BASTA RIFONDARE LA SINISTRA ?

È noto che Aldo Moro utilizzò la formula "strategia dell’attenzione", condivisa e sviluppata dalla sinistra della DC, per richiamare i democratici al dovere di valutare con serietà ogni fermento in atto nello schieramento dell’opposizione, oltre che nel PCI, con riferimento all’esigenza di assecondare il pieno sviluppo della democrazia italiana. Anche allora molti pensavano che, al contrario, era meglio concentrarsi sui modi per garantire una durevole governabilità, in un gioco incessante di formule anche alternative, per difendere le istituzioni repubblicane da ogni rischio. L’approccio "moroteo" è ancora raccomandabile a fronte dei grandi sconvolgimenti in corso. «La strategia dell’attenzione che noi abbiamo suggerito - sottolineò Moro in un discorso a Trapani del 1969 - è espressione di curiosità non frivola, ma piena di serietà e di impegno morale e di intelligenza capace di cogliere il fondo delle cose, per corrispondervi in modo accorto e lungimirante, soprattutto in modo giusto". Il momento era di grandi difficoltà. La contestazione del ‘68, l’autunno sindacale, i sanguinosi avvertimenti della strategia della tensione, la precarietà degli equilibri di governo, formavano un quadro complesso e particolarmente incerto quanto a sviluppi. Potevano delinearsi mutamenti radicali, anche rispetto al ruolo della DC, ma la preoccupazione tornava ad essere - come al tempo dell’apertura a sinistra verso il PSI - per lo sviluppo della democrazia più che per la gestione residua o trasformistica di un potere.

Il livello zero del PCI

Con lo stesso impegno guardiamo, oggi, a quanto accade drammaticamente nel PCI, nella sinistra italiana, in relazione a sviluppi non effimeri della nostra democrazia nella quale intendiamo continuare a difendere, anche nell’eventuale ruolo di opposizione, i valori del cattolicesimo democratico e la funzione della DC quale partito autonomo, nel senso della laicità della politica, ed a larga partecipazione popolare. Questa premessa è necessaria perché troppe volte, a sinistra, si liquida la nostra attenzione al PCI o alla forza politica che lo sostituirà, ai socialisti e ai laici, come espediente più o meno consociativo per prolungare in eterno la funzione di governo della DC. Sono ben altre le nostre preoccupazioni, anche se il governare è un fine implicito nella politica di ciascun partito e se, è bene ricordarlo, tocca ad altri e non a chi milita nella DC realizzare un’alternativa che la collochi all’opposizione.

Non mancano, del resto, autorevoli dirigenti del PCI che sono giunti ad affermare che la rinuncia ad essere comunisti, per diventare qualcosa di nuovo che non è ancora dato individuare, è proprio motivata dalla necessità di non morire all’opposizione e di andare, finalmente, al governo con intese più simili a quelle di un variegato movimento che non di un partito, profondamente rinnovato, che rimanga tale anche se non leninista. Siamo contrari ad indebite interferenze nel dibattito in corso nel PCI. Ogni partito deve decidere, liberamente ed in piena autonomia, del proprio ruolo e del proprio destino. Questa correttezza non preclude però il giudizio su quanto accade e sui suoi prevedibili effetti sulla politica italiana.
Cambi o meno il suo nome, muti più o meno radicalmente la sua forma-partito, riesca o no il suo tentativo di realizzare un’eterogenea alternativa di potere, la nostra attenzione di cattolici democratici verso il PCI e la sinistra non si attenuerà e la disponibilità al confronto, che non esclude a priori convergenze o scontri, resterà per noi intatta per la concezione che abbiamo di una vera e matura democrazia. Da qui deriva, anzitutto, la constatazione che il processo in corso nel PCI è di grande interesse per tutti i democratici. Le potenzialità positive si intrecciano con rischi di non poco conto, come è naturale che sia nei cambiamenti che non si fermano alla superficie, ma nulla tornerà come prima.

