FARE ECCELLERE IL TEAM - IMPRESA E SPORT A CONFRONTO

La letteratura sulla leadership ci ha consegnato profili di leader carismatici, naturalmente e quasi geneticamente preposti al ruolo. Eppure recenti indagini su imprenditori o manager di successo mostrano che la maggior parte di essi sono persone “normali”… Cosa ne pensa? Quali sono le caratteristiche principali di un leader del 2000?
Concordo con il fatto che i leader sono tutti persone normali, ma ovviamente un leader è tale se ha l’adeguata preparazione sia in termini di esperienza che di competenze sulle attività a cui è preposto e soprattutto se ha la passione per guidare e muovere il team anche verso mete impossibili. Ad oggi credo che non esista però un unico modello manageriale adatto a tutte le situazioni, ovvero valido per il contesto aziendale commerciale, per quello di ricerca, per quello sportivo, per quello televisivo… però, per amor di sintesi, possiamo dire che le sicure caratteriste principali di un leader sono: avere una vision strategica, sapere gestire la delega con i propri collaboratori, saper fare squadra, comunicare e avere la capacità di adattare la propria comunicazione all’audience, pianificare e programmare gli economics, avere la capacità di negoziazione, saper estrarre il meglio da ciascun collaboratore… certo però che, una delle nuove caratteristiche del leader di oggi è la flessibilità; la capacità di adattare il proprio stile manageriale agli obiettivi strategici ed al contesto mutevole in cui li deve realizzare, è decisamente basilare per ricoprire un ruolo di primo piano.

Walt Disney sosteneva: “Se si può sognare, si può fare”. La visone di Alfred Sloan sul futuro della GM fu plasmata dal modello culturale allora dominante del “sogno americano”. Steve Jobs alla Apple ed Edwin Land alla Polaroid elaborarono le loro vision partendo da procedimenti logici, individuando soprattutto il limite tecnico delle tecnologie in uso. Mc Donald semplicemente osservando le mutate abitudini alimentari disse ai suoi 10 dipendenti “We will sell hamburgers”. Quale è la sua vision e da dove nasce?
La mission di Telecom Italia Lab è l’innovazione nel mondo ICT, con particolare attenzione alla ricerca nelle telecomunicazioni. La nostra vision nasce dalla consapevolezza delle grandi opportunità ancora da esplorare nel campo dei servizi e applicazioni in rete, opportunità da cogliere evitando gli errori di alcuni operatori della new economy e valorizzando l’esperienza che abbiamo nelle tecnologie chiave per il futuro. Dopo lo sgonfiamento della bolla di Internet e con la crisi di molte “dot com” è stato chiaro a tutti che solo le aziende con un consolidato know-how e sani economics possono avere un futuro. Non si deve infatti confondere il fallimento di modelli che non avevano basi solide, con quelle che sono aziende dotate di concrete possibilità di sviluppo grazie alle loro ineccepibili basi economiche e tecnologiche. E’ anche a seguito di ciò che la nostra mission, l’innovazione tecnologica in cui siamo impegnati da decenni, è diventata anche una convinzione sempre più radicata in tutti noi.

Tentare di far comprendere alle persone la visione di un futuro alternativo è una sfida comunicativa di portata completamente diversa rispetto a quella dell’organizzazione delle persone per realizzare un piano a breve termine. L’impegno esige qualcosa di più delle condiscendenza verbale. La visione va resa accessibile e appetibile a vari livelli. Come “vende la sua vision?
Vorrei fare una precisazione: credo che queste siano due sfide differenti sì, ma complementari. Infatti credo proprio che vincere la prima sia strumentale per vincere la seconda…il successo si ottiene nella misura in cui si è in grado di coinvolgere tutti i collaboratori diretti e tutta l’azienda nella visione del futuro; per far ciò si deve comunicare passione ed al contempo dimostrare di essere credibili, altrimenti la squadra difficilmente è disposta ad affrontare e fare propri gli obiettivi impossibili. A tal riguardo noi di TILAB abbiamo proprio affrontato una situazione del genere, quando siamo nati nel marzo 2001. Abbiamo avviato una nuova realtà aziendale, in cui abbiamo innestato alla ricerca, già da decenni mission consolidata e punto di eccellenza del Gruppo Telecom Italia nuove discipline quali l’Interaction Design.. L’impegno di ciascuno ed il successo dei piani a breve termine sono stati raggiunti anche e soprattutto grazie alla condivisione della nuova vision che ha visto tutti in azienda impegnati a far proprio questo progetto ambizioso e di rilevanza per il sistema paese e il settore ICT.

