anni fa, al termine di
contrasti e lotte in difesa dei loro diritti, gli scozzesi concorsero a
realizzare l’unità della Gran Bretagna conservando ampi margini di autonomia in
campo ecclesiastico, amministrativo e giudiziario, entrando nelle Camere dei
Comuni e dei Lord con proprie rappresentanze e facendosi carico di oneri
finanziari limitati al 2,5% del reddito nazionale.
La battaglia autonomistica è continuata,
anche per contrastare spinte centraliste, e ora la Scozia è al centro di una
nuova fase di riforma che influenzerà nel suo insieme il sistema inglese. Il
“New Labour” di Tony Blair ha messo al primo posto del suo programma un ampio
riordinamneto istituzionale e i banchi di prova del potenziamento
dell’autonomia e di una maggiore partecipazione popolare saranno, oltre alla
Scozia, il Galles e la struttura amministrativa della grande Londra. (4)
“Se vogliamo rinnovare la nostra democrazia –
aveva detto Blair nella campagna elettorale – dobbiamo cominciare dal governo
locale: il governo più vicino alla gente”. E un liberale come Dahrendorf aveva
commentato che “dopo diciotto anni di accentramento conservatore l’Inghilterra
potrebbe cambiare con una politica che ponga al cuore delle riforme
costituzionali il decentramento”. Il governo laburista non punta solo
sull’istituzione di Assemblee parlamentari con compiti specifici in particolari
regioni (la Scozia disponeva di un suo Parlamento al tempo dell’Atto dell’Unione
nel 1707), ma ha parallelamente in cantiere la modifica delle funzioni della
Camera dei Comuni, l’eliminazione del diritto ereditario dei Lord, la riforma
del sistema fiscale e della Pubblica Amministrazione. Le promesse cominciano ad
essere mantenute. Il previsto referendum per una maggiore autonomia in Scozia,
con l’elezione di un Parlamento a Edimburgo che entrerà in funzione tra due
anni, ha accolto le proposte laburiste con il 74,3% di voti favorevoli, con una
partecipazione al voto dell’80% e l’esito positivo influenzerà i processi di
riforma. La scelta autonomistica è stata netta, senza ambigui risvolti
federalistici.
I quesiti erano precisi, anche in materia di
trasferimento di poteri fiscali, e la Camera dei Comuni cui spetta fare le
leggi di attuazione ha davanti a sé un preciso binario. Nel giugno 1999 la
Regina, a conferma di una preziosa unità istituzionale, presenzierà
all’inaugurazione del nuovo Parlamento scozzese. “Finisce l’era dei governi
centralizzati – ha commentato Blair – con una buona giornata per la
Scozia, per la Gran Bretagna ed il
Regno Unito”, C’è un abisso tra questo processo riformatore e le agitazioni
secessioniste di Bossi.
Giorgio Lago, studioso dei problemi del
nord-est italiano, ha accusato il capo leghista di lavorare per la dissoluzione
del suo movimento ed ha fatto l’elogio dei laburisti inglesi per la rapidità
delle loro decisioni. La critica ha il sostegno di uno storico autorevole come
Denis Mack-Smith che ben conosce l’Italia. Dopo aver ricordato che l’autonomia
della Scozia non ha nulla a che fare con la secessione, lo storico inglese ha
aggiunto che il paragone con la Padania è impossibile anche perché mentre “il
movimento scozzese è molto democratico per la sua base e per la sua storia,
Bossi è avvertito come un uomo rozzo di metodi dittatoriali”.(5)
Quanto alla rapidità bisogna aggiungere che
essa non ha nulla a che vedere con l’improvvisazione, anzitutto perché i
laburisti hanno studiato la “questione scozzese” e lo stato delle loro
istituzioni per mezzo secolo e poi perché il dinamismo di Blair è favorito,
oltre che dalla rapidità dei tempi, da un programma di riforma generale
dell’ordinamento dell’amministrazione, di equa distribuzione delle risorse,
ispirato ad una chiarezza di scelte che diffonde fiducia e certezza di
cambiamento.