Il vento del cambiamento soffia forte nel PCI. Il punto scatenante, lo si riconosca o no, sta nella straordinaria volontà politica di Gorbaciov che dopo aver contribuito in modo determinante a creare una situazione internazionale nuova, favorita dalla distensione e dal disarmo e proiettata verso l’affermazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli, ha affrontato con coraggio - senza rinunciare, come ha detto nel suo discorso a Roma, in Campidoglio, agli ideali del socialismo e dell’emancipazione dell’umanità - gli ardui problemi della riforma del sistema sovietico, dell’abbandono di una politica di potenza nell’Est europeo e della difficilissima ricomposizione, per via negoziale, degli esplosivi conflitti delle nazionalità in Urss.

Senza tutto questo la frustata di Occhetto al proprio partito avrebbe avuto molto minore rilievo. Nel contesto ricordato, di fronte a forme concrete di fallimento del "socialismo reale", la voglia di cambiare tutto, la corsa alla novità per la novità, ha finito per prevalere nel PCI sulla necessità di una riflessione rigorosa e libera dalle tentazioni della politica spettacolo. C’è qualcosa che non convince in questo processo. Il ricorso ad una logica referendaria, lo scontro tra i "si" e i "no", sembra provocare più lacerazioni, dubbi, sofferti disimpegni, che non una discussione libera da contrapposizioni radicaleggianti, un confronto effettivamente chiarificatore, capace di evitare larghe zone di ambiguità presenti in tutte le posizioni.
E poi non persuade l’ossessione di partire, comunque, da una sorta di livello zero, il rigetto quasi complessivo, diverso da un severo ripensamento critico ed autocritico, della propria storia, la rincorsa di ogni movimentismo come possibile interlocutore di un’Assemblea Costituente tutta da definire. Né convince, all’opposto, la correzione di questi eccessi con la difesa in blocco di tutto il passato o la riluttanza a condurre sino in fondo la revisione critica, anche sotto il profilo teorico, sui problemi riguardanti il nesso tra socialismo e democrazia.

La riflessione di Norberto Bobbio

Non siamo i soli ad avvertire la mancanza di una riflessione meno manichea nel PCI. Norberto Bobbio insiste in vari modi, anche per quanto riguarda i democratici non comunisti, e non si tratta di un intellettuale poco sensibile alla critica ed alla ricerca creativa od ostile, in Italia, ad ipotesi di alternativa politica. Egli auspica, in una recente lettera, che non manchino nel PCI persone di buon senso che riescano a "seguire le vie della mediazione". E, dopo aver ricordalo che la crisi dei regimi comunisti investe per lo meno buona parte del socialismo storico, avverte che il nuovo non può sorgere senza una netta distinzione tra destra e sinistra, ossia "fra coloro che stando dalla parte di chi è in alto sulla scala sociale tendono a conservare il più possibile" e coloro che "mettendosi dalla parte di chi sta in basso vogliono mutarlo".

Questo invito ad una rigorosa scelta di campo, che non disperda l’idealità e la riflessione teorica e politica di un socialismo liberale, oltre a restringere l’area di una rifondazione della sinistra italiana, dentro o fuori il PCI, offre lo spunto ad una obiezione. Anche il socialismo liberale, per qualche aspetto diverso dalla tradizionale socialdemocrazia, è un obiettivo da realizzate sul terreno della democrazia pluralista che rinasce oggi sul crollo dei regimi a partito unico, e questa particolare forma di democrazia, sancita solennemente dalla nostra Costituzione, presuppone una dialettica ampia, articolata, in cui il variare delle collaborazioni tra partiti diversi, ancorate a programmi chiari e verificabili nella loro attuazione, è molte volte un antidoto ai rischi di una gestione solitaria del potere.

Nessuno può escludere, e noi non lo escludiamo affatto, possibili ed augurabili alternative di schieramento, da queste collaborazioni legittimate dal consenso democratico. Lo stesso diritto di cittadinanza, in una democrazia pluralista, devono avere le piccole o le grandi coalizioni che, in mancanza di alternative storicamente immature, garantiscono la continuità dell’ordinamento fondato sulla libertà, ed in alcuni casi riforme significative, come si è dimostrato nell’Italia post-fascista. La pienezza della democrazia sta proprio in questa pari opportunità per tutte le forze democratiche che accettano le regole della Costituzione. Gravi limitazioni si sono avute, anche in dipendenza di una situazione internazionale completamente rovesciata rispetto all’attuale, nella esclusione di fatto del PCI da ipotesi di governo, ad eccezione del periodo immediatamente successivo alla Resistenza che consenti, fatto storicamente rilevante, l’avvio pacifico della nuova esperienza democratica, la nascita della Repubblica, il varo della Costituzione. La stessa politica della "solidarietà nazionale" di grande importanza per la lotta al terrorismo e il superamento di una drammatica emergenza, non superò il limite di una discriminazione a priori ed anche per questo si dissolse abbastanza rapidamente.