Lao Tzu nel VI sec. a.C. ha così espresso il senso della leadership: “Per guidare uno deve seguire”. Un leader non esiste senza followers, non esiste leadership senza membership. L’approvazione ed il riconoscimento dei collaboratori hanno giocato realmente un ruolo primario nei suoi successi?
Premettendo che un leader deve essere in grado di assumere le proprie responsabilità e proseguire per la sua strada, a volte anche “scomoda” e rischiosa, credo però che la vera leadership sia proprio quella che permetta di trasferire la vision aziendale, unita anche ad una parte di entusiasmo e di partecipazione emotiva nel fare il proprio lavoro, ai collaboratori, creando così una membership proattiva che legittimi e rafforzi la leadership stessa. In quest’ottica diventa fondamentale il feedback, come strumento che arricchisce e rassicura la squadra oltre a permette al leader di tarare al meglio la sua comunicazione.

Cesare Romiti in un recente intervento in occasione della presentazione del libro di Francesco Alberoni “L’arte del comando”, ha detto “un Capo si legittima solo quando prende le decisioni.Il Capo quando prende le decisioni è solo. La solitudine di un Capo si esprime proprio nel momento in cui decide”. Cosa ne pensa?
Sono d’accordo con questa affermazione; in base alla mia personale esperienza possono affermare, infatti, che ci sono alcune decisioni in cui il capo è solo nel senso che, nella gestione di un’azienda, ci sono delle decisioni che spettano a lui solo in termini di responsabilità ed implicazioni. E’ però importante che un capo, per essere un buon leader, sappia individuare le decisioni, con la D maiuscola, che spettano a lui, senza però invadere o vanificare la delega di responsabilità verso i suoi collaboratori, elemento questo che è sempre necessario e su cui si basa il funzionamento di un’azienda complessa ed in grado di operare su più fronti. 

Di norma la vision comporta trasformazioni consistenti che richiedono la collaborazione di tutti i dipendenti, non solo il management. Come ottenere il supporto dei dipendenti quando sacrifici consistenti o addirittura operazioni di ridimensionamento sono condizioni per realizzare la vision?
Questo è un tema decisamente attuale e caldo per molte aziende competitive e attente alla pressione dei mercati finanziari che spingono verso una maggiore efficienza. Credo che un impegno/sacrificio sul piano di breve possa essere collettivamente accettato e condiviso dall’insieme complessivo delle risorse di un’azienda tanto meglio quanto sia stata ben impostata condivisa la vision complessiva. Certo in casi particolarmente “critici” a livello individuale ci possono essere motivate resistenze all’accettazione incondizionata di una vision che implichi sacrifici personali pesanti. In TILAB, nel nome dell’efficienza, siamo però riusciti ad ottenere il supporto dei dipendenti e del management intermedio nella razionalizzazione dei progetti di ricerca e nella focalizzazione delle attività su aree prioritarie per il Gruppo, grazie proprio al coinvolgimento dell’intero team su un grande progetto, in cui ciascuno ha la consapevolezza di giocare un ruolo importante, e grazie ad una comunicazione trasparente sugli obiettivi di sviluppo futuro.

Come sceglie il leader i suoi più stretti collaboratori?
Le motivazioni che mi portano a scegliere un manager come mio collaboratore sono di fatto un mix, che vanno dalla valutazione oggettiva razionale delle sue capacità/competenze necessarie per ricoprire quel dato ruolo, al fatto che credo nello sviluppo delle sue capacità potenziali. Fra i criteri che influiscono sulla scelta però per me sono molto importanti, oltre alla flessibilità al cambiamento, anche il saper correre qualche rischio, per individuare nuove opportunità di business e nuove sfide tecnologiche, e la capacità di saper operare efficientemente ed in modo efficace anche sotto stress. In quest’ottica per me sono fondamentali i team player e non i battitori liberi che, per eccesso di individualismo, possono anche essere dannosi per la creazione dello spirito di squadra stesso.

