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: Alberto Perini Lunedì, 04 Luglio 2005 - 03:32 AM
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News e Cultura
 
ORGOGLIO E VOGLIA DI FARE
Quando un mercato è imprevedibile, non è detto che la dimensione sia la ricetta più giusta. Intervista ad Andrea Granelli, docente di Sistemi e tecnologie della Comunicazione all’Università La Sapienza di Roma  

Andrea Granelli un passato tra Video o­n Line e Telecom Italia attualmente docente all'Università La Sapienza di Roma e membro di Cotec - Fondazione per l'Innovazione tecnologica, di eEurope - Advisory Group della Commissione Europea per l'attuazione della Società dell'informazione e un futuro come possibile Ministro per l’innovazione e le tecnologie. Prof. Granelli come si può uscire da questa fase di declino in cui è coinvolta l’Italia?
R. La domanda che lei mi pone è da “cento miliardi”, nessuno di noi possiede la “ricetta”. Quello che mi stupisce è che ciascuno parla di declino, ma nessuno si sente responsabile; è come se ci si guardasse indietro alla ricerca di una causa, di un nuovo capo espiatorio, che oggi probabilmente è visto “nell’Europa”. Ma non partendo da una responsabilizzazione delle persone siamo sempre alla ricerca di un grande papà, cioè di una grande entità sovrannaturale, come sta avvenendo nella politica, con questa ricerca ossessiva della leadership. Noi ci troviamo in un Paese che vive una situazione difficile e complicata anche se viviamo meglio di una parte rilevante della popolazione mondiale, ma questo e’ come se la gente lo desse per scontato. C’è, invece, chi sta peggio di noi, gente che vive peggio di noi, che però è molto più entusiasta del cambiamento, più aggressiva, più volenterosa. Penso che si dovrebbe affrontare il problema anche da un punto di vista psicanalitico, cioè bisognerebbe reintrodurre nel Paese un po’ d’orgoglio e di voglia di fare. Questo orgoglio e questa voglia di fare potrebbero nascere se ci fosse una corresponsabilizzazione. Le faccio un esempio: quando si cerca una figura su cui proiettare le proprie colpe, di fatto non si riesce ad elaborare la propria forza e la propria debolezza, quindi non si affrontano i problemi. Facendo riferimento al caso della Cina, i più forti l’hanno vista come opportunità, manodopera a basso costo, un mercato di sbocco interessante, i più deboli la vedono come una minaccia.


D. Quindi lei sostiene che chi è forte vede nella Cina un’opportunità, chi è debole si spaventa, però nel nostro Paese c’e’ un tessuto di piccole e medie imprese che fatalmente rischiano di sentirsi deboli davanti un attacco di questo tipo. Come si può reagire?
R. Si è vero, ma la debolezza, secondo me, non è un prodotto della dimensione. Avendo lavorato sette anni in un grande gruppo come Telecom Italia, ritengo che non sempre il grande Gruppo sia poi la struttura più forte per reagire ai mercati imprevedibili; cioè il modello di dimensione economica grande, è perfetto in un’economia industriale, dove si e’ in presenza di un mercato relativamente poco variabile. Quando invece un mercato è imprevedibile non è detto che la dimensione sia la ricetta più giusta.

D. Secondo lei l’azione di politica industriale realizzata dal Governo va in questa direzione, cioè quella di incentivare la piccola e media industria italiana ad affrontare la crisi che ha davanti?
R. Per me non molto. Io sono convinto che la Piccola e Media Impresa continui ad essere il grande tessuto del nostro Paese, ma non è al centro della discussione della politica e dell’economia. Facciamo l’esempio dell’innovazione, si dice che le piccole imprese non spendono tanto in innovazione, in informatica; ma quando lei produce prodotti informatici, concepiti in America per le multinazionali, per le grandi imprese e poi pretende, che i nostri piccoli imprenditori le utilizzino all’interno dei loro processi, questo non è il modo per affrontare l’innovazione. L’innovazione va costruita su misura. Si dice che le piccole imprese spendono poco in informatica, e questo è tutto da dimostrare, ma comunque non si può pensare che innovazione sia semplicemente comprare un programma di paghe e stipendi condiviso da tutti. Per rispondere alla sua domanda, secondo me, noi molto spesso siamo quel Paese in cui le cose nascono per caso, la realtà distrettuale direi che è una realtà nata per caso mentre i francesi li progettano i distretti industriali. Il Ministero della ricerca punta sull’eccellenza, io non credo, che serva produrre distretti tecnologici, ma penso che serva rafforzare i distretti esistenti. La tecnologia è uno strumento, non un fine. Secondo il mio modo di vedere, non c’è una riflessione profonda sulle vere esigenze che hanno le piccole e medie imprese, si tende a dire che sono sfortunate, che sono piccole e quindi se sei piccolo non vai bene.