La crisi dei regimi dell’Est, le trasformazioni in atto nell’Urss, la nuova situazione internazionale - con aperture in Europa impensabili solo alcuni mesi fa - tolgono ogni alibi al persistere di discriminazioni limitative delle possibilità di sviluppo delle democrazie parlamentari in Occidente. È curioso che, in Italia, proprio il PCI con l’affermazione della disponibilità a cambiare nome e natura di partito, per poter accedere al governo e dare corpo all’alternativa, abbia finito con il muoversi in senso contrario dando ragione a quanti, con le teorizzazioni sul fattore K, hanno predicato e continuano a sostenere una illiberale discriminazione contro i comunisti, e dando torto a chi pensava, e pensa, che a parte un legittimo giudizio di opportunità politica, ogni partito presente in parlamento deve godere degli stessi diritti e assume, verso la Costituzione, i medesimi obblighi.

Il discorso di Aldo Moro a Benevento

Eppure nessuno, nemmeno tra i critici più severi, ha pensato di omologare il PCI ai partiti fantoccio dei paesi dell’Est. Né si è mancato di riconoscere, dopo il lungo periodo della "doppiezza" togliattiana di subordinazione all’Urss difesa - nella nostra intervista a Nuovi Argomenti - anche di fronte al crollo dello stalinismo, lo strappo in reazione alla brutale repressione della primavera di Praga, la critica al "terzinternazionalismo", le prese di distanza del "memoriale di Yalta" proprio sul rapporto tra democrazia e socialismo, la crescente affermazione della propria indipendenza nazionale accompagnata da un interessante dialogo con gli esponenti più avveduti della socialdemocrazia europea. A nessun altro partito comunista occidentale veniva riconosciuta, anche nei più attenti ambienti internazionali (persino in Usa), una peculiarità di un certo interesse come al PCI.

Rimanevano e, per molti aspetti, restano le differenze politiche, la diversità dei programmi, ma tutto ciò rientra nella normalità della dialettica democratica. Se si prescinde dalla frattura di Livorno, che resta una ferita aperta nel rapporto con il socialismo non comunista, anche alcuni tratti della storia del PCI contengono, in germe, potenzialità interessanti per futuri e augurabili sviluppi revisionisti. Parte dell’elaborazione di Gramsci, la svolta di Salerno e l’intuizione di un partito nuovo (diverso dall’esperienza leninista), il discorso di Togliatti a Bergamo sulla questione religiosa, le aperture di Berlinguer sul legame essenziale tra democrazia e socialismo e sul pluralismo politico, non sono certo elementi trascurabili di un disegno di rifondazione a sinistra, non in una poco persuasiva corsa movimentista al centro, del nuovo PCI o come lo si vorrà chiamare.
I dirigenti comunisti potrebbero osservare, con fondamento, che questi riconoscimenti non sono mai andati oltre la sensibilità democratica di alcune minoranze. È vero, ma le resistenze che ancora permangono vanno interpretate mettendo in conto, come riconoscono oggi gli stessi comunisti, la lentezza, i ritardi, le contraddizioni del processo revisionista. L’occasione per cambiare nella direzione giusta è dunque preziosa ed irripetibile. Ma anche nel cambiamento i partiti possono morire, anziché rivivere, se tagliano radici storiche feconde, se si fanno attrarre da illusorie manipolazioni genetiche, se preferiscono al paziente lavoro culturale e politico le fughe in avanti sollecitate dai mass-media.

Con il crollo del muro di Berlino, gli importanti mutamenti nei regimi del "socialismo reale", l’emergere di problemi nuovi anche nelle società economiche più progredite (ambiente, questione femminile, utilizzo in positivo dei rapidi sviluppi della scienza e della tecnologia, nuove povertà e crescente internazionalizzazione), altri muri possono cadere e positive trasformazioni possono delinearsi in una società fortemente pluralistica come quella italiana, da molti riconosciuta come un laboratorio politico di straordinario interesse. Ci aiuta, anche in questa lettura, un importante discorso pronunciato da Aldo Moro a Benevento nel novembre del 1977.