Non di rado, quanto più il leader è creativo, tanto più le persone dell’organizzazione tendono ad essere esecutive. Qual è , da questa prospettiva, il profilo della sua organizzazione?
Sono d’accordo con il concetto che debba esserci un giusto equilibrio tra la creatività del leader e l’attenzione all’execution dei suoi collaboratori. Nel mio caso reputo molto efficace, per il raggiungimento di un obiettivo sfidante, la traduzione delle mie proposte innovative in azione concrete ed organizzate da parte dei miei più stretti collaboratori. Innovatività e attenzione all’execution sono richieste sia al leader che al manager in senso lato, in un percorso dinamico bottom up e top down. In quest’ottica, in TILAB, per stimolare la produzione di idee da parte di tutti i ricercatori, anche non manager, abbiamo sperimentato il Creative Lab, un progetto strutturato e basato su intranet, per valorizzare e valutare le idee innovative che possono essere potenzialmente proposte da ogni singolo ricercatore, in modo da arricchire la capacità di innovazione della nostra azienda.

P.M. Senge sostiene che “l’indice d’intelligenza del gruppo può essere molto più alto dell’indice di intelligenza dei singoli”. Nella logica delle learning organizations, le organizzazioni del futuro, il team viene considerato come il luogo organizzativo ideale ai fini dell’apprendimento e dello scambio di know-how. Cosa ne pensa? Come si promuove un’organizzazione che apprende?
Noi di TILAB puntiamo all’effetto sinergia singolo/gruppo, ovvero alla creazione tramite opportuni strumenti, quali ad esempio il brainstorming ed il lavoro di gruppo, per esprimere una capacità propositiva che sia maggiore della somma dei singoli apporti. Questo è basilare quando si opera sulla ricerca in aree dei frontiera come Internet o le comunicazioni mobili, dove le competenze di mercato, quelle tecnologiche e di vision strategica devono essere messe insieme per un risultato vincente.

Oscar Wilde sostiene che “chi dice la verità prima o poi viene scoperto”. Cosa deve comunicare un Capo? E cosa non deve comunicare?
Secondo me la trasparenza nel comunicare è essenziale, anche perché premia nel medio termine; sono convinto che si debbano comunicare sempre tutte le scelte, gli indirizzi operativi/organizzativi che provengono dal vertice. E’ però basilare e fondamentale saper scegliere “quando” e “come” comunicare le cose; in quest’ottica credo che un vero leader si riconosca proprio da come sa dare e gestire specialmente le “brutte notizie”. In TILAB seguiamo questa norma: comunicare in maniera accorta e curata, ma comunque sempre.

Riesce a comunicare con le sue seconde e terze linee di riporto? In che modo?
Premesso che in TILAB, la comunicazione, a condizione che sia efficace, avviene anche in senso bottom up e in maniera trasversale/orizzontale, al di là dei livelli gerarchici, o via e-mail, il più frequente strumento di comunicazione, o per telefono, il più immediato, vorrei sottolineare che in genere sulle emergenze o nelle sviluppo di iniziative specifiche di ricerca personalmente comunico sovente con il mio management intermedio e con le singole risorse dedicate. Grazie anche all’aver organizzato la struttura aziendale in progetti, in TILAB è possibile comunicare senza difficoltà su più livelli, andando oltre i limiti ed i vincoli normalmente imposti da una rigida struttura gerarchica.

In quali casi ricorre al colloquio individuale per comunicare? Quando lo considera non utilizzabile?
Ritengo che il colloquio individuale sia necessario, quando si vuole sottolineare un passaggio importante, come il conferimento di un incarico, l’avvio di una nuova iniziativa e progetto, il raggiungimento di un risultato importante; ma ritengo che il colloquio individuale sia anche basilare per affrontare criticità, capire i segnali “deboli” e i momenti di crisi, in cui è necessario motivare la risorsa per re-inserirla nella squadra.