Il Parlamento arbitro
della riforma costituzionale
Anche l’Italia si trova di fronte ai problemi
di un profondo riordino istituzionale, di un reale smantellamento del
centralismo, di un effettivo potenziamento delle autonomia, che consenta di
sottrarre il valore dell’unità nazionale al rischio di una velleitaria e
grossolana secessione. Per troppo tempo si sono accantonate riforme che erano
in questo campo possibili anche a Costituzione invariata, che l’art. 5 prevede
incisivamente, e si sono trovati molti alibi per rinviarne l’attuazione alla
fine di un lungo e complesso processo di revisione costituzionale.
Già in questa scelta vi sono grossi margini
di ambiguità e di fragilità politica. In attesa della seconda parte della nuova
Costituzione si è in pratica rinviato ogni atto di riforma, ad eccezione delle
positive misure di semplificazione e di decentramento della legge Bassanini,
mentre è sempre più urgente, anche come antidoto all’agitazionismo di Bossi,
introdurre rapidi cambiamenti. Non si è nemmeno esclusa l’ipotesi, in materia
di autonomie regionali, di disciplinare le nuove competenze con Statuti
sottoposti a legge costituzionale e quindi varati molto dopo l’approvazione del
Parlamento e per Referendum della nuova Costituzione.
La scorciatoia più scandalosa è quella di
costituzionalizzare i principi che regolano il conflitto di interessi rinviando
alle calende greche una legge ordinaria che è urgente, preliminare, e può
essere approvata – come è accaduto in un ramo del Parlamento nella passata
legislatura – a Costituzione invariata. Ci sono, certamente, modifiche
rilevanti da introdurre con il processo di revisione della Costituzione, ma non
giova fare di ogni erba un fascio e rinviare riforme urgenti e possibili a scadenze
lontane ed esposte a rischio.
Lungo e complesso sarà l’esame parlamentare
in doppia lettura. E non va dimenticato che il referendum confermativo,
considerato da Giuseppe Dossetti incostituzionale per la eterogeneità del
quesito (6), potrebbe non risultare scontato nel suo esito se alcune modifiche,
ad esempio in materia di giustizia o in altri punti, non incontrassero il
consenso popolare necessario. Con il rigetto della proposta tutto tornerebbe in
alto mare ed il ritorno alle procedure previste dall’art. 138 potrebbe
avvenire, tra anni, in un clima caotico e carico di pericoli per le stesse
istituzioni.
Nel merito è certo positivo che la
Commissione Bicamerale non abbia avuto esiti platealmente negativi. Ma
l’ossessione di evitare a tutti i costi il fallimento ha pesato su alcuni
risultati stentati e fragili, frutto di un compromesso strisciante condizionato
dalla destra presidenzialista, ed ha lasciato insolute questioni delicatissime,
dal bicameralismo alla giustizia, dalle competenze per lapolitica estera e di
difesa al rapporto tra intervento dello Stato ed iniziativa privata, dal ruolo
di garanzia del Capo dello Stato alle funzioni di altri organi costituzionali,
che torneranno all’esame del Parlamento.
Anche le procedure per l’esame, in
Bicamerale, degli oltre quarantamila emendamenti sollevano perplessità. E’
corretto considerare irricevibili modifiche contrastanti con la prima parte
della Costituzione, ma è dubbio che basti una riscrittura, da parte dei
relatori, dei testi già approvati e nuovamente proposti al voto per togliere validità agli emendamenti. Il
contenzioso e proposte di modifica torneranno, appesantendo le procedure,
all’esame nelle aule parlamentari.
La competenza del Parlamento è assoluta e
primaria e non è condizionata nemmeno dalle proposte della Bicamerale. Tutto va
considerato aperto, a cominciare dall’opzione tra presidenzialismo e
cancellierato frutto del beffardo colpo di mano leghista, e se è necessario
tutto può essere legittimamente modificato. Nel nostro ordinamento è solo il
Parlamento l’arbitro supremo della riforma costituzionale ed esso non può, in
nessun caso, ridursi a sede di ratifica di accordi vecchi o nuovi che già
durante i lavori della Bicamerale furono oggetto di ristretti vertici privati.
