L’ORIZZONTE DI QUESTO NUOVO SECOLO

Il ministro per la Ricerca scientifica delinea uno scenario di problemi molto complessi, che vanno risolti e non ignorati. Ed ecco come l'Italia può procedere verso la società post-industriale

 

Sono in molti, ormai, ad interrogarsi sull'orizzonte duemila.  Le finalità che questa rivista persegue, come dice in modo esplicito la sua testata, sono avvertite come essenziali in modo crescente.  Se ne occupa la stampa, ne parla la televisione, si susseguono i convegni specialistici, divulgativi, ad ampia impostazione scientifica e culturale.  Un vero confronto politico, consapevole dei rischi e delle potenzialità del presente e del futuro, non può prescinderne.

Tutto questo è positivo. Non sarà tuttavia male guardarsi da fughe in avanti che avrebbero un carattere di evasione, rispetto ad una difficile realtà che potrebbe ostacolare la corsa al progresso, e poi riflettere più attentamente su quanto è indispensabile fare per trasformare la presa di coscienza in azioni concrete in vari campi. evidente, tanto per cominciare, che la complessità dei tempi attuali non ha precedenti storici.  La stessa rivoluzione industriale è stata permeata da conquiste scientifiche e tecniche che hanno portato, dopo travagli faticosi e non poche contraddizioni, a cambiamenti irreversibili del sistema produttivo, dei rapporti di scambio, delle lotte per il potere, del modo di vivere e della stessa realtà culturale, politica, istituzionale.

Perché, sulla spinta di scoperte sensazionali che sono sotto i nostri occhi, un fenomeno abbastanza analogo non dovrebbe ripetersi? Nessuno respinse questa ipotesi.  Molti cercano di dipingere, con riferimenti al duemila, scenari più o meno suggestivi della società post-industriale. Ma sorge qui un primo pericolo. E’ noto che l'incalzare degli eventi mette sempre più in crisi le tradizionali ideologie, cioè la pretesa di definire a priori, in astratto, sottovalutando la complessità dei fattori storici, particolari tipi di società.  Non vengono però meno certi valori fondamentali che possono influenzare i processi in corso e proiettarsi nel futuro.  La dignità e l'indipendenza dell'uomo, ad esempio, rispetto ai possibili condizionamenti delle applicazioni dell'elettronica e dell'informatica. La solidarietà sociale e politica che si impone se si vogliono utilizzare le grandi potenzialità delle nuove tecnologie per allargare la base produttiva, anziché restringerla, diffondere in modo giusto vantaggi e prosperità, accumulare ed impiegare razionalmente risorse che non sono infinite nemmeno sul piano mondiale.  E, ancora, una strategia delle riforme indispensabili per favorire il passaggio verso la società postindustriale senza disperdere, quanto a conquista, esercizio, controllo del potere, i valori di libertà e di pluralismo di una moderna democrazia politica e costituzionale.

Sarebbe pertanto un errore trasformare le novità della scienza e della tecnica in una sorta di nuova ideologia cui affidare il compito di definire, a priori, la società del duemila, senza tener conto di valori che trascendono anche tale traguardo.  La tentazione di disegnare a tavolino suggestivi scenari elettronici, dove il robot sostituisce il lavoro e spariscono per incanto i conflitti sociali, va diffondendosi pericolosamente, ma essa serve solo ad evadere dalla realtà o a far attendere passivamente, con un misto di speranza e di paura, un evento che si auspica con scarsa coscienza dei cambiamenti necessari alla sua realizzazione. Tutto ciò può portare ad una crescente deresponsabilizzazione.  Il pericolo va evitato.  Si tratta di un atteggiamento che non fa tesoro nemmeno della esperienza storica. La rivoluzione industriale non ha sostituito in un a orno, o con un presagio, la società agricola inglese della fine del Settecento.  Le nuove conquiste scientifiche e tecniche, a cominciare dalla macchina a vapore, sono state anche allora il punto di partenza di una forte e travagliata trasformazione dei modi di produrre, di consumare, di vivere, e della diffusione in tanta parte del mondo di quella che ora ricordiamo come epoca del primo e per certi aspetti selvaggio industrialismo.