Come reagisce ad un insuccesso?
Credo che gli insuccessi siano presenti nella misura in cui ci si confronta con sfide realmente impegnative; in alcune aree di business l’insuccesso è, quindi, parte stessa del business e del rischio che si deve prendere. Personalmente quello che faccio in caso di un insuccesso, oltre a separare l’errore dalla cattiva fede, è quello di analizzare le motivazioni, cercando di individuare i possibili interventi per limitare in futuro rischi simili. Bisogna cioè capire perché l’insuccesso è capitato, se si può ripresentare e che effetti ha generato. Fra le azioni che consiglio di non mettere in atto in caso di un insuccesso, citerei la ricerca a tutti i costi di un capro espiatorio o, peggio, il voler sdrammatizzare o negare la defaillance subita. Al riguardo i principali investitori di Venture Capital mi hanno insegnato proprio a saper valutare e prendere atto tempestivamente dell’errore, per poterne uscire il più rapidamente possibile, dedicando subito la propria attenzione ed i propri effort alle altre iniziative di business più promettenti e valide.

Se i suoi collaboratori dovessero caratterizzarLa in “due” parole, quali sceglierebbero, secondo lei, tra quelle qui indicate? Creativo, competente, tenace, determinato, efficiente, obiettivo, idealista, relazionale, pragmatico, coinvolgente.
Direi essenzialmente creativo e coinvolgente.

In un contesto di “organizzazione che apprende” (learning organization emerge sempre più la figura del Manager “as a coach” e uno stile manageriale orientato allo sviluppo delle persone che fanno parte della squadra; un Manager che – come il coach, l’allenatore sportivo – affianchi i suoi collaboratori e li aiuti a migliorare e crescere. Cosa pensa della figura del Manager-coach?
Sono concorde con questa visione, tanto che ben si adatta alle nostra figure di capo progetto e di responsabile di struttura organizzativa. Per meglio chiarire, nella Ricerca di TILAB le nostre attività sono state prevalentemente organizzate su base progetto, portando il ruolo del leader/coach ad essere una figura di primo piano che deve saper coordinare il team formato da varie risorse attinte dalle singole funzioni di ricerca ed aventi competenze interdisciplinari e a volte addirittura superiori a quelle dello stesso capo progetto. Reputo quindi che il leader/coach debba attribuire ad ogni persona specifici obiettivi di rendimento, sulla base di un programma di sviluppo predefinito, nonché effettuare un costante monitoraggio e far sì che ogni singola risorsa sia integrata all’interno del team di lavoro.

Fino a che punto può spingersi un capo nell’approfondimento della sfera privata dei collaboratori? Condivide l’affermazione che il capo migliore sia quello che i francesi chiamano ainè, il fratello maggiore?
Ritengo che la sfera privata vada gestita con cautela e la si debba tenere ben distinta da quella lavorativa; ovviamente però, dal momento che siamo un popolo mediterraneo, per la nostra stessa natura e matrice culturale siamo soliti partecipare alle aspettative ed emozioni di chi ci è vicino nella vita lavorativa , ma sempre senza dimenticare il rispetto della privacy. E’ peraltro chiaro che in un contesto lavorativo se è il collaboratore a portare il discorso sulla sua sfera privata, un leader, in questo caso, deve dimostrare sempre disponibilità al dialogo e all’ascolto, evitare un coinvolgimento ma non respingere il colloquio, anche perché, sovente, è da incontri/dialoghi di questo tipo che possono nascere elementi per motivare la risorsa sul piano professionale. Bisogna cioè saper usare il cosiddetto “sesto senso psicologico”, non per psicoanalizzare le persone, ma per usare gli insegnamenti della psicologia in maniera intelligente; questo per capire meglio le persone, perché, conoscendone le debolezze, si possono mettere in condizione di lavorare meglio. Fondamentalmente non sono però d’accordo con l’identificare il ruolo del leader con quello del fratello maggiore, perché la relazione tra fratelli è più profonda e complessa di quella che è e deve essere la relazione tra capo e collaboratore. 