Vigilanza e
partecipazione popolare da rianimare
E’ difficile riformare efficacemente le
istituzioni se non si rianimano, rispetto alla fase di stanchezza attuale, la
vigilanza democratica sulle decisioni del Parlamento riguardanti scelte che
incideranno a lungo nella vita degli italiani. Alla campagna secessionista di
Bossi, che fa leva su una sempre più precaria mobilitazione di massa, non si
può contrapporre soltanto il rispetto della legalità o la promessa di riforme. La
partecipazione popolare, delle forze sociali e politiche, dei ceti
intellettuali, al cammino delle riforme vale in generale, ma è essenziale in
una fase costituente.
L’iniziativa dei grandi sindacati di
manifestare a Venezia ed a Milano in difesa della solidarietà e della coscienza
nazionale, contro il frazionismo, l’egoismo razzista, i rigurgiti di violenza
della Lega Nord è un esempio di grande importanza. Anche i partiti devono
mettersi sulla strada del maggior coinvolgimento possibile di iscritti e simpatizzanti
a sostegno di una politica di riforme che non regge se è solo calata dall’alto.
E’ un grave limite che, a differenza di quanto avvenne nell’Assemblea
Costituente del 1947, gli ambienti culturali del Paese e le stesse forze
politiche nei loro meccanismi di vita democratica interna siano ora così poco
interessati a riforme di importanza decisiva.
Non si tratta di riequilibrare il movimento
di Bossi. L’obiettivo deve essere quello di ricreare dal basso, con una
partecipazione cosciente, un più diffuso senso dello Stato, tradizionalmente
carente, senza del quale si scoprirà sempre che una volta fatta l’Italia
bisogna fare gli italiani. La diffidenza verso le istituzioni non si rimuove
solo con le leggi, con i plebisciti guidati da chi detiene il potere, ma si può
vincere se il cambiamento è costruito e condiviso da molti.
Allarma la scarsa consapevolezza di questa
necessità anche in formazioni politiche che, storicamente, si sono formate con
un alto grado di partecipazione popolare. Non è casuale che questo vuoto sia
spesso coperto, con una eco che va oltre la schiera dei fedeli, dalla Chiesa
cattolica che continua a difendere, contro le minacce secessioniste e la
predicazione dell’odio, le ragioni positive dello Stato, della solidarietà,
della ricerca dell’unità rispetto alle divisioni. Più volte il Magistero di
papa Wojtyla si è soffermato con angoscia su questi punti.
Il motivo è profondo e da esso non può
distogliere la grossolana, incivile, polemica anticlericale di Bossi. I Vescovi
italiani hanno collegialmente condannato, con la voce autorevole del Cardinale
Ruini, le “infauste suggestioni separatiste” contrarie agli interessi economici
della nazione e di ciascuna delle sue aree ed hanno difeso, nonostante qualche
dissenso nostalgico degli scontri del Risorgimento, la “patria italiana”. Più
volte la Civiltà cattolica e l’Osservatore Romano hanno messo in guardia dalle
“venature razziste”, dalla violenza di linguaggio, dalle finalità eversive
dell’estremismo leghista.
L’appello si rivolge, come accade soprattutto
dopo il Concilio Vaticano II°, a tutti gli italiani, quasi a supplenza dell’opportunistico
silenzio che prevale in molti ambienti laici, ma i cattolici democratici sono
chiamati a raccoglierlo in autonomia e con determinazione. Non solo Sturzo, ma
prima di lui Rosmini e da ultimo Dossetti hanno sempre considerato lo Stato
democratico, il suo modo di essere, il suo rapporto con la società in tutte le
sue espressioni, il campo primario dell’impegno politico. Anche la questione
sociale è stata inquadrata, a fini di giustizia e di garanzia del diritto, in
questo ambito.
