''Un’impresa competitiva è
un’impresa che innova la sua comunicazione?'' Arturo Di
Corinto www.ilsecolodellarete.it
Tutti parlano di
innovazione, alcuni la fanno, pochi la comunicano e bene. E’ una
novità? No. In Italia studiosi come Luciano Gallino ed economisti
come Marcello De Cecco ce lo ripetono da tempo, individuando in
questa aporia la caduta di competitività di un paese, il nostro,
mortificato da politiche sbagliate che negli anni ci hanno reso
orfani di alcune delle industrie più avanzate dell’occidente
industriale, dalla chimica alla farmaceutica, dai computer
all’alimentare passando per quella dell’automobile. Che invece
ci siano imprese ancora capaci di innovare ma incapaci di
comunicarlo è una tesi meno nota e utile da
approfondire.
“Comunicare l’innovazione. Perché il successo
del nuovo dipende dalla capacità di spiegarlo” è il titolo e
l’intento del libro della Fondazione Cotec (Competitività e
Tecnologia) curato da Andrea Granelli, il primo di una collana
realizzata in collaborazione col Sole24Ore (a 24 euro), per
“sostenere e orientare la capacità innovativa e industriale del
nostro paese” cominciando con lo “spiegare l’importanza di
comunicare l’innovazione”.
Il libro, che sostiene
l’inseparabilità della comunicazione dall’innovazione, è basato su
interviste fatte sul campo ai protagonisti dell’innovazione fra
l’Italia e la Spagna e con questo obiettivo dà voce a esperti e
manager i quali, da prospettive diverse, discutono ruolo, strategie,
esempi, della comunicazione applicata alla ricerca, al mercato, ai
processi tecnologici.
Però, mentre risulta apprezzabile il
carattere didattico di alcuni interventi sul ruolo strategico della
comunicazione nella società della conoscenza, con racconti di
pratiche virtuose, meno convincenti sono le tesi dei capitani
d’impresa che mettono a tema il rapporto fra innovazione e
competitività. Infatti costoro, pur consapevoli dell’importanza
di innovare per competere meglio, seppure riconoscono nella scarsa
cultura tecnologica e imprenditoriale i difetti e i ritardi del
sistema Italia, non se ne assumono la diretta responsabilità,
rimpallandola alla politica, e prongono soluzioni di dubbia utilità
quando individuano nel sistema brevettuale il rimedio ai rischi
dell’economia globalizzata. Il peana è noto. “L’Italia investe in
ricerca e sviluppo poco più dell’1% del PIL, è al settimo posto
nella classifica dei paesi OCSE e al diciassettessimo in termini di
rapporto con il PIL. […] Senza un forte sistema di ricerca al
servizio dell’industria, l’industria stessa arranca e con esso
l’intero sistema delle piccole e medie imprese.” A parlare così è
Pier Francesco Guargaglini, presidente e amministratore delegato di
Finmeccanica nel suo contributo al libro. Come dargli torto? Se
non si fa ricerca e non si fa sviluppo, non si produce innovazione.
Senza la materia prima non si comunica efficacemente neppure se si
hanno a disposizione televisioni, radio e quotidiani. In un paese
ingessato da riforme inutili del sistema dell’Istruzione e dove il
Ministro dell’Università e della Ricerca propone stipendi da fame e
impieghi precari a migliaia di ricercatori non si produce né la
fiducia né la cultura necessaria a far ripartire il sistema paese.
D’altra parte se l’industria investe solo le briciole dei propri
profitti in R&D, hai voglia a dire che bisogna fare come al MIT
o a Stanford ripetutamente citati da Tronchetti, Viale e
Guargaglini. In quei posti l’innovazione procede per osmosi, grazie
al rapporto stretto che lega centri di ricerca universitari,
business incubators, istituzioni e comunità locali agli
imprenditori, e neanche si pone il problema di essere comunicata,
perché, come ribadito altrove nel libro, “la migliore comunicazione
dell’innovazione è produrre l’innovazione”.
Ma come si fa
l’innovazione? Secondo Granelli - che ha una tesi assai diversa da
quelli con l’ossessione della protezione intellettuale -
riconoscendo da una parte che la libera circolazione delle idee e
dei saperi è il prerequisito per utilizzare la conoscenza
incorporata in oggetti e processi, facilitando in produttori e
utilizzatori la comprensione del valore d’uso dell’innovazione in
modo da acquisirne logiche e modalità di funzionamento, e dall’altra
superando sia la paura del nuovo che l’ansia “da comprensione”,
attraverso un ripensamento complessivo degli strumenti stessi del
comunicare. Per lo studioso, infatti, quando spot televisivi e
comunicati stampa non bastano più, è importante dialogare coi
fruitori dell’innovazione ponendosi in una condizione di ascolto ma
anche integrando comunicazione e marketing, “aprendo” il prodotto ai
principi del suo funzionamento, disvelando la competenza tecnologica
utilizzata e favorendone la formazione, come nel caso dell’Open
source e delle licenze libere del tipo Creative commons. Solo così,
ci dice, è possibile fare meglio quello che si faceva ieri, e fare
oggi quello che ieri era impossibile o impensabile. Cioè
innovare.
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