EMIGRAZIONE DI RITORNO

Tornano gli emigranti. Il riaffacciarsi di questa tendenza, destinata a protrarsi per tutto il 1975 e fors’anche per il primo semestre del 1976 (se non interverranno, soprattutto a livello europeo, seri rimedi), ha riproposto con forza, in Italia, la questione generale dell’emigrazione. L’intensa preparazione della Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, che ha animato riflessioni e dibattiti in ogni parte del mondo - tra i nostri connazionali - durante il 1974, non ha colpito l’opinione pubblica italiana quanto, invece, le notizie che molti dei nostri lavoratori in Germania ed in Svizzera rientrano in patria senza possibilità di ritorno a causa dell’ondata recessiva in atto in Europa.
La circostanza conferma quanto sia radicata, nel nostro paese, la vecchia ed inaccettabile filosofia dell’emigrazione come “valvola di sfogo” al fine di non affrontare in tutta la sua portata, nei termini di un diverso e più equilibrato sviluppo economico nazionale, il problema del pieno utilizzo delle nostre risorse di manodopera. È bastato che una parte, sinora minima, dei quasi sei milioni di italiani residenti all’estero, di cui poco meno della metà in Europa, fosse costretta al rientro da una sfavorevole congiuntura economica per distruggere l’illusione che gli anni del boom avessero risolto, una volta per tutte, i problemi dell’emigrazione e che l’Italia, dal canto suo, potesse pensare al proprio sviluppo economico e civile senza farsi carico del diritto al lavoro di tutti i nostri connazionali.

Il risveglio è amaro, ma può essere salutare. Perché ciò avvenga è necessario accantonare i sentimenti di paura o di generica solidarietà, verso chi è più colpito da un fenomeno doloroso, ed occorre individuare le cause congiunturali e strutturali di quanto avviene per porsi, con coraggio politico e con fantasia istituzionale, sulla strada di una loro seria eliminazione. In questa prospettiva la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, indetta dal governo d'intesa con il Parlamento e realizzata con la partecipazione di tutte le forze sociali, sindacali e politiche interessate, acquista un particolare valore proprio come presa di coscienza della complessità del fenomeno migratorio e delle politiche che, sul piano interno come su quello internazionale, è necessario sviluppare correggendo talune tradizionali impostazioni del passato. Si spiega così l’interesse che molti paesi, siano essi caratterizzati da eccedenza di manodopera o da immigrazioni necessarie a garantire il proprio sviluppo, hanno dimostrato per l’iniziativa italiana.

L’Italia, in un certo senso, può essere considerata una nazione leader in materia di emigrazione. In oltre cento anni di storia nazionale abbiamo conosciuto fasi profondamente diverse dello stesso fenomeno. Dai grandi esodi del primo novecento verso i paesi d’oltre oceano, che hanno visto milioni e milioni di italiani cercare all’estero una occupazione che una economia protetta e prevalentemente agricola non offriva in patria, siamo passati, dopo la disastrosa esperienza fascista (con l’occupazione drogata dalle pratiche autarchiche e l’impiego delle nuove generazioni nelle imprese belliche mussoliniane) agli anni del “miracolo economico” e dell’industrializzazione accompagnati dalla speranza che, con la fine del protezionismo, si riuscisse a creare in Europa una grande comunità regolata da una effettiva e libera circolazione della manodopera. Anche in questi anni, non bisogna dimenticarlo, l’emigrazione non si è trasformata in mobilità garantita da una reale parità di diritti, pur solennemente affermati nei Trattati: la forte espansione produttiva concentrata prevalentemente in zone già sviluppate, in Italia ed in Europa, ha infatti offerto consistenti possibilità di occupazione senza però rovesciare la tendenza all’emigrazione di necessità, come è dimostrato, del resto, dalle stesse migrazioni interne dal sud al nord del nostro paese. Non a caso siamo ancora di fronte, in Italia ed in Europa, a rilevanti squilibri settoriali e geografici che lo sviluppo spontaneo degli ultimi anni ha addirittura aggravato. Ora, con l’emigrazione di ritorno, siamo entrati in una terza fase che sarebbe sbagliato considerare soltanto il frutto di una avversa e momentanea congiuntura. L’ondata inflazionistica e recessiva che ha colpito tutto il mondo industrializzato non è solo il frutto dei prezzi rampanti dei prodotti petroliferi. Essa si accompagna alla crisi di un modello di sviluppo prevalentemente consumistico, di cui le difficoltà del settore dell’automobile sono un eloquente sintomo, mentre il mutato rapporto tra paesi industrializzati e paesi detentori di materie prime, con il consistente trasferimento di risorse finanziarie verso questi ultimi, sconvolge il sistema monetario mondiale e rompe traumaticamente lo schema della prevalente espansione produttiva concentrata nelle aree più progredite.