D. Se lei dovesse immaginarsi la nostra piccola e media industria fra dieci-quindici anni, ritiene che ci sia qualche settore che potrà mantenere una sua capacità produttiva, e quindi una sua presenza da protagonista?
R. Io resto convinto della grande capacità che ha avuto il nostro Paese di essere presente nelle comparto della meccanica: penso ad esempio al packaging o alla realizzazione di macchinari che nascevano come corollario necessario al core-business delle aziende. Un punto di grande importanza e che non va trascurato è il territorio, si tratta di un elemento di tutela. Oggi, la principale difesa che noi abbiamo è il territorio, ci sono cose che se si fanno in una determinata localizzazione non sono copiabili. Il mondo sta veramente cambiando e quindi ritengo che il futuro stia soprattutto nel trovare meccanismi che uniscano prodotti e servizi, puntando su quella che viene chiamata ‘Esperienza’. Progettare esperienza, questo è veramente un settore dove il nostro Paese continuerà ad essere efficace. L’esperienza è un concetto molto ampio, che può andare dal turismo ai beni culturali, dalla religione allo sport, all’education e non e’ un concetto astratto. Lei pensi al caso manifatturiero: nel gigantesco settore dell’edilizia non esiste in Italia una vera eccellenza. Adesso, ad esempio, sta partendo con la Comunità Europea un programma quadro, un grande progetto che si chiama Tecnological Costruction Platform (Piattaforma delle Tecnologie delle Costruzioni), e noi non siamo presenti, ovvero all’interno del Cnr non c’è un Gruppo ampio. Ci sono, come al solito, piccole eccellenze, ma non è possibile che in un Paese dove il comparto dell’edilizia e’ così importante per i risvolti che ha ad esempio sui restauri e sui Beni Culturali, non ci sia la capacità di creare centri di eccellenza sui materiali da costruzione e sulle tecniche di costruzione. Il focus non e’ la dimensione - crescete e sarete più grandi- ma lavorare su nicchie che creino un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo. La sostenibilità e’ direttamente correlata all’esperienza e cioè alla storia di questo Paese, alle sue sapienze artigianali: si possono far fare all’estero attività ripetitive anche sofisticate, ma mettere insieme questa sapienza e’ un’attività difficilmente copiabile.

D. Chiariamo ancora meglio il concetto "dell’economia dell’esperienza", che riprende per altro alcune tesi del Prof. De Masi. Sembrerebbe un concetto astratto e invece può essere un valido modello di rilancio produttivo.
R. Mi permetta di cominciare con un esempio: un tempo c’erano i souvenir, erano un ricordo, un’esperienza che si portava a casa, c’erano le foto: si facevano le fotografie per farle vedere agli amici. Oggi, invece, le nuove tecnologie digitali hanno cambiato il significato del concetto di esperienza. Permettono di costruirla, progettarla, scambiarla. Oggi con il digitale sta nascendo un processo molto più articolato, quindi l’esperienza incomincia ad essere scambiata, propagata, manipolata, venduta e questo grazie al mondo digitale. Per un altro verso, e questo è un concetto che De Masi sostiene da tempo, la gente ha più tempo libero. Il tempo libero nasce dal fatto che c’è maggior automazione, poi la gente va in pensione, si allunga l’aspettativa di vita, quindi nasce l’esigenza di riempire il proprio tempo. A questo si deve aggiungere che oggi non si comprano più prodotti, ma “esperienze memorabili”, oggi non si compra un auto si compra un esperienza di guida sportiva. Non è più solo il brand, quindi, stanno nascendo i nuovi progettisti dell’esperienza che non si limitano a fare oggetti belli, emozionanti come la Ferrari, ma anche l’ambiente interiore, il progetto, la funzionalità. Questo è un mondo che tende a “esperienzalizzare” tutto, quindi i luoghi generano esperienza, i prodotti generano esperienza, il digitale e il virtuale sono esperienza. La gente chatta, fa giochi di ruolo ma anche la religione è esperienza. Basta ricordare il funerale del Papa per vedere quanta gente anche laica faceva nove ore di coda per passare per pochi secondi davanti alla salma del Papa. Esperienza è partecipare ad un evento memorabile.

