Andrea Granelli: PENSARE L'IMPRESA DENTRO LA DISTRUZIONE CREATRICE (da: "La genesi del nuovo", a cura di Andrea Bonaccorsi - Guerini e Associati, 2003)

Telecom Italia Lab è la struttura innovativa del gruppo Telecom Italia. Quest'ultima riunisce al suo interno tre oggetti diversi: i laboratori (lo CSELT di Torino), le competenze di marketing di un gruppo di persone che hanno fatto start up, per esempio, Tin.it, e tutte le attività di venture capital del gruppo, quindi la macchina che aiuta e finanzia start up in giro per il mondo. All'interno di Telecom si sta vivendo il fenomeno dell'impatto delle tecnologie sulle organizzazioni da due differenti punti di osservazione. Per prima cosa, essendo un'azienda che fornisce tecnologie, siamo coinvolti spesso nei processi di cambiamento, in secondo luogo, Tilab è nuova e quindi stiamo sperimentando il cambiamento sulla nostra pelle.

Farei alcune premesse di metodo. Sono convinto ci sia stata molta demagogia relativamente al concetto di cambiamento e di innovazione. La stessa new economy, che alcuni chiamano e-economy, ha ben poco di nuovo, nel senso che i concetti veri, le regole del management, sono sempre validi. In campo organizzativo ci sono stati pochi cambiamenti. Si è anche parlato di una retorica al contrario, quella che alcuni hanno chiamato la retorica delle sale da biliardo, dal momento che in alcune start up era presente nell'ingresso un tavolo da biliardo per giocare;questa è una demagogia molto paternalista, volta alla creazione di un senso molto familiare che spesso nasconde logiche di sfruttamento ampio.

Un caso tipico sono le aziende di e-commerce. Se si guardasse quali sono i processi produttivi dell'azienda considerata più brillante della new economy, e che ha resistito anche alla bolla, che è Amazon.com, si osserverebbe un paradosso: il tasso di automazione dei processi, le nuove tecnologie sono stati applicati alla old economy e non alla e-economy. Quindi abbiamo banche molto automatizzate, così come le poste, mentre il mondo del software, gli avvocati, i pubblicitari fanno parte di un mondo completamente manuale. Infatti la logica dei talenti del capitale umano è la risposta al fatto che essendo il processo molto artigianale, poco automatizzato, l'uomo di grande talento ha un grande valore. Di fatto questo ancora una volta focalizza il valore di poche persone. Peraltro il taylorismo e la gerarchia penso debbano essere, in qualche modo, apprezzati; spesso le persone vogliono gerarchia e certezza di regole, soprattutto in tempi di cambiamento, perché vogliono avere un capo che abbia il dovere di guidare e di prendersi delle responsabilità.

Volendo parlare di organizzazione e innovazione è necessario non dare un orizzonte temporale: l'innovazione c'è da tempo, ha fatto la storia dell'umanità con diverse dimensioni, quindi non va cercata con compiutezza, si tratta di un processo continuo. Certamente bisogna tornare più ai fondamentali, quindi capire che le nuove tecnologie sono importanti per fare cose prima impensabili, ma spesso sono anche tecnologie che aumentano la debolezza dei sistemi e dei paesi. Tutti noi non possiamo non riflettere, dopo quanto successo l'11 settembre 2001, che ha dimostrato cosa significhi mondo interconnesso, legato da reti telematiche. Si tratta di un mondo fragile.

Il tema fondamentale su cui vorrei riflettere è il binomio reti aperte-modelli organizzativi aperti.

Nel momento in cui investiamo in aziende di venture capital, per esempio, in Israele oppure in America, stiamo creando un'azienda aperta, in cui alcune attività, come può essere l'ideazione di prodotto, sono fatte lontano dal core. Questo automaticamente comporta dei rischi e, per primo, la valutazione del rischio paese, spesso dimenticata.

