Il Secolo della Rete

Comunicare l'innovazione

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Inviato da arturo di 13 Nov 2005 - 11:10 PM

''Un’impresa competitiva è un’impresa che innova la sua comunicazione?''
Arturo Di Corinto
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Tutti parlano di innovazione, alcuni la fanno, pochi la comunicano e bene.
E’ una novità? No. In Italia studiosi come Luciano Gallino ed economisti come Marcello De Cecco ce lo ripetono da tempo, individuando in questa aporia la caduta di competitività di un paese, il nostro, mortificato da politiche sbagliate che negli anni ci hanno reso orfani di alcune delle industrie più avanzate dell’occidente industriale, dalla chimica alla farmaceutica, dai computer all’alimentare passando per quella dell’automobile.
Che invece ci siano imprese ancora capaci di innovare ma incapaci di comunicarlo è una tesi meno nota e utile da approfondire.

“Comunicare l’innovazione. Perché il successo del nuovo dipende dalla capacità di spiegarlo” è il titolo e l’intento del libro della Fondazione Cotec (Competitività e Tecnologia) curato da Andrea Granelli, il primo di una collana realizzata in collaborazione col Sole24Ore (a 24 euro), per “sostenere e orientare la capacità innovativa e industriale del nostro paese” cominciando con lo “spiegare l’importanza di comunicare l’innovazione”.

Il libro, che sostiene l’inseparabilità della comunicazione dall’innovazione, è basato su interviste fatte sul campo ai protagonisti dell’innovazione fra l’Italia e la Spagna e con questo obiettivo dà voce a esperti e manager i quali, da prospettive diverse, discutono ruolo, strategie, esempi, della comunicazione applicata alla ricerca, al mercato, ai processi tecnologici.

Però, mentre risulta apprezzabile il carattere didattico di alcuni interventi sul ruolo strategico della comunicazione nella società della conoscenza, con racconti di pratiche virtuose, meno convincenti sono le tesi dei capitani d’impresa che mettono a tema il rapporto fra innovazione e competitività.
Infatti costoro, pur consapevoli dell’importanza di innovare per competere meglio, seppure riconoscono nella scarsa cultura tecnologica e imprenditoriale i difetti e i ritardi del sistema Italia, non se ne assumono la diretta responsabilità, rimpallandola alla politica, e prongono soluzioni di dubbia utilità quando individuano nel sistema brevettuale il rimedio ai rischi dell’economia globalizzata.
Il peana è noto. “L’Italia investe in ricerca e sviluppo poco più dell’1% del PIL, è al settimo posto nella classifica dei paesi OCSE e al diciassettessimo in termini di rapporto con il PIL. […] Senza un forte sistema di ricerca al servizio dell’industria, l’industria stessa arranca e con esso l’intero sistema delle piccole e medie imprese.” A parlare così è Pier Francesco Guargaglini, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica nel suo contributo al libro. Come dargli torto?
Se non si fa ricerca e non si fa sviluppo, non si produce innovazione. Senza la materia prima non si comunica efficacemente neppure se si hanno a disposizione televisioni, radio e quotidiani. In un paese ingessato da riforme inutili del sistema dell’Istruzione e dove il Ministro dell’Università e della Ricerca propone stipendi da fame e impieghi precari a migliaia di ricercatori non si produce né la fiducia né la cultura necessaria a far ripartire il sistema paese. D’altra parte se l’industria investe solo le briciole dei propri profitti in R&D, hai voglia a dire che bisogna fare come al MIT o a Stanford ripetutamente citati da Tronchetti, Viale e Guargaglini. In quei posti l’innovazione procede per osmosi, grazie al rapporto stretto che lega centri di ricerca universitari, business incubators, istituzioni e comunità locali agli imprenditori, e neanche si pone il problema di essere comunicata, perché, come ribadito altrove nel libro, “la migliore comunicazione dell’innovazione è produrre l’innovazione”.

Ma come si fa l’innovazione? Secondo Granelli - che ha una tesi assai diversa da quelli con l’ossessione della protezione intellettuale - riconoscendo da una parte che la libera circolazione delle idee e dei saperi è il prerequisito per utilizzare la conoscenza incorporata in oggetti e processi, facilitando in produttori e utilizzatori la comprensione del valore d’uso dell’innovazione in modo da acquisirne logiche e modalità di funzionamento, e dall’altra superando sia la paura del nuovo che l’ansia “da comprensione”, attraverso un ripensamento complessivo degli strumenti stessi del comunicare. Per lo studioso, infatti, quando spot televisivi e comunicati stampa non bastano più, è importante dialogare coi fruitori dell’innovazione ponendosi in una condizione di ascolto ma anche integrando comunicazione e marketing, “aprendo” il prodotto ai principi del suo funzionamento, disvelando la competenza tecnologica utilizzata e favorendone la formazione, come nel caso dell’Open source e delle licenze libere del tipo Creative commons. Solo così, ci dice, è possibile fare meglio quello che si faceva ieri, e fare oggi quello che ieri era impossibile o impensabile. Cioè innovare.


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