Newsletter di Mario Pagliaro, 29 giugno, 2004

Andrea Granelli: Integrare, evangelizzare e attrarre i giovani

Sommario:
L'ex capo della ricerca e sviluppo di Telecom Italia Andrea Granelli suggerisce le sue soluzioni per l'innovazione in Italia: integrare come sappiamo, evangelizzare l'informatica e attrarre i giovani brillanti.

Andrea Granelli

Andrea GranelliParla l'ex ad di Tilab Andrea Granelli: l'ex braccio destro di Niky Grauso a Video On Line e poi con Tin.it l'uomo che ha letteralmente portato Internet nelle case degli italiani. A 44 anni ritorna allo studio perché, dice, "per innovare bisogna studiare". Docente universitario alla Luiss e alla Sapienza di Roma, Granelli parla con il responsabile del Quality College del Cnr della sua esperienza in Telecom, lasciata a gennaio dopo l'assorbimento di Tilab nella controllante; dell'innovazione che in Italia tutti auspicano e che ci vede indietro in qualsiasi classifica internazionale; di consulenza di direzione; e di cosa farebbe da ministro in un eventuale Governo di centrosinistra.

1. Secondo Massimo Mucchetti, che pure argomenta estesamente le sue opinioni, le famiglie storiche del capitalismo italiano ricercano da sempre la rendita per evitare i rischi della competizione sul mercato e mettere al sicuro i loro patrimoni. Pensa che la sua vicenda in Tilab sia una conseguenza di questa tendenza?

Beh, no. La mia è stata una scelta personale: dopo 7 anni in Telecom ho assistito a 5 cambi di azionariato che ogni volta ti costringono a rivedere i piani industriali e le scelte. Nella mia vita ho fatto tante cose: il consulente, il venture capitalist, il manager e il docente universitario, attività cui oggi dedico gran parte del mio tempo. Ma l'innovazione richiede studio, che naturalmente un'attività manageriale a tempo pieno non concede. E io oggi mi sono rimesso a studiare. Ho preso un anno sabbatico, insegno Economia e gestione delle imprese alla Luiss e tecnologie della comunicazione alla Sapienza di Roma. E siccome poi lo studio è anche un processo relazionale -- incontrare persone -- richiede ulteriore tempo per muoversi e dedicarsi a questi incontri. Oggi per esempio sono qui a Ravello al seminario di De Masi sui sogni dell'impresa.

2. Cosa farebbe lei, che molti danno per ministro dell'innovazione in un futuro governo di centrosinistra, per fermare la "fuga dei cervelli" e riformare l'università italiana che la causa?

Guardi, questa è una cosa che molti ripetono, ma non c'è nulla di ufficiale o di deciso, anche se sarei naturalmente disponibile a dare un contributo alla Repubblica. Il fatto che i giovani laureati italiani vadano all'estero è una cosa che c'è sempre stata: fanno bene e significa che sono bravi.

...sì, ma poi restano all'estero e ci lasciano qui con quelli meno bravi.

Ecco, il punto è come creare le occasioni per un loro ritorno e come attrarre anche i giovani stranieri brillanti. Cioè come rendere attrattivo il nostro Paese. Le faccio un esempio del quale mi sono occupato di recente nel mondo di oggi dove il turismo è ormai la prima industria: Tecnologie e beni culturali.

Le nuove tecnologie digitali rendono possibili miracoli e usarle realmente per valorizzare il nostro patrimonio artistico unico al mondo sarebbe un grande sforzo di innovazione applicata -- un concetto un po' svilito, da noi, quello di 'applicato' -- mentre invece richiederebbe uno sforzo interdisciplinare di livello altissimo, integrando conoscenze nei campi più svariati: dalla psicologia cognitiva all'interaction design; che è anche un po' il senso del discorso di Montezemelo all'insediamento come presidente della Confindustria sul 'fare sistema'.

Dovremo costruire innovazione là dove abbiamo credibilità: importare modelli americani non serve. Noi siamo sempre stati grandi integratori. L'impero romano era un aggregatore, così come lo sono il Codice giuridico romano o la stessa ingegneria civile che integra competenze diverse.

3. In Italia le imprese usano Internet e le tecnologie informatiche poco e soprattutto male: molto al di sotto delle potenzialità che esse offrono. Pensa che ci sia una responsabilità anche degli informatici? E cosa farebbe lei per una causarne una diffusione più vasta e migliore?

Sicuramente gli informatici hanno delle responsabilità. Io mi faccio il sito web: che da fatto strategico diventa meramente tecnico. In Italia c'è una bassa cultura informatica: il rapporto fra investimenti in ICT e il PIL è bassissimo, che indica chiaramente come rispetto ai Paesi europei noi non abbiamo ancora fatto gli investimenti richiesti. D'altra parte, non si tratta appunto di un fatto tecnico: un investimento pesante in ICT richiede il ripensamento dei processi aziendali.

E qui sta il punto.

Abbiamo bisogno di nuovi evangelisti dell'informatica come fece Steve Jobs al lancio del PC in America con la Apple. Gli evangelisti Apple se ne andavano in giro negli USA

non a fare i venditori: ma

a spiegare alla gente come e perché il PC gli avrebbe risolto tanti problemi e migliorato la vita, aprendogli prospettive nuove. Come cioè la tecnologia fosse là per aiutare l'uomo, e non per rendergli la vita più complicata, come di fatto avviene da noi.

E in Italia, chi dovrebbe farlo, questo: Soru?

Questo è un compito dello Stato. Bisogna spiegare alla gente a cosa serve la posta elettronica. Non ad usare Eudora. Quando avranno capito a cosa serve l'email, impareranno subito ad usarla.

4. Lei è anche figlio di un importante esponente della Dc, il partito che volle la presenza pubblica nell'economia. Pensa che un ritorno dello Stato nell'economia sia nuovamente auspicabile?

Certamente lo Stato deve essere presente come regolatore per tarpare le mire dei monopolisti che, lo sappiamo, hanno sempre la tendenza a chiudere l'accesso al mercato alla competizione. Le PMI dei distretti, poi, devono unirsi e lo Stato dovrebbe fare da facilitatore: incentivare l'integrazione e costruire nuove e migliori infrastrutture. Ma se mi chiede se lo Stato dovrà tornare a investire nelle grandi imprese che non ce la fanno a stare sul mercato, allora non c'è Stato che tenga. In breve, vedo una dialettica leggera, e inevitabile, fra Stato e imprese; in cui lo Stato sia ben presente, ma non in modo pesante o condizionante.

5. L'ex grande consulente di direzione Lewis Pinault descrive i suoi colleghi come dei faccendieri che vendono progetti senza senso alle imprese e ai governi. Lei, già consulente di McKinsey, che opinione si è fatto della consulenza?

Esistono dei bravi consulenti, e non buone consulenze. Mi viene subito da citare Cipolla: "in ogni professione esiste un 20% di incompetenti". E' inevitabile.

Sì, ma Pinault dice che sono l'80%...

Beh, non sono d'accordo. Se i consulenti di direzione continuano ad esistere e ad essere pagati, significa che a qualcosa servono. D'altra parte i consulenti fanno da formatori e fanno anche da rassicuratori; e fanno comunque delle cose che le imprese devono esternalizzare, specialmente la conduzione di progetti nuovi ai quali le imprese non possono dedicare risorse che non hanno.

Per saperne di più

Mario Pagliaro, L'impresa snella, la retorica e la qualità (corso sul management e la comunicazione, Roma, 26-27 ottobre 2004) e Scenario: Qualità. Le idee e i metodi delle organizzazioni del XXI secolo.