D. Questo vuol dire che dobbiamo abituarci nel futuro a fare business in maniera diversa?
R. Si, secondo me è questo. Tornando al discorso iniziale, per me non è un problema di dimensioni, penso piuttosto che bisogna avere coraggio, capire che il mondo sta cambiando per essere pronti ad imparare a fare mestieri anche diversi ma vicini al nostro Paese: artigianato, cultura, turismo, religione, estetica, alimentare. Noi non siamo un Paese di miniere e di grandi fabbriche che sfruttano gli operai, ma siamo piccole realtà artigianali, piccoli comuni, piccole città; tutti questi elementi valgono di più nell’economia post-industriale che non in quella industriale.

D. Uno dei problemi che le nostre piccole e medie aziende devono affrontare è il problema del passaggio generazionale. Quale esperienza considera fondamentale per un giovane, figlio di un imprenditore, nell’attuale situazione di crisi?
R. Io lo manderei all’estero, poi gli farei capire che avere un’azienda è sempre una grande opportunità; un padre che ha costruito un’azienda è una fortuna. Oggi invece penso sia pericoloso obbligare un figlio a fare la gavetta in azienda. La gavetta bisogna sempre farla, ma a mio parere, è più importante una gavetta imparando l’inglese all’estero, una gavetta che ti faccia capire che tu sei uno dei tanti e che devi lottare e non che sei un privilegiato perché figlio di un padre imprenditore. E’ necessario costruirsi competenze e capire un po’ il mondo, vedendolo anche dal di fuori. Il mondo non è solo quello della produzione e quello commerciale, quindi occorre iniziare ad imparare una lingua e poi tornare. Il nostro Paese sta diventando un Paese che punta più alla rendita che alla produzione, si mettono da parte i soldi e i giovani non hanno più voglia di lavorare in fabbrica.

D. Quindi oggi la nostra industria soffre di questo male? Di una nociva rendita di posizione, aspettando gli eventi?
R. Questo per me torna ad essere un male interno e non esterno, non possiamo dare la colpa alla Cina, è un male etico, è una responsabilità individuale. Se un figlio viene fuori senza valori, molle, è colpa dei genitori; ed è necessaria una grande riflessione sull’educazione dei figli che non si può delegare al mondo accademico o al mondo circostante. Inoltre sento spesso dire, quando si parla di innovazione, che non si fa perché mancano i soldi. E’ impossibile, l’innovazione si fa perché serve, e non perché c’è uno sconto fiscale. Quale persona seria direbbe una cosa del genere? Un’azienda innova perché è obbligata a farlo, perché l’innovazione è la condizione di sopravvivenza delle aziende. Ci sono imprenditori che lo fanno nel week-end, c’è chi mette da parte i soldi se ci crede, se non ci crede invece dice: non mi hanno dato i soldi quindi non innovo, ma questo non aiuta. Recentemente ho partecipato al gruppo di lavoro che ha lanciato De Maio per far nascere i dipartimenti CNR; ho dedicato un anno del mio tempo al CNR e mi sono reso conto che il CNR è staccato dal mondo imprenditoriale. Il CNR non dialoga con il mondo imprenditoriale e spesso è autoreferenziale, cioè si inventa cosa deve fare, ma non lo fa per spocchia lo fa perché gli imprenditori non gli chiedono nulla, perché non c’è dialogo. Anche il problema Cina era gia sotto gli occhi di tutti. Le aziende che lo hanno capito si sono organizzate per tempo, altre no. Questa è una nazione molle e senza energia è la reazione è da gente vecchia. Dobbiamo trasmettiamo energia ai giovani che invece stanno diventando vecchi.



Nota: di Alberto Perini

 
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