NELLA LOTTA PER LO STATO DEMOCRATICO

Se abbiamo dedicato tanto spazio per chiarire la funzione nazionale e democratica della DC, lo abbiamo fatto tenendo presente il compito, proprio dì un partito di maggioranza, di affrontare e avviare a soluzione i grossi e decisivi problemi che tuttora bloccano lo sviluppo dello Stato democratico in Italia. Troppi infatti dimenticano che nel nostro paese il problema di uno Stato organicamente ispirato alle regole della democrazia, garantito da un permanente ed eguale esercizio del diritto di libertà da parte di tutti i cittadini, non può essere considerato risolto con il crollo del fascismo e con la scomparsa della classe dirigente espressa direttamente dalla borghesia liberale.

Lo stesso movimento popolare della Resistenza, la scelta istituzionale repubblicana, il ruolo autonomo e rappresentativo dei partiti politici e di massa, le grandi conquiste di principio sancite nella nuova carta costituzionale, non costituiscono di per sé lo Stato democratico: rappresentano soltanto le tappe di un importante mutamento delle condizioni politiche, istituzionali e giuridiche, entro cui deve ancora avverarsi il graduale processo di trasformazione del nostro assetto statuale. Solo così trova giustificazione il fatto che, tutt'oggi, permanga una larga frattura tra la società e lo Stato, tra le affermazioni di principio della Costituzione e certi aspetti di arretratezza della situazione reale del Paese.

Qual'è allora, nel presente momento storico, il compito principale e primario delle forze politiche italiane, se non quello di operare per sostituire il vecchio apparato di uno Stato gerarchico, centralizzatore e protezionista, che ancora sopravvive nella realtà, con nuove e moderne strutture organiche, decentrate e capaci di favorire il pieno sviluppo di tutte le energie esistenti, al di fuori di particolari interessi di gruppo? Quale altro impegno, se non quello di rendere operante in tutti i suoi aspetti la Costituzione e quindi avviare a riunificazione Stato e società, senza fare del primo l'idolo ideologicamente assolutista e garantendo per entrambi la possibilità di progredire e di rinnovarsi sul terreno della libertà? Non v'è dubbio, che la politica richiesta da tali necessità è la sola atta a portare Innanzi e sviluppare le più importanti conquiste della democrazia post-fascista.

Da un po' di tempo a questa parte il problema politico italiano va infatti riducendosi a puro problema di governo: la lotta politica diventa sempre più accesa e intransigente ed i partiti sono portati a considerare i loro rapporti quasi esclusivamente dal punto di vista della formazione dei governi, mentre l'opera dei governi si illude a sua volta, e spesso, di risolvere con un moderato riformismo sociale problemi che superano la stessa sfera economica e investono quella della libertà. Si prenda, ad esempio, la cosiddetta questione meridionale. È indubbio che essa rappresenti il fatto più clamoroso di quella frattura tra Stato e società di cui scrivevamo, come è innegabile che non sia mancato, da parte dei governi democratici del decennio, un serio impegno tendente a risolvere la depressione del Sud, ma - e questo è il punto - come mai tale azione, se pur ha dato alcuni non sottovalutabili risultati di carattere economico, non è riuscita a determinare una effettiva crescita civile della società meridionale, non ha spezzato la triste catena delle formazioni clientelari e qualunquistiche? Perché qualsiasi politica di riforme che si riduca a provvidenza governativa e settoriale (che si riduca cioè ad un intervento staccato da una prospettiva di generale rinnovamento e perciò incapace a migliorare continuamente l'ambiente democratico in cui deve svilupparsi, senza soggezione alcuna, la lotta tra i partiti) è destinata fatalmente a ricreare, specie quando tali provvidenze scendono dai vertici ministeriali, attraverso i canali della burocrazia o del sottogoverno, nuove occasioni clientelari ed a perpetuare così il tradizionale trasformismo.

Analogo fenomeno si registra oggi, e non certo a caso, anche nelle zone più industrializzate del nord d'Italia. Le pressioni del cosiddetto riformismo neo-capitalista, spinto anch'esso dalla tentazione di trasformare in grosse clientele le organizzazioni sindacali, tendono, infatti, non tanto a superare le contrapposizioni di classe mediante un responsabile inserimento del fattore lavoro nel moderno processo produttivo, quanto ad avvalersi delle innovazioni tecniche per meglio assorbire paternalisticamente la classe lavoratrice, favorendo così la formazione di gruppi di aristocrazia operaia attraverso gli alti salari ed i favoreggiamenti.

Accanto a ciò, poi, non si può non notare il pericoloso risorgere nel Paese di esigenze rivendicazioniste da parte delle più svariate categorie e la deteriore tendenza di troppi uomini politici a seguire acriticamente questa spinta scivolando inevitabilmente verso impostazioni demagogiche di problemi particolari o di settore. In tutti questi casi si intende sempre meno che la libertà costituisce una fondamentale premessa alla stabile risoluzione dei singoli problemi e alla stessa distribuzione del benessere. Ma perché tutto questo avviene? Avviene, a nostro avviso, perché troppo spesso si dimentica che il problema politico italiano supera l'esigenza ordinaria della pura e semplice formazione dei governi, come è logico che accada invece in quei Paesi ove lo Stato è una realtà consolidata, e pone la necessità straordinaria di fondare e costruire anzitutto uno Stato democratico qual'è delineato dalla Costituzione del 1947 e non come è finito purtroppo per sopravvivere ibridamente attraverso forme e istituti tipici del vecchio ordinamento liberale preesistente.