In quella occasione Moro denuncia, tra i pericoli della democrazia italiana, le incomprensioni e le limitazioni del confronto tra i partiti che portano alla incapacità, alla impossibilità, "di fare alleanze vere, di accordarci in termini politici impegnativi, fra tutte le forze politiche". Dopo aver richiamato, significativamente, i socialisti ad una maggiore attenzione al ruolo della DC, lo statista pugliese riconosce che "il PCI ha indubbiamente subito una evoluzione in vari campi, e alcune cose sono state dette, chiare coraggiose, anche in considerazione delle circostanze. [...] certamente le dichiarazioni fatte sui grandi temi della coscienza religiosa, della libertà, del pluralismo sociale e politico, stanno a significare che si intende dare un contenuto a questa società socialista. [...] Mi sia consentito di dire che i lineamenti di questa democrazia socialista, detta autentica democrazia, restano ancora indistinti, poiché essi non si esprimono in nessun modello riconosciuto ed al quale si faccia riferimento". Moro riconferma, poi, l’attenzione e l’interesse per una fase di revisione e di transizione difficilmente credibile se non verranno segni concreti nei sistemi di "socialismo reale", dove il comunismo esercita una funzione di governo e non di opposizione, e conclude: "Noi siamo interessati a conoscere il punto di approdo di questa sperimentazione nuova, il frutto di mediazione fra internazionalismo proletario e via al socialismo, via autonoma al socialismo. Vogliamo, cioè, capire meglio, per orientarci meglio, quale possa essere un nuovo, stabile, sicuro, difeso modo di vivere libertà e democrazia in un regime socialista. E questo forse ci fa spingere lo sguardo troppo lontano. Sono problemi seri, importanti, dei quali dobbiamo occuparci anche se sono il domani ancora lontano".

La realtà di oggi contiene molte risposte a quegli interrogativi. La tendenza in atto, invece, spinge a divaricare anziché a comprendere il significato reale di eventi che potrebbero contribuire a migliorare, senza tentazioni consociative, rapporti tra tutte le forze politiche. È interessante notare che, nell’analisi "morotea", il socialismo ideale, cioè un rapporto di giustizia e di uguaglianza tra gli uomini, non è un ostacolo, per la DC, ad una collaborazione impegnativa ma l’impedimento sorge se il legame tra esso e la libertà, la democrazia, il pluralismo, non è limpido e rassicurante. Il pensiero di Moro, naturalmente, non è separabile dall’idea che la DC, lungi da chiudersi in una opaca gestione del potere secondo il modello dei partiti conservatori, senta la responsabilità storica di essere una coraggiosa forza popolare e riformatrice, coerente con la propria ispirazione cristiana, e quindi impegnata in un’opera di trasformazione secondo giustizia, solidarietà, allargamento dei diritti individuali e collettivi, della società e dello Stato contemporanei. Anche qui le spinte in senso inverso sono evidenti e, per l’insieme del cattolicesimo italiano, assai preoccupanti.

Un fattore K contro la DC

Non sappiamo quali saranno gli sbocchi del travaglio in corso nel PCI, né di che livello saranno le risposte dei democratici, in particolare della DC, ai mutamenti in ogni caso imposti dalle circostanze della politica comunista. Sembra chiaro, tuttavia, che le diverse opzioni propugnate nel PCI abbiano come comune denominatore un disegno di alternativa alla DC ed al suo, cosiddetto, sistema di potere. L’obiettivo è legittimo e comprensibile. Aggiungiamo che il verificarsi di alternative politiche e programmatiche reali, non di puro schieramento, potrebbe segnare una importante evoluzione della democrazia italiana. Ma non sono poche le contraddizioni su questo cammino.