Non corrisponde al vero la teorizzazione del
disinteresse dei cattolici per le ragioni positive dello Stato. Ha poco a che
vedere con il valore della “sussidiarietà” il travisamento che ha portato,
nella discutibile versione dell’art. 56 dei progetto di riforma della
Costituzione, a legittimare la subordinazione dell’intervento pubblico
all’iniziativa privata anche quando è moralmente ineccepibile la tutela
dell’interesse generale.
Nella Costituzione del 1947 è stato
largamente riconosciuto, specie nella prima parte, il principio di
sussidiarietà che è alla base delle autonomie, del decentramento, di ambiti ben
definiti della responsabilità dello Stato. Proprio Rosmini, critico dell’assolutismo
e di ogni forma di dominio dello Stato moderno e difensore del pluralismo
civile e politico, ha scritto che non esiste la neutralità delle istituzioni,
fatte dagli uomini, e che è “nello Stato spogliato dai suoi connotati
signorili, e diventato dunque società civile, che la persona si realizza nella
sua pienezza”. (7)
Sapranno i cattolici democratici, almeno
quelli che si richiamano a Sturzo, riprendere in Parlamento la libertà
d’iniziativa che è risultata appannata nella fase finale dei lavori della Commissione
Bicamerale a causa del condizionamento delle mediazioni di corto respiro tra
destra e sinistra? Sapranno essere protagonisti, nella proposta, di riforme
coraggiose che pur aggiornandolo non disperdano, come ha esortato Dossetti, il
patrimonio della Costituzione del 1947? Sapranno concorrere alla rianimazione
di una vigilanza critica e di una partecipazione popolare che è condizione
primaria di cambiamenti positivi?
Le previsioni non sono facili, ma la prova
non è di quelle che si possono evadere. Il problema, ovviamente, non riguarda
solo i cattolici e saranno i fatti a costituire per ciascuno la base del
giudizio. Tutte le forze democratiche, ed in particolare quelle di sinistra,
sono chiamate ad una assunzione di responsabilità più che ad un gioco
trasformista. Non ci sono altre vie per isolare e vincere un lacerante
secessionismo che può trarre vantaggio, più che dalle sue avventurose sortite,
dai ritardi e dai cedimenti di quanti hanno, per ragioni ideali e storiche, il
dovere di riformare senza lottizzare lo Stato democratico.
Milano, 19 settembre 1997
Luigi Granelli
consigliere nazionale PPI
Note all’articolo
(1)
Il
Presidente della Repubblica è intervenuto più volte, dal 1993 ad oggi, per
mettere in guardia, con interventi ufficiali non sempre ascoltati, da possibili
violazioni della legalità che non possono essere confuse con il diritto
d’opinione.
(2)
Michele
Salvati – “Troppo debole il federalismo della Bicamerale, non potrà soddisfare
le richieste della Lega” – Corriere della sera – 9 settembre 1997.
(3)
L’art.
5 della Costituzione, scarsamente applicato, è assai esplicito nell’affermare i
principi dell’autonomia, riconosciuta come diritto esistente dello Stato, e del
decentramento. Altri articoli, nella seconda parte, vanno aggiornati proprio in
rapporto ad esso.
(4)
Luigi
Granelli – “Blair: più che un modello, una sfida” – Nuova Fase – Anno IV°, n° 3
– Marzo 1997 – nel commento sulle elezioni inglesi è contenuta una ampia
descrizione del programma di riforme istituzionali del “New Labour”.
(5)
Denis
Mack-Smith – “Una nazione storica, altro che Padania” – intervista a Repubblica
– 13 settembre 1997.
(6)
Giuseppe
Dossetti – “I valori della Costituzione” – Edizioni S. Lorenzo – 1995 – si veda,
in particolare, il discorso pronunciato all’Abbazia di Monteveglio, pagg. 63/80
(7)
Giorgio
Campanini – “Antonio Rosmini e il problema dello Stato” – Morcelliana – 1983 –
l’Autore confuta in modo argomentato la tesi della sottovalutazione, da parte
dei cattolici, del valore dello Stato, in rapporto alla società e al suo
pluralismo civile, amministrativo e politico, con riflessioni sul principio di
sussidiarietà estremamente attuali.