Questo richiamo non è certo estraneo al tema. I circa sette milioni di disoccupati negli Stati Uniti, così come i quattro milioni di lavoratori rimasti privi di lavoro in Europa, sono il segno di una crisi economica di fondo, anche se non paragonabile a quella degli anni trenta, che può essere superata solo cambiando strada rispetto al modello di sviluppo precedente, usando in modo più rigoroso e diverso dal passato le risorse disponibili, diversificando la produzione e le esportazioni, avviando - in altri termini - una fase di ripresa dell’economia mondiale nel segno di una cooperazione internazionale alla pari, che si accompagni ad una correzione profonda, che privilegi i consumi pubblici rispetto a quelli privati, degli stessi processi di sviluppo dei singoli paesi industrializzati. È infatti nell’ambito di questa crisi che affonda le proprie radici il fenomeno dell’emigrazione di ritorno e vanno individuate, con decisione, le possibilità o meno della ripresa dei livelli di occupazione, le tendenze dei flussi di manodopera anche in rapporto ali’ auspicabile riequilibrio territoriale delle attività produttive e delle occasioni d’impiego. Per questo la ricerca di una nuova politica interna ed internazionale, in rapporto all’emigrazione, richiede una riflessione strategica almeno su due ordini di problemi.

1) Le prime conseguenze che derivano da una impostazione di largo respiro dei problemi dell’emigrazione, proprio tenendo conto dell’esperienza italiana (valida anche per i paesi con eccesso o con carenza di manodopera), riguardano la stretta connessione tra tali problemi ed il sistema economico. L’emigrazione forzata, che è il contrario della mobilità del fattore lavoro in base a libere scelte o a convenienze derivanti da una razionale distribuzione delle risorse, non è una fatalità: essa è frutto di uno sviluppo distorto, di squilibri interni ed internazionali, ed è a questo livello che si tratta di modificare le cause che la determinano in modo patologico. Sarebbe un errore tornare a visioni autarchiche o nazionaliste. La chiusura delle frontiere, il blocco artificioso dell’emigrazione in mancanza di immediate e reali possibilità di piena occupazione interna, rappresentano, oltre ad una illusione demagogica di autosufficienza, la cristallizzazione di un dannoso squilibrio tra paesi ricchi di risorse e privi di manodopera e paesi con eccesso di popolazione attiva e privi di risorse. L’alternativa della pura e semplice liberalizzazione, regolata dalle leggi di mercato e da uno spontaneismo non corretto da una effettiva tutela dei lavoratori, mette in luce altre e non trascurabili conseguenze negative. I paesi con eccesso di popolazione attiva, anziché concentrare tutte le loro possibilità nello sviluppo della propria economia in modo da garantire il diritto al lavoro, tendono spesso a vedere nell’emigrazione la “valvola di sfogo” (da cui traggono vantaggio attraverso le rimesse) o il rimedio alle loro scarse risorse. I paesi con carenza di manodopera, dal canto loro, possono invece raggiungere tassi maggiori di sviluppo grazie all’apporto produttivo della massa degli immigrati e, nei momenti di crisi, possono liberarsi più facilmente di loro che non dei lavoratori nazionali.