Intanto c’è un contrasto, in quella che sembra essere una maggioranza ai punti nel PCI, tra una versione movimentista, con una larga partecipazione di club e di associazioni, delle aggregazioni nel nuovo partito, assai vicino ad un modello radicale di massa, e la versione soft di un cammino socialdemocratico, alla europea, tutto orientato a rassicurare, come vorrebbe Napolitano, l’ala più illuminata del capitalismo e a tessere rapporti più distesi con altre forze democratiche ed in particolare con il PSI. Il "fronte del no", che sembra molto determinato a difendere - oltre che il nome - la natura ed il patrimonio ideale del PCI, si inserirà agevolmente in questa contraddizione ed il processo avviato da Occhetto, che richiederebbe una certa scioltezza, apparirà, a meno di lacerazioni che potrebbero compromettere il tutto, assai faticoso ed ambiguo.

Non sembra, se si pensa al ruolo condizionante del PSI in ogni ipotesi di alternativa alla DC, che il traguardo cui pensano comunisti innovatori o tradizionalisti sia cosi vicino. Qualcosa di più si potrà cominciare a capire dopo il congresso del PCI e in vista della preannunciata assemblea costituente. Ma in ogni caso come si può ignorare, al di là dei calcoli di schieramento, che il PSI attuale e le forze minori più aperte a sinistra, insieme essenziali per rendere praticabile l’alternativa, sono anche dei punti di forza di quel sistema di potere, influenzato da consistenti oligarchie economiche e finanziarie, che dovrebbe essere sconfitto e che per comodità polemica si continua ad identificare con la sola DC?

È questo un punto di grande importanza. Non basta rifondare la sinistra se manca una rigorosa analisi, strutturale e non solo congiunturale, della società italiana contemporanea. Si ha l’impressione che per rimuovere questi problemi, certamente difficili, si ricorra ad una pura e semplice demonizzazione della DC ed a sollevare, contro di essa, un nuovo fattore K per segnare con una discriminazione a priori, non meno odiosa di quella del passato, il confine tra democrazia e non democrazia, tra trasformazione e degenerazione del sistema. Non si vuole, con questo ragionamento, allontanare l’ipotesi dell’alternativa che, tra l’altro, potrebbe diventare una via obbligata se la DC sotto la spinta delle cose si avviasse a divenire, nell’illusione di mantenere una parte residua di potere, un partito conservatore di massa in contrasto con la sua storia e, soprattutto, con quella ispirazione cristiana che ne legittima il ruolo. Si vuole, più semplicemente, sollecitare un’analisi meno sommaria, un’attenzione storicamente e idealmente più avvertita, della DC e della sua politica condizionata, come quella di altri partiti, da situazioni di fatto che potrebbero anche modificarsi. "Se qualche attenzione, noi abbiamo prestato doverosamente ad altri - sottolineò Moro nel già citato discorso di Trapani - altri parimenti l’ha prestata a noi. Ed è vero che un serio confronto non è necessario a svantaggio dei democratici, con ogni probabilità anzi non lo è affatto, se essi hanno una limpida visione delle cose ed una forza di convinzione morale".

La "terza fase" e l’alternativa

Sarebbe grave se la nuova sinistra, quale che sia la forma della sua iniziativa politica, si limitasse a giustificare la sua candidatura alla guida del paese con la pura e semplice indicazione, a priori, di una pregiudiziale contro la DC. Il cammino verso la democrazia compiuta non ammette il ritorno, sotto mutate spoglie, di un nuovo fattore K tendente a limitare, ancora una volta verso un altro grande partito popolare, le potenzialità di sviluppo, il pluralismo ampio, del sistema politico italiano. È sul terreno della politica, del confronto a tutto campo, delle discriminanti sui programmi e sui comportamenti concreti, che devono maturare ed affermarsi, nell’interesse della Repubblica, alternative che non siano solo di schieramento o di mera sostituzione in una gestione non molto diversa del potere.

Limpida, efficace, orientata a cambiamenti di fondo, strutturali, deve farsi la competizione democratica tra i partiti. La sfida è aperta e nessuno, in una democrazia matura, può essere respinto ai nastri di partenza. A questo fine, non ad angusti e strumentali modelli di democrazia consociativa, era orientata nelle sue scelte iniziali la stessa politica della "solidarietà nazionale". Né Moro, né Berlinguer, e tantomeno gli altri leader democratici e socialisti, pensavano alla "terza fase" come ad un espediente furbesco per preparare, come si era fatto con il centro-sinistra, un nuovo allargamento per cooptazione della base democratica dello Stato. Si trattava, al contrario, di superare con garanzie reciproche una drammatica emergenza in vista del dispiegarsi, assolutamente libero, di nuove opportunità di incontro o di dissociazione tra le forze politiche con l’ambizione di aprire, anche in Italia, la possibilità di alternative storicamente mature e non solo piccole o grandi coalizioni.

