ORGOGLIO E VOGLIA DI
FARE
Quando un mercato è
imprevedibile, non è detto che la dimensione sia
la ricetta più giusta. Intervista ad Andrea
Granelli, docente di Sistemi
e tecnologie della Comunicazione
all’Università La Sapienza di
Roma |
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Andrea Granelli un passato tra Video
on Line e Telecom Italia attualmente docente
all'Università La Sapienza di Roma e membro di Cotec -
Fondazione per l'Innovazione tecnologica, di eEurope -
Advisory Group della Commissione Europea per
l'attuazione della Società dell'informazione e un futuro
come possibile Ministro per l’innovazione e le
tecnologie. Prof. Granelli come si può uscire da questa
fase di declino in cui è coinvolta l’Italia?
R. La domanda che lei mi pone è da
“cento miliardi”, nessuno di noi possiede la “ricetta”.
Quello che mi stupisce è che ciascuno parla di declino,
ma nessuno si sente responsabile; è come se ci si
guardasse indietro alla ricerca di una causa, di un
nuovo capo espiatorio, che oggi probabilmente è visto
“nell’Europa”. Ma non partendo da una
responsabilizzazione delle persone siamo sempre alla
ricerca di un grande papà, cioè di una grande entità
sovrannaturale, come sta avvenendo nella politica, con
questa ricerca ossessiva della leadership. Noi ci
troviamo in un Paese che vive una situazione difficile e
complicata anche se viviamo meglio di una parte
rilevante della popolazione mondiale, ma questo e’ come
se la gente lo desse per scontato. C’è, invece, chi sta
peggio di noi, gente che vive peggio di noi, che però è
molto più entusiasta del cambiamento, più aggressiva,
più volenterosa. Penso che si dovrebbe affrontare il
problema anche da un punto di vista psicanalitico, cioè
bisognerebbe reintrodurre nel Paese un po’ d’orgoglio e
di voglia di fare. Questo orgoglio e questa voglia di
fare potrebbero nascere se ci fosse una
corresponsabilizzazione. Le faccio un esempio: quando si
cerca una figura su cui proiettare le proprie colpe, di
fatto non si riesce ad elaborare la propria forza e la
propria debolezza, quindi non si affrontano i problemi.
Facendo riferimento al caso della Cina, i più forti
l’hanno vista come opportunità, manodopera a basso
costo, un mercato di sbocco interessante, i più deboli
la vedono come una minaccia.
D. Quindi lei sostiene che chi è
forte vede nella Cina un’opportunità, chi è debole si
spaventa, però nel nostro Paese c’e’ un tessuto di
piccole e medie imprese che fatalmente rischiano di
sentirsi deboli davanti un attacco di questo tipo. Come
si può reagire? R. Si è vero, ma la
debolezza, secondo me, non è un prodotto della
dimensione. Avendo lavorato sette anni in un grande
gruppo come Telecom Italia, ritengo che non sempre il
grande Gruppo sia poi la struttura più forte per reagire
ai mercati imprevedibili; cioè il modello di dimensione
economica grande, è perfetto in un’economia industriale,
dove si e’ in presenza di un mercato relativamente poco
variabile. Quando invece un mercato è imprevedibile non
è detto che la dimensione sia la ricetta più
giusta.
D. Secondo lei l’azione di politica
industriale realizzata dal Governo va in questa
direzione, cioè quella di incentivare la piccola e media
industria italiana ad affrontare la crisi che ha
davanti? R. Per me non molto. Io sono
convinto che la Piccola e Media Impresa continui ad
essere il grande tessuto del nostro Paese, ma non è al
centro della discussione della politica e dell’economia.
Facciamo l’esempio dell’innovazione, si dice che le
piccole imprese non spendono tanto in innovazione, in
informatica; ma quando lei produce prodotti informatici,
concepiti in America per le multinazionali, per le
grandi imprese e poi pretende, che i nostri piccoli
imprenditori le utilizzino all’interno dei loro
processi, questo non è il modo per affrontare
l’innovazione. L’innovazione va costruita su misura. Si
dice che le piccole imprese spendono poco in
informatica, e questo è tutto da dimostrare, ma comunque
non si può pensare che innovazione sia semplicemente
comprare un programma di paghe e stipendi condiviso da
tutti. Per rispondere alla sua domanda, secondo me, noi
molto spesso siamo quel Paese in cui le cose nascono per
caso, la realtà distrettuale direi che è una realtà nata
per caso mentre i francesi li progettano i distretti
industriali. Il Ministero della ricerca punta
sull’eccellenza, io non credo, che serva produrre
distretti tecnologici, ma penso che serva rafforzare i
distretti esistenti. La tecnologia è uno strumento, non
un fine. Secondo il mio modo di vedere, non c’è una
riflessione profonda sulle vere esigenze che hanno le
piccole e medie imprese, si tende a dire che sono
sfortunate, che sono piccole e quindi se sei piccolo non
vai bene.