In entrambi i casi i lavoratori migranti sono degli emarginati, più esposti di altri a difficili condizioni di vita e alla perdita del posto di lavoro, e sono sostanzialmente dei sottoccupati. Non manca, a livello di teorie economiche, chi addirittura sostiene, con un certo cinismo, che una massa consistente di lavoratori migranti rende più flessibile il sistema economico, consente alle imprese maggiore potere contrattuale rispetto ai lavoratori nazionali organizzati in sindacati, garantisce margini più ampi di produttività specialmente per quelle attività faticose e sgradevoli che nelle società progredite sono sempre meno accettabili. Distorsioni di questo genere si verificano anche all’interno delle singole economie nazionali e determinano, come è dimostrato dal flusso d’immigrazione dal Mezzogiorno verso il triangolo industriale nel nord d’Italia al tempo del boom, un aggravamento degli squilibri anche qui determinato da una irrazionale distribuzione di risorse influenzata da calcoli di immediata redditività. Sono evidenti i rischi di queste due impostazioni economiche.

Per evitare l’alternativa tra una antistorica chiusura autarchica, fonte di un complessivo indebolimento economico, ed una liberalizzazione abbandonata alle regole del supersfruttamento degli emigranti, inaccettabile alla coscienza civile contemporanea, l’Europa si propose di raccogliere la sfida con la creazione di una grande Comunità economica in cui i capitali, le tecnologie, la forza-lavoro, potessero circolare liberamente allo scopo di promuovere un loro impiego più razionale nel generale interesse. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’Italia, le politiche d’intervento nel Mezzogiorno si proponevano di correggere con diffuse incentivazioni e con interventi pubblici diretti gli squilibri interni all’economia nazionale. I traguardi erano giusti, mantengono la loro validità, ma una diffusa debolezza politica ha impedito, il più delle volte, di modificare nella sua struttura lo squilibrio economico, mentre la forza degli interessi ha prevalso sulla volontà di correggere le tendenze spontaneistiche, gli egoismi nazionali o localistici hanno mortificato il processo di costruzione politica e sociale della Comunità Europea. Dietro la facciata della libera circolazione, pur importante come conquista di principio e come normativa di tutela della parità dei diritti dei lavoratori, l’emigrazione non è riuscita a trasformarsi in mobilità finalizzata al riequilibrio settoriale e geografico all’interno della Comunità così come, nei paesi con aree sottosviluppate al loro interno, le migrazioni nell’ambito nazionale sono state più patologiche che fisiologiche.

La lezione da trarre da questa esperienza, nel momento in cui la crisi incombe e si aggrava, è che la mobilità della manodopera, cioè l’insieme delle emigrazioni e delle immigrazioni, può essere regolata in modo razionale soltanto da un contemporaneo trasferimento di risorse finanziarie, di tecnologie, di attività produttive dalle aree più progredite a quelle meno sviluppate. Questo vale per l’Europa e per l’Italia, come per il rapporto tra il mondo industrializzato ed i paesi emergenti: in questa prospettiva l’emigrazione di ritorno, che oggi avviene per ragioni di necessità, può diventare il segno di un riequilibrio che si verifica anche nei tempi normali per dare un significato effettivo, non a senso unico, alla mobilità dei fattori dello sviluppo unitariamente considerati.

È dunque chiaro che l’avvio di una seria politica regionale in Europa, con mezzi e strumenti adeguati, la riconsiderazione degli interventi nel nostro Mezzogiorno, per creare posti di lavoro anche per l’emigrante che rientra, una reale modifica del nostro modello di sviluppo, che riprenda, aggiornandoli, gli obiettivi del pieno impiego e del superamento degli squilibri, rappresentano i punti qualificanti di un processo entro cui i problemi dell’emigrazione forzata o di ritorno possano essere affrontati con spirito nuovo e al di fuori delle vecchie concezioni assistenzialistiche. Il futuro europeo e italiano, del resto, è legato alla capacità di determinare questa decisa svolta nelle politiche economiche a livello nazionale e comunitario. Non mancano possibilità per una nuova e diversa fase dello sviluppo. Prima della crisi petrolifera, quando i lavoratori migranti nella Comunità erano circa dodici milioni (tra i quali molti extracomunitari), i programmi di sviluppo dei vari paesi europei facevano prevedere che nel 1980 si sarebbe potuti giungere a quasi venti milioni. Ciò avrebbe fatalmente aggravato gli squilibri attuali se non fossero intervenute, in tempo utile, correzioni serie al processo spontaneo in corso. Ma la massa dei lavoratori migranti è in ogni caso consistente e decisiva. La differenza tra i programmi ambiziosi di allora e i quattro milioni di disoccupati di oggi, nonostante le misure di chiusura delle frontiere per gli extracomunitari, è certo impressionante, ma sarebbe sbagliato pensare di uscire dalla crisi come se nulla fosse cambiato. Il cambiamento è profondo, irreversibile. Per rimettere in movimento i meccanismi di sviluppo inceppati occorre che i lavoratori migranti di ogni nazionalità siano considerati protagonisti, alla stregua degli altri lavoratori, di una ripresa economica e produttiva tendente al riequilibrio tra paese e paese, tra zona e zona, e non come sottoproletariato da utilizzare nelle congiunture favorevoli e da abbandonare, almeno in parte, in quelle difficili. Questo inaccettabile disegno, oltretutto, è sempre meno possibile perché i lavoratori migranti hanno sempre più coscienza dei loro diritti e le grandi forze sociali, sindacali, politiche, sono impegnate anche in Europa, oltre che in Italia, a trarre dalla crisi in corso una salutare lezione.