L’approccio dell’ascolto attivo e dell’empatia è ritenuto uno strumento molto efficace per la gestione del team (aspetti motivazionali, integrazione/gestione dei conflitti etc…), ma è altrettanto vero che i capi “meno attenti” e dirigisti riescono comunque ad ottenere risultati apprezzabili. Quale è la sua opinione al riguardo?
E’ importante mediare, cioè avere la sensibilità e saper gestire con molta attenzione le persone, saper capire le difficoltà dei singoli, saper ascoltare, ma anche essere orientati al raggiungimento degli obiettivi prefissati che non devono mai essere persi di vista. Se quindi non sono d’accordo con i leader poco attenti agli aspetti soft emozionali, al contempo non reputo vincente chi prosegua dritto per la sua strada trascurando di coltivare e alimentare l’empatia con gli altri membri del team. Sono infatti convinto che in generale le persone vogliono sia essere ascoltate e rassicurate, ma al contempo anche guidate; l’obiettivo è quindi il raggiungimenti di un giusto mix tra questi comportamenti.

Ha mai utilizzato eventi negativi o minacce esterne come opportunità per cementare lo spirito di gruppo?
Più che eventi negativi, direi che quello che ho utilizzato per ”far squadra” siano state forti sfide su obiettivi realmente complessi e difficili da raggiungere, come nel casi del Future Centre di Venezia, l’esibizione permanente sulle telecomunicazioni voluta da Telecom Italia, che ha visto impegnate, oltre ai ricercatori TILAB, anche altri professionisti esterni ed interni l mondo ICT; in questo caso si è creato un vero e proprio gruppo di lavoro multidisciplinare che, fortemente motivato nel raggiungimento di questo obiettivo sfidante, ha lavorato per la prima volta insieme per mesi. L’attenzione su una realizzazione così articolata e complessa, ha infatti portato, anche attraverso momenti di tensione, a cementare lo spirito di gruppo e la collaborazione tra i singoli.

Come gestisce i talenti?
In TILAB i talenti sono numerosi e rappresentati in particolare da quei ricercatori e manager che sono in grado di dare un contributo innovativo ed originale all’uso delle tecnologie nei sistemi e servizi di telecomunicazione. Premesso questo, vorrei precisare che la gestione dei “nostri” talenti avviene non solo tramite i canali tradizionali, come la continua formazione, ma anche per vie diverse. In TILAB siamo convinti che il favorire la visibilità interna ed esterna dei “talenti”, consentendo loro di operare nel modo più rapido possibile, sveltendo cioè i passi burocratici tipici di una struttura delle attività per progetti, siano strumenti essenziali di gestione della risorsa preziosa, che rimane tale, se viene messa nella condizione di poter procedere quanto prima alla realizzazione della sua iniziativa/progetto di ricerca, il cui time to market è per tutti noi strategico. In una grande azienda, infatti, uno dei rischi più grossi in questo campo, è proprio quello di ingabbiare i talenti in processi burocratici e in un macchina organizzativa che tende a lasciare poco spazio all’iniziativa del singolo.

Come gestisce i trouble makers?
Dobbiamo distinguere tra coloro che creano difficoltà in maniera gratuita e che non aderiscono agli obiettivi dell’azienda e coloro che, in ottica costruttiva, assumono posizioni di critica circostanziata. Se i primi rappresentano di fatto un problema gestionale da affrontare con accortezza, nel senso che devono essere messi in condizione di non rallentare l’attività dell’azienda impegnata in positivo, ai secondi dedico molta attenzione nella misura in cui, con spirito critico, ma non polemico o eccessivamente pessimistico, pongono costruttivamente l’attenzione su aspetti/processi aziendali con la finalità di migliorare l’operatività stessa. A tal riguardo vorrei ricordare che Shakespeare sosteneva che quando un capo non ascolta più i “foul”, cioè i buffoni che, proprio per il loro ruolo “fuori”, possono permettersi di dire le grandi verità, scompare il senso critico ed è l’inizio delle fine.