Le opportunità di oggi sono, certamente, molto più ampie: esse hanno effetti sconvolgenti di evidente portata e possono realizzarsi in tempi rapidi, con dimensioni transnazionali senza precedenti.  Dalla micro-elettronica all'informatica, dall'impiego delle fibre ottiche allo sviluppo prodigioso delle telecomunicazioni, dallo sfruttamento pacifico dello spazio alla ingegneria genetica, dall'uso della risonanza magnetica a quello del laser nel campo della medicina, è già aperto davanti a noi un ventaglio di innovazioni, più esteso di queste sommarie indicazioni, che consentono a chi è in grado di fare leva su di esse di dare un volto concreto e prevedibile alla società post-industriale.  Ma è proprio su questo terreno che le opportunità scientifiche e tecnologiche si intrecciano, volenti o nolenti, con i fattori storici, sociali, economici e politici.  Può essere utile qualche osservazione relativa al «caso» Italia, per avere una conferma che le preoccupazioni espresse non sono, come forse appare a prima vista, il pretesto per entrare in dialogo con i filosofi della scienza.  Anche di quest'ultimo abbiamo bisogno, ma non può sfuggire che i motivi ispiratori della riflessione svolta sono di altra natura.

Nel nostro paese, tanto per cominciare, siamo in presenza di condizioni strutturali, frutto di una storia nazionale ricca di luci e di ombre, non paragonabili a quelle di altre società industriali, ora alle prese con le trasformazioni successive.  Da noi, come è noto, il passaggio da una economia agricola, con qualche modesto settore di industria militare, ad un assetto produttivo che, se ci ha collocato in una incoraggiante posizione tra i paesi industrializzati, è avvenuto con grave ritardo, in parte imputabile al fascismo, e con una diversificata localizzazione territoriale ha portato ad un processo di modernizzazione che ha investito, soprattutto, negli anni '50, in diversa misura taluni settori industriali, alcuni dei quali attualmente in crisi (siderurgia, chimica di base, cantieristica, ecc.), ed ha scarsamente coinvolto altri settori come l'agricoltura o la Pubblica amministrazione. Anche nel settore industriale si può distinguere tra imprese, pubbliche o private, paragonabili a quelle dei paesi più progrediti e realtà produttive dell'industria scarsamente competitive, viziate da assistenzialismo, poco sensibili all'innovazione tecnologica e alla ristrutturazione operativa.

Pensare, in Italia, di avere conquistato complessivamente il livello di società industriale moderna e di salvarci, ora, dal rischio del declino con un salto nella società post-industriale, come fanno altri paesi, significa cadere in una semplificazione che annulla la coscienza dei problemi reali. Non possiamo certo puntare ad un risana-

mento che, oscillando tra protezionismo e parziali innovazioni, rimanga rinchiuso o nello schema ormai tradizionale di una generalizzazione, sul territorio ed in tutti i settori, dei modello industriale classico.  Questa visione di corto respiro ci travolgerebbe.  Non c'è progresso possibile senza una collocazione competitiva, come per certi versi avvenne negli anni '50, nel contesto dell'economia europea e mondiale.  L'isolamento da questo contesto farebbe prevalere, in pratica, il protezionismo sull'innovazione, con la conseguenza di una progressiva caduta del tasso di industrializzazione che è l'esatto contrario dei completamento dei processo avviato alcuni decenni fa. E’ dunque evidente che è impossibile sottrarsi alle possibilità e agli oneri impliciti derivanti dalla irreversibile spinta verso la società post-industriale.

Il «caso» Italia, infatti, porta a prevedere, accanto a settori industriali da difendere e risanare, aree pre-industriali da modernizzare con decisione, parti importanti del nostro sistema inevitabilmente coinvolte dalla rivoluzione post-industriale: si tratta di una situazione fortemente diversificata e bisognosa di un processo generale di nazionalizzazione che a sua volta richiede un ampio ed equilibrato uso di risorse, un forte impegno per l'innovazione, una larga mobilitazione di forze intellettuali, sociali e politiche disposte ad operare cambiamenti profondi, ponendo fuori gioco interessi conservatori e resistenze corporative che ostacolano ai diversi livelli le trasformazioni necessarie. Non risponde a questi obiettivi la pratica di un riformismo episodico, che non a caso risulta velleitario e impotente, perché la crisi odierna richiede accumulazione più che ridistribuzione di risorse, sacrifici per lo sviluppo anziché facile benessere.  E necessari il coraggio che la classe dirigente italiana ebbe al tempo della liberalizzazione degli scambi, delle grandi scelte (allora valide) di politica industriale, della prima riforma fiscale e dei propositi di programmazione, in sé validi al di là dei fallimenti relativi, enunciati in quegli anni da Vanoni ed altri per «unificare» il paese nel suo grado di sviluppo.