Il rientro forzato, in un momento di crescente disoccupazione interna, impone, almeno, come si è già detto in altra sede, la estensione al lavoratore migrante dell’indennità di disoccupazione e dell’ assistenza in vigore in Italia, insieme alla difesa energica in sede bilaterale e comunitaria degli accordi esistenti, ma la terapia risolutiva deve guardare più lontano. L’autocritica da compiere non è quella moralistica del “torto da riparare”, ma quella politicamente produttiva della modifica del nostro modello di sviluppo e del rilancio, socialmente più qualificato, del processo di costruzione europea. L’apertura del Fondo Sociale Europeo ad una politica di maggiore intervento a tutela del lavoratore migrante nelle fasi della partenza, dell’inserimento e del rientro, tenacemente perseguita dal nostro paese a Bruxelles con alcuni successi non trascurabili è un primo passo nella dirczione giusta; così come l’istituzione, sia pure quantitativamente debole, di un Fondo Regionale tendente al riequilibrio territoriale ed economico nell’area europea, è uno strumento da sfruttare appieno per favorire il raggiungimento degli obiettivi indicati. Anche in Italia è diffusa la coscienza che non si può uscire dalle difficoltà attuali senza una lotta ferma contro gli sprechi, senza rilanciare in modo qualificato la spesa pubblica, senza finalizzare l’impegno all’austerità ad un tipo di sviluppo diverso dal passato. A tutto questo sono legati, in concreto, gli interessi ed i diritti dei nostri emigranti: essi - in altri termini - non possono più essere considerati estranei rispetto ai più generali problemi interni ed internazionali dell’Italia democratica anche perché esprimono direttamente o attraverso le loro associazioni, i sindacati, gli stessi partiti, una encomiabile maturità e sono ben consapevoli che il loro futuro dipende dalla trasformazione di un sistema economico che per troppo tempo li ha emarginati in patria e all’estero.

2) Ma la modifica delle strutture economiche, che non può avvenire spontaneamente, ha bisogno di strumenti istituzionali capaci di garantire una tutela adeguata dei diritti dei lavoratori migranti. Prendono origine da qui conseguenze di altro ordine, non meramente economiche e sociali, in quella impostazione che abbiamo definito di ampio respiro del problema dell’emigrazione. Il Trattato sulla libera circolazione della manodopera che è alla base della CEE, introduce, con un’ampia normativa, il rilevante principio della parità tra tutti i lavoratori della Comunità, indipendentemente dalla nazionalità di origine. Rimane certo da estendere tale principio ai lavoratori extracomunitari, per superare ingiustificate discriminazioni, ma si può affermare che la normativa sulla libera circolazione è la base positiva di un edificio che attende di essere completato.
Ci sono nelle legislazioni dei vari paesi, nelle condizioni della vita sociale e civile, seri ostacoli ad una applicazione effettiva della parità di trattamento. Il Trattato della CEE ha sancito, come è noto, la fine di ogni discriminazione tra i lavoratori comunitari per quanto attiene l’impiego, le condizioni di lavoro, le retribuzioni, le legislazioni sociali. I progressi di questi anni non consentono di vedere sempre tradotte in realtà operanti tali conquiste. Basta pensare alle difficoltà che si incontrano per garantire, ai lavoratori migranti, le stesse provvidenze in caso di perdita del posto di lavoro, il diritto alla riqualificazione professionale e al reimpiego, la disponibilità di un alloggio decoroso, la possibilità di ricongiungersi con la propria famiglia, l’ingresso dei figli in una scuola aperta e polivalente, il reinserirnento a pieno titolo nei paesi di origine, in caso di rientro, per avere un’idea del lungo cammino che rimane da percorrere.