D. Se lei dovesse immaginarsi la nostra
piccola e media industria fra dieci-quindici anni,
ritiene che ci sia qualche settore che potrà mantenere
una sua capacità produttiva, e quindi una sua presenza
da protagonista? R. Io resto convinto
della grande capacità che ha avuto il nostro Paese di
essere presente nelle comparto della meccanica: penso ad
esempio al packaging o alla realizzazione di macchinari
che nascevano come corollario necessario al
core-business delle aziende. Un punto di grande
importanza e che non va trascurato è il territorio, si
tratta di un elemento di tutela. Oggi, la principale
difesa che noi abbiamo è il territorio, ci sono cose che
se si fanno in una determinata localizzazione non sono
copiabili. Il mondo sta veramente cambiando e quindi
ritengo che il futuro stia soprattutto nel trovare
meccanismi che uniscano prodotti e servizi, puntando su
quella che viene chiamata ‘Esperienza’. Progettare
esperienza, questo è veramente un settore dove il nostro
Paese continuerà ad essere efficace. L’esperienza è un
concetto molto ampio, che può andare dal turismo ai beni
culturali, dalla religione allo sport, all’education e
non e’ un concetto astratto. Lei pensi al caso
manifatturiero: nel gigantesco settore dell’edilizia non
esiste in Italia una vera eccellenza. Adesso, ad
esempio, sta partendo con la Comunità Europea un
programma quadro, un grande progetto che si chiama
Tecnological Costruction Platform (Piattaforma delle
Tecnologie delle Costruzioni), e noi non siamo presenti,
ovvero all’interno del Cnr non c’è un Gruppo ampio. Ci
sono, come al solito, piccole eccellenze, ma non è
possibile che in un Paese dove il comparto dell’edilizia
e’ così importante per i risvolti che ha ad esempio sui
restauri e sui Beni Culturali, non ci sia la capacità di
creare centri di eccellenza sui materiali da costruzione
e sulle tecniche di costruzione. Il focus non e’ la
dimensione - crescete e sarete più grandi- ma lavorare
su nicchie che creino un vantaggio competitivo
sostenibile nel tempo. La sostenibilità e’ direttamente
correlata all’esperienza e cioè alla storia di questo
Paese, alle sue sapienze artigianali: si possono far
fare all’estero attività ripetitive anche sofisticate,
ma mettere insieme questa sapienza e’ un’attività
difficilmente copiabile.
D. Chiariamo ancora meglio il concetto
"dell’economia dell’esperienza", che riprende per altro
alcune tesi del Prof. De Masi. Sembrerebbe un concetto
astratto e invece può essere un valido modello di
rilancio produttivo. R. Mi permetta di
cominciare con un esempio: un tempo c’erano i souvenir,
erano un ricordo, un’esperienza che si portava a casa,
c’erano le foto: si facevano le fotografie per farle
vedere agli amici. Oggi, invece, le nuove tecnologie
digitali hanno cambiato il significato del concetto di
esperienza. Permettono di costruirla, progettarla,
scambiarla. Oggi con il digitale sta nascendo un
processo molto più articolato, quindi l’esperienza
incomincia ad essere scambiata, propagata, manipolata,
venduta e questo grazie al mondo digitale. Per un altro
verso, e questo è un concetto che De Masi sostiene da
tempo, la gente ha più tempo libero. Il tempo libero
nasce dal fatto che c’è maggior automazione, poi la
gente va in pensione, si allunga l’aspettativa di vita,
quindi nasce l’esigenza di riempire il proprio tempo. A
questo si deve aggiungere che oggi non si comprano più
prodotti, ma “esperienze memorabili”, oggi non si compra
un auto si compra un esperienza di guida sportiva. Non è
più solo il brand, quindi, stanno nascendo i nuovi
progettisti dell’esperienza che non si limitano a fare
oggetti belli, emozionanti come la Ferrari, ma anche
l’ambiente interiore, il progetto, la funzionalità.