La vera questione nazionale, oggi, è quella di una ricomposizione unitaria e pacificatrice di aree del paese sempre più diversificate tra loro.  Non si tratta più di puntare ad una semplice unificazione tra Nord e Sud, peraltro ancora lontana, ma di perseguire il riequilibrio territoriale, avvicinando con adeguate politiche settori pre-industriali, industriali e posi-industriali, portando cioè tutti i cittadini a beneficiare di un complessivo sforzo di modernizzazione. La posta è alta. Ma essa è, in qualche modo, obbligata, se vogliamo che l'Italia mantenga la posizione più  competitiva possibile sul piano internazionale e si avvalga dei vantaggi, tecnologici ed economici, di questo ruolo per risolvere contemporancamente problemi interni altrimenti irrisolvibili.  In questa prospettiva è possibile, anche per noi, raccogliere complessivamente la sfida delle società post-industriali e avviarci a questo traguardo con realismo, determinazione, senza nuovamente pagare il prezzo di un inserimento in una logica di progresso solo della parte più evoluta della società italiana e di una esclusione, con una insopportabile esasperazione degli squilibri, di tutto il resto.  Non va dimenticato, tra l'altro, che in questa ipotesi negativa è tutt'altro che astratto il rischio di vedere in tempi brevi assorbite dalle grandi multinazionali le isole compatibili con le regole della società post-industriale.

Porre sul tappeto questi problemi vuol dire non interrogarsi, come si osservava all'inizio, sull'orizzonte del duemila?  Non sembra.  C'è, all'opposto, la sensazione che, senza partire da una ricognizione realistica delle condizioni del paese. il traguardo della società post-industriale si riduca ad un mito consolatorio, fatto di un superficiale ottimismo non privo di paura, anziché essere una occasione di effettiva mobilitazione.  Bastano un po' di esempi. Il realismo non equivale a sottovalutazione delle nostre potenzialità. Non si può negare che l'intesa della Olivetti con l'AT&T ha consentito di piazzare, nientemeno che sul mercato americano, 250 milioni di dollari di «computer», di ottenere scambi di tecnologia e mobilitazione di risorse finanziarie, di portare una delle nostre più moderne imprese sul terreno della sfida in corso. Non minore è il significato dell'accordo tra la Stet e la IBM per la fabbrica automatica, con una leadership italiana del 51%, che è tra gli obiettivi più ambiziosi della società post-industriale, accompagnato dalla riqualificazione del rapporto di fornitura che consente alla SGS, unica impresa italiana apprezzata internazionalmente nel campo della micro-elettronica, di portare a circa 100 miliardi l'anno il proprio volume di scambi.

La partecipazione dell'Italia alla politica spaziale europea, ed in accordo con gli USA, è, considerata di primo ordine grazie ai nostri scienziati, ed imprese come l'Aeritalia, la Selenia o la Snia-Bpd, non sono certo prive di competitività.  Gli esempi potrebbero continuare, dalla Fiat a certi settori della Montedison, dall'Alfa Romeo a talune attività nel campo delle telecomunicazioni.  Altri fattori hanno la loro importanza.  L'attribuzione a Carlo Rubbia del Nobel, che continua la tradizione avviata da Fermi, conferma che la scuola italiana della fisica è di apprezzabile livello. Il nostro paese è stato l'unico, in Europa, a trovare un utile accordo con l'India ed i paesi in via di sviluppo per realizzare, a Trieste e a New Delhi, un grande centro internazionale per le biotecnologie e l'ingegneria genetica nel quadro dell'ONU. Siamo stati tra i più decisi a volere la attuazione dell'unico progetto.scientifico e tecnologico di un certo significato, a livello comunitario, nel campo delle tecnologie dell'informazione come è Esprit, che vede una nostra buona partecipazione.  E i molti scienziati. ricercatori, studiosi italiani che operano ne-li Stati Uniti. ed anche in altri paesi, perché mancano da noi condizioni più favorevoli per una loro concreta utilizzazione nazionale?