A questi obbiettivi - essenziali per dare attuazione concreta alla parità di trattamento economico e sociale ed alla libera circolazione - debbono poi essere aggiunti i traguardi sempre più urgenti della parità anche nel campo dei diritti civili e politici. Il lavoratore migrante è un cittadino che deve potersi inserire con pienezza nella società in cui opera. È in questa chiave che va considerata l’ipotesi di uno “statuto” dei diritti dei lavoratori migranti, di cui si è recentemente occupato il Parlamento europeo, per superare i limiti degli stessi Trattati della CEE in questo campo. Si tratta, naturalmente, non solo di affermare solennemente dei princìpi astratti, ma di creare le premesse per la modifica delle stesse legislazioni nazionali. La partecipazione a pieno titolo del lavoratore migrante ai sindacati dei vari paesi, l’associazione, sia pure in forme particolari, alla vita pubblica e amministrativa, l’esercizio dei diritti civili e politici, rappresentano tappe non facili e tuttavia essenziali per raggiungere una posizione di effettiva parità nella società oltre che nei luoghi di lavoro.

Il richiamo agli aspetti istituzionali, che, in sede europea, possono consentire ai lavoratori migranti di abbattere ogni discriminazione, di contribuire direttamente alla soluzione dei loro problemi, non può fare dimenticare che è a questa finalità che devono essere adeguati i nostri strumenti di tutela e di presenza all’estero. Sono note le carenze della nostra rete consolare. Non mancano proposte di riordinamento funzionale, di potenziamento, di migliore distribuzione degli uffici in rapporto alla consistenza delle nostre collettività che richiedono un corrispondente aumento della spesa pubblica destinata a questo scopo, ma è assolutamente necessario accompagnare questo processo di adeguamento con una larga democratizzazione degli strumenti di presenza all’estero, con un aumento di rappresentatività dei poteri di iniziativa e di controllo dell’attuale Comitato consultivo (Ccie), con un coordinamento efficace delle varie competenze di governo attraverso l’istituzione di un comitato interministeriale per la politica dell’emigrazione. I lavoratori migranti devono in sostanza poter partecipare, ad ogni livello, alla elaborazione democratica della politica che li riguarda nel quadro di una più generale presa di coscienza dei problemi generali del nostro paese. Questo necessario riordinamento, accompagnato da una seria democratizzazione non si può limitare, ovviamente, agli aspetti nazionali e comunitari. In altre parti del mondo molti nostri connazionali (quasi la metà dei circa sei milioni ricordati) si trovano di fronte a problemi complessi come quelli della decolonizzazione, della integrazione in società economicamente progredite che richiedono una adeguata tutela civile e culturale, della doverosa difesa dei diritti elementari rispetto a taluni regimi repressivi. Non dimentichiamo certo tutto questo.