È lo sviluppo storico, l’evoluzione dei partiti, la caduta di ogni discriminazione, che prepara le alternative più radicali sul terreno della democrazia. È erroneo pensare che la democrazia sia bloccata, in Italia, da un sistema elettorale che va riformato per moralizzare la raccolta del consenso, favorire senza trucchi autoritari la stabilità, e non per prefabbricare schieramenti fondati sulla convenienza più che su reali convergenze politiche e programmatiche. E se l’alternativa, come salto di qualità nella gestione del potere e in una più forte qualificazione riformista, va preparata politicamente, perché si deve escludere a priori, demonizzandola, ogni ipotesi di grande coalizione che si rendesse necessaria per far fronte a rilevanti difficoltà o a nuove e drammatiche emergenze?

L’ipotesi può risultare, con tutta probabilità, impraticabile e ad altissimo rischio, ma l’importante è che essa sia esclusa razionalmente, senza alterazione delle regole democratiche, e con l’assunzione dell’onere di realizzare, in attesa dell’alternativa, soluzioni idonee a non compromettere il presente ed il futuro della democrazia italiana. La sfida è su più versanti. Investe il PCI o il partito che si sostituirà ad esso, come il PSI e tutte le altre forze democratiche. Non esclude, se non per una sua rassegnazione al declino, la stessa DC, se non vuole rinnegare le sue origini popolari e riformiste.
È ancora Norberto Bobbio che ricorda, a tutti, la portata della futura competizione democratica. Di fronte al crollo del mito comunista, alla crisi del socialismo reale, alla sclerosi consumista del capitalismo, al duro contrasto tra ricchi e poveri sul piano mondiale, occorre ridare speranza agli uomini con una coraggiosa politica dei diritti "che non sono più soltanto il diritto dell’uomo astratto, ma sono il diritto delle donne e dei giovani, dei malati e dei minorati, degli emarginati nella miseria e nella sofferenza, dei "dannati "di tutto il terzo e quarto mondo, che sono pur sempre questo e non l’altro mondo".

Un problema immenso, anche sul piano teorico, che pare degno di essere approfondito. Ma perché dovrebbe interessare solo il PCI ed il suo ambizioso disegno di una sinistra rifondata?,Perché i socialisti, diffidenti verso uno schieramento che non li convince, non dovrebbero riflettere su questa problematica? E le forze democratiche minori non possono ricercare, come altre volte nella storia italiana, la via di un loro contributo senza farsi assorbire da un arcipelago radical-populista o da una contrapposizione moderata e restauratrice? Perché la DC, che in tanti passaggi decisivi della vita nazionale ha respinto la tentazione conservatrice, non dovrebbe raccogliere la sfida di dare risposte credibili, coerenti con l’umanesimo cristiano che dovrebbe ispirarla, agli interrogativi posti con forza dal magistero profetico della Chiesa oltre che da Norberto Bobbio?
Sono molte le ragioni che suggeriscono di non lasciare cadere, su più versanti, la "strategia dell’attenzione" di Moro incautamente archiviata, anche per colpa della DC, dopo il suo assassinio. Sarebbe utile sviluppare un’analisi ed un confronto, limpido e senza reticenze, tra tutte le forze ideali di una democrazia pluralista come quella italiana. Per questo abbiamo pensato di gettare un sasso nello stagno, come si dice, agitando un poco le acque di un dibattito nella sinistra che sembra esaurirsi in se stesso. Vogliamo trasformare un inizio provocatorio in un serio, durevole, confronto di idee? Il Ponte non è nuovo ad avventure culturali e politiche libere da ogni conformismo e sarebbe un altro suo merito non di poco conto se, nel nuovo ciclo appena avviato, volesse dedicare un po’ di spazio ad una seria riflessione sul futuro della democrazia italiana senza confini precostituiti.

Luigi Granelli

Il Ponte n.3, 1990