Queste parziali constatazioni non possono però far dimenticare il peso di settori industriali assistiti, come ad esempio la siderurgia e la cantieristica, che assorbono ingenti risorse che riducono le nostre potenzialità.  Non si può non mettere in conto, nell'analisi, il freno allo sviluppo rappresentato dalle difficoltà di un credito oneroso e scarsamente selettivo, di una burocrazia costosa e poco efficiente. del ritardo nell'attuazione del piano eiìer2etico nazionale.  E poi: quanto pesa, nei nostri conti con l'estero, la insufficiente modernizzazione dell'agricoltura italiana?  Quanto ostacolano il nostro sviluppo le deficienze e la complessità dell'ordinamento scolastico, la carenza nei processi di formazione dei ricercatori, dei manager, dei nuovi tecnici, il disavanzo cronico della bilancia tecnologica?  Quanto incidono, nell'accumulazione e nell'uso delle risorse, un sistema fiscale che non riesce ad eliminare l'evasione ed una spesa pubblica finanziata, in parte, con risparmio sottratto agli investimenti?  Quanto impediscono razionali e utili ristrutturazioni industriali la mancanza di strumenti di tutela e di mobilità, di qualificazione e di riconversione della manodopera?

Lo spaccato dimostra la consistenza tra Italia diverse, che possono paralizzarsi a vicenda se non interviene uno sforzo straordinario. à evidente- il rischio che, senza una grande politica nazionale di innovazione e sviluppo, la parte più avanzata del paese sia assorbita dal processo di internazionalizzazione dell'economia, che continui la fuga dei cervelli, e che i settori in ritardo vadano verso una ulteriore degradazione.  Investimenti, forte tasso di innovazione scientifica e tecnologica, riordinamento della Pubblica amministrazione e dei servizi, moralizzazione della vita pubblica, politiche di settore legate insieme da una chiara volontà di programmazione, sono possibili se si ha il coraggio di trasferire risorse da settori obsoleti a settori d'avanguardia, se si applica il rigore fiscale, se si mobilitano le energie necessarie.  La stessa ripresa economica in atto non sarà durevole senza questa svolta.  Di essa si avvarranno con maggiore successo altri paesi che, anche durante la crisi, hanno incrementato, nei settori suscettibili di sviluppo, i loro investimenti produttivi.  In Italia siamo invece scesi dall'11,1% del 1974 al 6,5% dei 1983 e ciò condiziona una reale ripresa di competitività nelle congiunture in corso.  I passi avanti della spesa per la politica di innovazione sono modesti.  Anche qui un solo esempio.  Nel 1984 la legge n. 46, per la ricerca e l'innovazione industriale, non era stata finanziata nonostante le sollecitazioni dei ministri competenti: 3600 miliardi, in tre anni, sono ora complessivamente previsti per l'innovazione tecnologica e la ricerca applicata, a partire dalla legge finanziaria del 1985, ma tale stanziamento si trova di fronte ad un fabbisogno che è tre volte tanto.  Non basta tuttavia lamentarsi perché si spende poco e male, anche se la critica serve a correggere e avere qualcosa in più.  Né si può pensare di superare la stretta battendo, come si dice, moneta con una inflazione ai livelli di guardia.

I problemi sono dunque molto complessi e vanno risolti, non ignorati.  L'Italia può procedere verso la società postindustriale solo recuperando il tempo perduto, riordinando l'insieme delle sue strutture, facendo leva sul progresso scientifico e tecnologico, per modernizzare l'apparato produttivo, la Pubblica amministrazione, i servizi, le forme del vivere.  Il duemila è più vicino della contestazione del 1968, con i suoi aspetti terribili e la sua ansia di novità, ma l'evocazione della società post-industriale non basterà se la volontà di affrontare il futuro non sarà accompagnata da una analisi coraggiosa delle nostre reali condizioni, da un più alto dibattito nella società, che tenda a favorire il confronto e la convergenza tra tutte le forze intellettuali, sociali e politiche che avvertono il rischio della emarginazione dei paese dallo stesso mondo industrializzato e non si sottraggono al dovere di costruire il domani a partire da oggi.

 

1985

LUIGI GRANELLI