L’enfasi che abbiamo portato ai problemi comunitari, come alla eliminazione delle cause dell’emigrazione forzata in Italia, non significa sottovalutazione delle necessità di difesa in termini differenziati, anche se analoghi nella sostanza, di milioni di connazionali che operano nei paesi transoceanici o fuori della CEE: anche qui la parità di trattamento, il sostegno all’integrazione, il diritto al rientro, richiedono una rete diplomatica e consolare profondamente rinnovata, strumenti di partecipazione diretta, presenze attive nel campo della scuola e della cultura. Sempre sul piano istituzionale è evidente che, in coerenza con il processo di trasformazione della emigrazione in mobilità reale e quindi nel senso dell’espatrio come del rientro, si tratta di garantire anche in Italia piena parità in tutti i campi a chi decide di tornare, possibilità di reimpiego, tutela dei suoi risparmi. Particolare importanza assume, a questo riguardo, anche un’attiva politica in materia di rimesse degli emigranti. Non si tratta soltanto di difendere uno strumento prezioso al fine dell’ equilibrio dei nostri conti con l’estero, ma di impiegarlo direttamente in una politica di eliminazione delle cause dell’esodo forzato, con investimenti nelle zone di emigrazione, e di sostegno a quanti rientrano in Italia per libera scelta o per ragioni di necessità. Non è la prima volta che accenniamo all’urgenza di risolvere questo problema, anche per bloccare una diminuzione delle rimesse con misure più efficaci di qualche modesta manovra sui tassi di interesse, ma è evidente che il discorso ritorna necessariamente al già ricordato rapporto tra politica economica ed emigrazione.

Non mancano quindi i problemi da risolvere anche sul piano nazionale se si vuole garantire, in Italia e all’estero, pienezza di diritti al lavoratore migrante. Non basta solo proporsi, come è doveroso, di cambiare leggi, di destinare maggiori risorse finanziarie, riordinare strumenti, ma è indispensabile creare al tempo stesso le condizioni perché i lavoratori migranti, i connazionali all’estero, partecipino direttamente alla definizione, all’attuazione, al controllo di una politica nuova e diversa nel campo dell’emigrazione.

Il quadro dei grandi problemi da affrontare e risolvere, cui abbiamo accennato per grandi linee e senza entrare in dettagli, approfonditi in altre sedi, è indubbiamente impegnativo e ambizioso. Si poteva forse evitare un approccio di vasto respiro nel momento in cui, dopo tanti anni di attesa, ha luogo nel nostro paese la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione? È difficile sostenerlo. Se si deve operare una svolta nel campo della politica di tutela dei lavoratori migranti, degli italiani all’estero, è indispensabile disporre di una strategia chiara e di lungo periodo. Non serve molto indugiare sulla denuncia degli errori, sulla difesa di quanto si è fatto, sulla critica ai ritardi, se il confronto franco su tutti questi punti non si conclude poi nella indicazione di una politica nuova e diversa da realizzare con le forze che ad essa sono interessate. La svolta auspicata deve certo tener conto sia di quanto di positivo è stato fatto, tra molte difficoltà e incomprensioni, sia di quanto una critica tenace e obiettiva è venuta esprimendo, ma deve essere nel comune interesse una svolta reale, concreta, capace di aprire una prospettiva valida per i prossimi anni.

Per questo la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione ha una grande importanza. L’Italia democratica si interroga, per la prima volta dopo più di cento anni dalla sua unità, su problemi che sono stati per lungo tempo oggetto di appassionati dibattiti, di attente indagini (CNEL, Parlamento), di studi, che richiedono ora la ridefinizione di una coraggiosa ed organica politica. La gravita della crisi accentua il rigore del confronto su questo piano. L’attenzione di molti paesi che hanno avuto o che avranno i nostri stessi problemi, è uno stimolo a non sciupare un’occasione preziosa. Si tratta pertanto di avviare una nuova fase operativa, di potenziare gli sforzi compiuti, di tener conto delle esperienze positive e negative del passato, ma soprattutto di mobilitare ogni energia disponibile per fronteggiare una situazione minacciosa al fine di superarla con una forte volontà. Perché questo avvenga occorre abbattere con decisione ogni diaframma tra società italiana e mondo dell’emigrazione. Gli italiani, ovunque si trovino, sono uguali di fronte alla Costituzione e tutti dovrebbero sentirsi impegnati, alla scala delle loro responsabilità e pur nelle loro differenti idealità, a cancellare la triste eredità storica dell’emigrazione forzata ed a indicare sulla base della propria esperienza la via delle trasformazioni che questo fenomeno sollecita nei singoli paesi e sul piano internazionale: non è una prova di poco conto.

Luigi Granelli, 16 gennaio 1975

Il Ponte, vol.30 n.11/12, 1974
numero speciale Emigrazione Cento anni 26 milioni