Questo è un mondo che tende a “esperienzalizzare” tutto,
quindi i luoghi generano esperienza, i prodotti generano
esperienza, il digitale e il virtuale sono esperienza.
La gente chatta, fa giochi di ruolo ma anche la
religione è esperienza. Basta ricordare il funerale del
Papa per vedere quanta gente anche laica faceva nove ore
di coda per passare per pochi secondi davanti alla salma
del Papa. Esperienza è partecipare ad un evento
memorabile.
D. Questo vuol dire che dobbiamo
abituarci nel futuro a fare business in maniera
diversa? R. Si, secondo me è questo.
Tornando al discorso iniziale, per me non è un problema
di dimensioni, penso piuttosto che bisogna avere
coraggio, capire che il mondo sta cambiando per essere
pronti ad imparare a fare mestieri anche diversi ma
vicini al nostro Paese: artigianato, cultura, turismo,
religione, estetica, alimentare. Noi non siamo un Paese
di miniere e di grandi fabbriche che sfruttano gli
operai, ma siamo piccole realtà artigianali, piccoli
comuni, piccole città; tutti questi elementi valgono di
più nell’economia post-industriale che non in quella
industriale.
D. Uno dei problemi che le nostre piccole
e medie aziende devono affrontare è il problema del
passaggio generazionale. Quale esperienza considera
fondamentale per un giovane, figlio di un imprenditore,
nell’attuale situazione di crisi? R. Io
lo manderei all’estero, poi gli farei capire che avere
un’azienda è sempre una grande opportunità; un padre che
ha costruito un’azienda è una fortuna. Oggi invece penso
sia pericoloso obbligare un figlio a fare la gavetta in
azienda. La gavetta bisogna sempre farla, ma a mio
parere, è più importante una gavetta imparando l’inglese
all’estero, una gavetta che ti faccia capire che tu sei
uno dei tanti e che devi lottare e non che sei un
privilegiato perché figlio di un padre imprenditore. E’
necessario costruirsi competenze e capire un po’ il
mondo, vedendolo anche dal di fuori. Il mondo non è solo
quello della produzione e quello commerciale, quindi
occorre iniziare ad imparare una lingua e poi tornare.
Il nostro Paese sta diventando un Paese che punta più
alla rendita che alla produzione, si mettono da parte i
soldi e i giovani non hanno più voglia di lavorare in
fabbrica.
D. Quindi oggi la nostra industria soffre
di questo male? Di una nociva rendita di posizione,
aspettando gli eventi? R. Questo per me
torna ad essere un male interno e non esterno, non
possiamo dare la colpa alla Cina, è un male etico, è una
responsabilità individuale. Se un figlio viene fuori
senza valori, molle, è colpa dei genitori; ed è
necessaria una grande riflessione sull’educazione dei
figli che non si può delegare al mondo accademico o al
mondo circostante. Inoltre sento spesso dire, quando si
parla di innovazione, che non si fa perché mancano i
soldi. E’ impossibile, l’innovazione si fa perché serve,
e non perché c’è uno sconto fiscale. Quale persona seria
direbbe una cosa del genere? Un’azienda innova perché è
obbligata a farlo, perché l’innovazione è la condizione
di sopravvivenza delle aziende. Ci sono imprenditori che
lo fanno nel week-end, c’è chi mette da parte i soldi se
ci crede, se non ci crede invece dice: non mi hanno dato
i soldi quindi non innovo, ma questo non aiuta.
Recentemente ho partecipato al gruppo di lavoro che ha
lanciato De Maio per far nascere i dipartimenti CNR; ho
dedicato un anno del mio tempo al CNR e mi sono reso
conto che il CNR è staccato dal mondo imprenditoriale.
Il CNR non dialoga con il mondo imprenditoriale e spesso
è autoreferenziale, cioè si inventa cosa deve fare, ma
non lo fa per spocchia lo fa perché gli imprenditori non
gli chiedono nulla, perché non c’è dialogo. Anche il
problema Cina era gia sotto gli occhi di tutti. Le
aziende che lo hanno capito si sono organizzate per
tempo, altre no. Questa è una nazione molle e senza
energia è la reazione è da gente vecchia. Dobbiamo trasmettiamo
energia ai giovani che invece stanno diventando
vecchi.
Nota: di Alberto Perini
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