Luca de Biase: La prova dei 9. Innovatori d'Italia - Il più giovane ha 27 anni, il più vecchio 35.

Costruiscono robot, creano molecole, fabbricano idee. C'è chi dice che il Paese è in declino? Le storie di questi scienziati dimostrano che non è vero - I ritratti di: Francesca Ciccarelli, Alberto Credi, Michele Guarnieri, Barbara Imberti, Liberato Manna, Marco Pesenti Gritti, Dorotea Rigamonti, Francesco Stellacci, Stefano Zapperi  

Giovani. Ricercatori. Innovatori. Hanno una storia da raccontare. Vivono in un contesto internazionale, hanno all'attivo importanti scoperte e innovazioni. E sono meno famosi di quanto meritano. Nòva24 li ha trovati chiedendo lumi ai massimi esperti dei settori di punta. Ma alla fine non è stato complicato trovarli. E anzi è stato più difficile selezionarne nove, escludendone con dispiacere molti altri. Che significa? Sono geni? Sono diversi? Sono eroi? O sono solo "eccellenti ragazzi normali" che hanno seguito la loro strada? E soprattutto: sono il frutto naturale dell'ecosistema culturale italiano oppure sono eccezioni destinate a confermare la regola, fin troppo ripetuta, secondo la quale il mercato della ricerca in Italia è avviato al declino? Probabilmente l'idea del declino italiano è, insieme, un'ipotesi diagnostica e una causa di depressione. Ma, sorprendentemente, non tutti i fatti la confermano. L'ultimo rapporto dell'Ocse in materia, «Science, technology and industry scoreboard, 2005» è stato letto finora soprattutto per il dato preoccupante secondo il quale, tra i paesi sviluppati presi in considerazione, l'Italia supera solo Grecia e Portogallo in quanto al peso sul Prodotto interno lordo degli "investimenti nella conoscenza", cioè in ricerca, istruzione superiore e software. In realtà, lo stesso studio dimostra che negli ultimi dieci anni presi in considerazione, l'Italia è di gran lunga il paese che ha aumentato di più la spesa in conoscenza in rapporto al Pil. Se in Italia è cresciuta dell'11,9%, in Grecia e in Giappone è aumentata del 4,2%, in Olanda del 3,3% e molto meno in tutti gli altri paesi. Certo, l'Italia è cresciuta tanto anche perché partiva da un livello basso. Ma è pur sempre vero che ha recuperato terreno. Come? Secondo un'analisi di Carlo Rizzuto, presidente del Sincrotrone di Trieste, l'università italiana ha ridotto enormemente il suo gap di produttività nei confronti dei sistemi accademici internazionali, soprattutto grazie alla massiccia introduzione di professori a contratto. Intanto, la spesa in software non piratato è aumentata e l'abitudine all'utilizzo dei nuovi media si è diffusa, anche qui riducendo il differenziale rispetto ai partner europei. «All'appello è mancato casomai l'investimento in ricerca», osserva Andrea Bonaccorsi, economista dell'università di Pisa. «Gli investimenti pubblici sono aumentati, ma in linea con quelli degli altri paesi, mentre la ricerca privata non è aumentata». Sta di fatto che l'università fa ricerca e che l'impresa la utilizza più di quanto si pensi: «Esiste una sorta di sommerso della ricerca - dice Bonaccorsi - un contributo nascosto del sistema pubblico di ricerca alle imprese che passa per le consulenze personali che interessa non meno di un terzo delle imprese che fanno ricerca e sviluppo». Tutto questo, sebbene avvenga dunque un po' "all'italiana", significa che si sta sviluppando un humus culturale diverso. I pregiudizi non sono sempre i migliori consiglieri. Secondo il «Third European Report on Science and Technology Indicators, 2003» della Direzione generale della ricerca, alla Commissione europea, se si considera il numero di pubblicazioni scientifiche in rapporto al numero di ricercatori, l'Italia è più in basso di Olanda, Regno Unito e Spagna, ma è in posizione migliore di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Canada, Russia, Cina. In termini di pubblicazioni sul totale della popolazione invece l'Italia è più indietro degli altri paesi considerati. «Insomma - commenta l'economista Giulio Sapelli - i ricercatori italiani sono pochi, ma molto produttivi». E poi ci sono i primati italiani. Andrea Granelli, membro del Cotec, fondazione per l'innovazione tecnologica, ne sottolinea uno: «Possiamo sviluppare una cultura dell'innovazione che si concentri sul territorio, sui beni culturali, sulla qualità estetica del paese, per trasformare queste risorse in forme di esperienza capaci di indirizzarsi verso il design, l'immagine e il senso culturale delle produzioni innovative». Si direbbe insomma che alcuni segnali deboli indichino che gli italiani stanno reagendo, che il declino non è ineluttabile e che forse non c'è: piuttosto c'è a una fase di passaggio difficile. Che si supera solo con una visione, una bussola per navigare verso il futuro. La visione prevalente negli anni scorsi è stata quella secondo la quale è il mercato che decide. Un'idea che ha convinto tutti della necessità di imparare a competere. Ma che ha il difetto di indirizzare l'attenzione verso il breve periodo e rischia di dare il massimo potere alla logica della finanza. Questa è fondamentale perché rende disponibili i capitali necessari alla ricerca e all'innovazione, ma tende a concentrarsi sulla massimizzazione dei ritorni, conducendo a una sorta di monocultura che non lascia molto spazio per la ricerca di base e la sperimentazione tecnologica. Del resto, la bolla speculativa degli anni 1998-2000 ha insegnato a prendere le valutazioni dei mercati finanziari con le molle. Come diceva al Sole-24 Ore Andrea Viterbi, inventore delle moderne comunicazioni mobili: «La ricerca di base, vero motore del progresso, si è fermata. Si delega tutto alle aziende che scommettono solo su progetti a breve termine. Ma cosìnon si va molto avanti». Con un'aggravante italiana: «Dopo la riforma - dice Sapelli - anche le università vengono gestite come aziende. E non possono fare il loro mestiere». La nuova visione potrebbe emergere pensando in termini di "ecosistema dell'innovazione". Questa metafora, non toglie nulla al valore delle dinamiche competitive, ma le vede in un'ottica di lungo termine e valorizza la diversità culturale che può sostenere le mille motivazioni che conducono i giovani a scegliere di fare ricerca piuttosto che, per esempio, sognare il mondo dello spettacolo. L'idea di ecosistema favorisce la convivenza della cultura del pubblico con quella del privato, la passione per la ricerca pura con quella per il profitto, e non consente che una prevalga sull'altra. «La metafora è buona. Certo è - dice Sapelli - che in questo ecosistema italiano c'è stata una grande glaciazione della spesa pubblica nella ricerca. In passato, a parte poche iniziative come l'Istituto Donegani e l'Olivetti, la gran parte della ricerca era pubblica e i privati si comportavano come saprofiti che la valorizzavano. Oggi, i ruoli non sono in equilibrio». Come se tra predatori, predati, parassiti e altre forme di vita, in questo ecosistema, non ci fosse una simbiosi, ma piuttosto un reciproco sfuttamento. In questo contesto, per i giovani non c'è che una strada, secondo il sociologo Giuliano Da Empoli: «Se è vero che il core business dell'Italia non è l'innovazione ma la conservazione, allora chi vuole fare innovazione in Italia non appartiene alla cultura di sistema ma a una cultura eversiva. L'innovatore in Italia è un ribelle».