Come premia un successo e come reagisce ad un insuccesso di un suo collaboratore?
Credo che il successo, specie quello conseguito a valle di un raggiungimento di un obiettivo importante o a seguito di una proposta di un’idea di ricerca innovativa, vada sempre premiato, non solo riconoscendolo apertamente come tale, ma anche utilizzando opportunamente i sistemi di incentivazione e con opportunità di crescita professionale. Nel caso invece di un insuccesso sono solito esaminare insieme ai miei collaboratori le motivazioni che stanno dietro questo ed in molti casi sono pronto a concedere una seconda opportunità, perché il collaboratore possa provare le sue capacità e riprendere fiducia in se stesso.

L’azienda vincente è composta da fuoriclasse?
L’azienda vincente deve avere dei fuoriclasse, ma deve anche saper valorizzare e trarre il meglio da tutta la squadra, nella quale un ruolo fondamentale è svolto anche da chi ricopre ruoli più operativi.

Chris Argyris, docente di management ad Harvard, parla del management team come di un mito, rilevando come in realtà “sotto pressione la maggior parte dei gruppi di dirigenti si sgretola”. I team, per funzionare correttamente, richiederebbero una buona dose di self-leadership, vale a dire la possibilità e capacità di un’effettiva autogestione. Cosa pensa al riguardo?
Sono d’accordo sulla self leadership, ovvero sulla capacità dei singoli e dei team di auto-gestirsi e di reagire alle difficoltà e alla pressione, che spesso deriva dall’operare in situazioni critiche per raggiungere obiettivi sfidanti. Non sono però pienamente d’accordo sull’assunto che sotto pressione i manager si sgretolino in maniera inequivocabile, perché credo che anzi la pressione faccia parte del nostro “modus operandi”, ovvero del contesto altamente competitivo nel quale siamo chiamati a svolgere la nostra attività professionale.

Considera il ruolo di un manager più vicino a quello del direttore di un’orchestra sinfonica, dello skipper di una barca da competizione o dell’allenatore di una squadra di calcio?
Senza ombra di dubbio direi che noi manager di TILAB siamo più simili allo skipper di una barca da competizione. Mi piace essere paragonati all’amico Giovanni Soldini, che da anni come TILAB supportiamo sul piano tecnologico nelle sue prodigiose regate oltreoceano. Come un buono skipper deve saper guardare sempre lontano, anche noi infatti siamo portati, nella previsione del futuro tecnologico, alla creazione di sistemi e servizi di telecomunicazioni che soddisfino non solo i bisogni di comunicazione dell’oggi ma anche quelli del domani. Dobbiamo essere sempre flessibili e pronti per poter adattare immediatamente la rotta della barca/azienda al variare delle condizioni atmosferiche/di mercato; dobbiamo saper gestire, anche in situazioni critiche, un team di persone competenti e che, spesso nelle singole tematiche, potrebbero essere “dei battitori liberi” che però, in un’ottica di business vincente, devono essere inseriti in una squadra con un’unica meta…se così non fossimo non potremmo sviluppare l’innovazione. E poi, per chiudere con una battuta, noi skipper possiamo anche accettare qualche “stecca” da parte dei membri dell’equipaggio, che credo difficilmente possa essere sopportata da un direttore d’orchestra!

Uno degli autori di questo questionario-guida ha osservato “il manager impegnato a fare coaching quando realizza i risultati”? Cosa risponde alla provocazione?
Premesso che è indubbio che fare coaching aiuti a raggiungere i risultati, e che è basilare il learning by doing, al contrario non è invece certo che il conseguimento di un risultato implichi necessariamente lo spirito di squadra. In altre parole credo che l’attenzione esclusiva ai risultati, se non ben bilanciata con la valorizzazione dell’apporto dato dalla squadra al risultato conseguito, possa in qualche caso produrre anche un effetto negativo sul team stesso. Al contrario il coaching aiuta nei risultati a breve e fa crescere le individualità e la squadra per le sfide future.