Ecco allora perché ci sembra chiara e ineliminabile l'esigenza di condurre al più presto la lotta politica tra i partiti sul giusto terreno dello Stato democratico. Non è per liberarci dai problemi concreti e particolari che sono maturi nel nostro Paese, né per evitare le questioni ideologiche che nascono dal mutare dei rapporti tra i partiti, ma perché gli uni e le altre non abbiano mai ad esorbitare a danno della libertà e del diritto garantiti appunto per tutti dal nuovo ordinamento costituzionale e repubblicano. Perché questo è soprattutto il dato che distingue fondamentalmente la democrazia afférmatasi nel dopoguerra da quella prefascista. Al tempo della democrazia prefascista la libertà ed il diritto costituzionale posti a fondamento dello Stato erano elargiti da un potere sovrano e garantiti da una classe dirigente liberale (per cui furono proprio i partiti a contenuto ideologico e programmatico che con il loro apparire posero in crisi il sistema giolittiano della formazione dei governi attraverso blocchi elettorali sostanzialmente trasformisti), mentre nel dopoguerra la sovranità è passata interamente al popolo e la nuova Costituzione ha avuto per protagonisti proprio i partiti politici, i quali la hanno elaborata in un clima di reciproca tolleranza che ha avuto un ampio e provvidenziale significato di libertà. Tuttavia è ovvio che se la situazione odierna ci riportasse a nuovamente esaurire tutto il processo politico nella pratica formazione di governi capaci di governare, ma incapaci di aggredire le realtà di fondo della società italiana per attuare in concreto il nuovo assetto statale, se - d'altro canto - i partiti dovessero abbandonare la regola della tolleranza per scontrarsi in maniera radicale sul terreno astratto dei rispettivi integralismi, cioè incominciassero a lottare tra loro per la formazione di uno Stato quale discende dalle loro ideologie, allora verrebbe inevitabilmente meno quanto contraddistingue la democrazia nuova all'antica (vale a dire l'insostituibilità del pluralismo dei partiti e la natura democratica di uno Stato fondato proprio sul superamento nella libertà di ogni integralismo di parte) e potremmo anche entrare, come del resto nel 1922, in una crisi di regime capace di unire ancora una volta tutti i conservatori all'insegna della mitologia del l'ordine, e di spingere tutti i democratici nell'orbita compiacente, ma ideologicamente assolutista, dell'iniziativa comunista.

Quanto si è scritto sinora basta certamente a dimostrare come sia assolutamente necessario che di fronte alle incertezze del presente momento, ogni partito scelga, senza infingimenti e con la consapevolezza dei propri limiti, il suo giusto posto nell'ambito della lotta per lo Stato democratico italiano. Il resto verrà da sé.

In questo ambito, che è garanzia di libertà e di progresso, di tolleranza e di continuità della tradizione nazionale, potranno trovare la loro esatta soluzione anche i tanto discussi problemi dei programmi e delle alleanze politiche. I programmi cesseranno di essere i grandi cartelloni elettorali, usati da ogni partito per dimostrarsi capace di risolvere da solo qualsiasi problema, salvo poi arrestarsi di fronte alla necessità di dar vita ad alleanze che consentano di passare dalla enunciazione alla attuazione dei postulati programmatici, e si sforzeranno invece di essere piattaforma di impegni circoscritti e politicamente motivati proprio per consentire, senza preconcetti o pregiudizi, la convergenza nel terreno democratico di forze a diversa ispirazione, ma animate in sostanza dalla medesima volontà di rinnovamento. Le alleanze diverranno strumentali rispetto agli obiettivi politici e programmatici fissati e non accadrà, come ai tristi tempi dell'ultimo quadripartito, che sia l'alleanza a subordinare alla propria dogmatica definizione programmi e politica.

Programmi e alleanze potrebbero cosi consentire un sempre più efficace allargamento della base politica dello Stato democratico e far ulteriormente progredire il Paese verso la meta indicata da De Gasperi sin dal luglio del 1944, quando a Roma affermò: «Vogliamo farla finita con gli esperimenti pseudo-democratici. Il nuovo Stato deve essere lo Stato definitivo in cui il popolo italiano possa governarsi da sé. Esso deve fondarsi sulla più larga partecipazione delle masse popolari e le decisioni non devono avere carattere dì club o di partito, ma di popolo». In questa prospettiva lo stesso fondamentale problema della collaborazione tra cattolici e socialisti potrebbe uscire dalle nebulose impostazioni propagandistiche e dalle astratte pregiudiziali ideologiche e potrebbe essere risolto, senza escludere la collaborazione di altre forze della sinistra democratica italiana, sia al di fuori degli angusti schemi del riformismo socialdemocratico, sia della pretesa comunista di ritenere il socialismo perennemente minorenne.

Gli incontri tra i partiti torneranno ad avvenire sulla base di programmi ad ampio respiro, quindi superando tanto la pratica dei compromessi governativi fine a se stessi, quanto il rischio di certi pericolosi agguati ideologici, e la Costituzione repubblicana, oltre ad essere la matrice giuridica per la costruzione del nuovo assetto statuale, farà da superiore moderatrice degli integralismi ideologici.

Stato Democratico n.0
19 ottobre 1957

Luigi Granelli