Cercando di fare delle riflessioni sugli ingredienti per correlare innovazione e tecnologia, si deve evitare un approccio assertivo, non trovare delle ricette che risolvano tutti i problemi. Certamente il capitale umano è importante, bisogna creare aziende aperte, pur sapendo che l'apertura cambierà i modelli organizzativi. La tecnologia va capita, ma non bisogna attribuirgli un valore magico. In particolare nelle attività più innovative la tecnologia all'interno dei processi è usata poco. Fatta questa premessa, Telecom Italia Lab sta unendo oggetti abbastanza lontani tra loro. Mettere insieme un laboratorio di 1200 persone e una struttura di venture capital di persone qualificate che valutano progetti e investono in giro per il mondo è un'attività molto nuova. In molte realtà europee questo esiste, France Telecom, Deutsche Telekom hanno i laboratori e strutture di venture capital, ma sono indipendenti e non si determinano sinergie. La nostra è certamente una grande opportunità, ma ci ha fatto confrontare con molte problematiche. La più rilevante, tipica di aziende molto innovative, è la sindrome del not invented here; quindi, "non l'ho fatto io" e non è buono. Sembra banale ma è molto presente e vero. E' probabile che l'idea creata internamente sia migliore di quelle esterna. Il problema è che il ricercatore, non avendo cultura finanziaria, non ha nel suo patrimonio genetico il concetto di leverage. Questo porta a fare da soli e solo ciò che si può fare meglio, con la limitazione di portare a termine una cosa solamente. Al contrario, se si attua un'attività di coordinamento di più persone, è possibile concludere un numero maggiore di cose. Un grande gruppo deve pensare al leverage per poter fare più attività e perché statisticamente, in un mondo imprevedibile, un modo per cercare di essere efficaci nel futuro è fare più cose sperando che queste vadano a buon fine. Questa è la vera ratio del venture capital. Esso è molto collegato all'innovazione. Il problema è che questo settore è stato, come per la new economy, gestito in maniera fortemente speculativa. Quindi la gente quando pensa al venture capital pensa a un modo facile per fare molti soldi, e non a un modo per fare hedging, per schermare o proteggere un'azienda che non sa dove investire nel futuro. Questo concetto è difficile da far digerire perché la dimensione speculativa del venture capital è molto diffusa e non ci si rende conto che questa modalità, specialmente in Italia, è invece da vedersi come un elemento di forte flessibilità organizzativa. In un paese in cui la mobilità è molto complicata, il venture capital dà maggiori garanzie; dovendo investire in un progetto di ricerca, si è portati, internamente, ad assumere delle persone che resteranno in azienda anche se producono, dopo alcuni anni, un'idea che non funziona. Spesso i costi di riqualificazione sono molto elevati, non trattandosi di operai, ma dei maggiori specialisti di un'area. Se l'idea non ha funzionato non è perché queste persone non sono valide. Quindi nasce implicitamente un processo complicatissimo di riutilizzo che invece il venture capita gestisce in maniera molto semplice: non finanzio più quell'azienda ma altre attività. E' un elemento molto nuovo, peraltro raccontato in modo molto efficace in un recente libro, The creative destruction, che cerca di capire le correlazioni organizzative tra l'innovazione e le aziende di venture capital, vedendo in queste aziende proprio un modello organizzativo del futuro. Esse hanno la caratteristica di essere molto piccole, prive di overhead, limitate nel tempo. Quest'ultimo è un altro aspetto fondamentale. Un'azienda che vive perpetuamente è un concetto sbagliato in partenza. Un'analisi recente, condotta in America, ha permesso di arrivare al grafico che riporta la permanenza delle aziende sul mercato. Negli anni Trenta la media era di circa 30 anni mentre ora la permanenza sta arrivando a 15 anni. Si evidenzia un progressivo degrado. Ciò significa che un'azienda non può più mantenere il vantaggio competitivo per lungo tempo. Quindi se un azionista investe denaro nel capitale di rischio è per essere remunerato e, sicuramente, non metterà il capitale per 70 anni nella stessa azienda, ma cercherà altre realtà che garantiscano maggiore autonomia finanziaria. Questa è una grande minaccia e implica che è più semplice concettualmente guardare un'azienda come limitata nel tempo, quasi al pari di una business idea. Dopo di che ci sono altre aziende che danno maggiori performance. Questo concetto viene attuato nelle aziende di venture capital che hanno un capitale committed, che raccolgono sul mercato, e i cui contratti prevedono lo smobilizzo dell'azienda dopo un certo numero di anni.

Al contrario, tutto il mondo aziendale tradizionale, quando fa il business plan, utilizza il terminal value, che è una falsificazione, nel senso che, facendo un business plan, proietto i cash flow, mentre per il restante del periodo, fino alla fine dell'azienda, ipotizzo un certo rendimento. Se consideriamo le aziende della e-economy, e pertanto quelle maggiormente innovative, esse hanno tutte un terminal value enorme. Il valore considerato è quello evidenziato dal terminal value e quindi quello fondato sul fatto che l'azienda viva all'infinito. Il mercato invece dimostra che le aziende che vivono all'infinito non esistono.

Altro elemento è che nelle aziende di venture capital le strutture sono molto semplici, non ci sono overhead e la management company usa solo milestones finanziarie per controllare le aziende. Non ci sono riti di reporting con migliaia di numeri che nessuno guarda. Quindi la riflessione è che si debba mutuare, per fare davvero innovazione e se si vuole essere competitivi con il mercato, da aziende che hanno vissuto le dinamiche del mercato sia dal lato del business che dal lato dei finanziatori.

Credo che interiorizzare questa logica possa aiutare molto il sistema produttivo italiano a evolvere.