Walt Disney sosteneva:
“Se si può sognare, si può fare”. La visone di Alfred Sloan sul futuro
della GM fu plasmata dal modello culturale allora dominante del “sogno
americano”. Steve Jobs alla Apple ed Edwin Land alla Polaroid elaborarono
le loro vision partendo da procedimenti logici, individuando soprattutto il
limite tecnico delle tecnologie in uso. Mc Donald semplicemente osservando
le mutate abitudini alimentari disse ai suoi 10 dipendenti “We will sell
hamburgers”. Quale è la sua vision e da dove nasce?
La mission di Telecom Italia
Lab è l’innovazione nel mondo ICT, con particolare attenzione alla
ricerca nelle telecomunicazioni. La nostra vision nasce dalla
consapevolezza delle grandi opportunità ancora da esplorare nel campo dei
servizi e applicazioni in rete, opportunità da cogliere evitando gli errori
di alcuni operatori della new economy e valorizzando l’esperienza che
abbiamo nelle tecnologie chiave per il futuro.
Dopo lo sgonfiamento della bolla di Internet e con la crisi di molte
“dot com” è stato chiaro a tutti che solo le aziende con un consolidato
know-how e sani economics possono avere un futuro. Non si deve infatti
confondere il fallimento di modelli che non avevano basi solide, con quelle
che sono aziende dotate di concrete possibilità di sviluppo grazie alle
loro ineccepibili basi economiche e tecnologiche. E’ anche a seguito di ciò
che la nostra mission, l’innovazione tecnologica in cui siamo impegnati da
decenni, è diventata anche una convinzione sempre più radicata in tutti
noi.
Tentare di far
comprendere alle persone la visione di un futuro alternativo è una sfida
comunicativa di portata completamente diversa rispetto a quella
dell’organizzazione delle persone per realizzare un piano a breve termine.
L’impegno esige qualcosa di più delle condiscendenza verbale. La visione
va resa accessibile e appetibile a vari livelli. Come “vende la sua
vision?
Vorrei fare una precisazione: credo che queste siano
due sfide differenti sì, ma complementari. Infatti credo proprio che vincere la prima sia strumentale per vincere la seconda…il successo
si ottiene nella misura in cui si è in grado di coinvolgere tutti i
collaboratori diretti e tutta l’azienda nella visione del futuro; per far
ciò si deve comunicare passione ed al contempo dimostrare di essere
credibili, altrimenti la squadra difficilmente è disposta ad affrontare e
fare propri gli obiettivi impossibili. A tal riguardo noi di TILAB abbiamo
proprio affrontato una situazione
del genere, quando siamo nati nel marzo 2001. Abbiamo avviato una nuova
realtà aziendale, in cui abbiamo innestato alla ricerca, già da decenni
mission consolidata e punto di eccellenza del Gruppo Telecom Italia nuove
discipline quali l’Interaction Design.. L’impegno di ciascuno ed il
successo dei piani a breve termine sono stati raggiunti anche e soprattutto
grazie alla condivisione della nuova vision che ha visto tutti in azienda
impegnati a far proprio questo progetto ambizioso e di rilevanza per il
sistema paese e il settore ICT.
Lao Tzu nel VI sec. a.C.
ha così espresso il senso della leadership: “Per guidare uno deve
seguire”. Un leader non esiste senza followers, non esiste leadership
senza membership. L’approvazione ed il riconoscimento dei collaboratori
hanno giocato realmente un ruolo primario nei suoi successi?
Premettendo che un leader
deve essere in grado di assumere le proprie responsabilità e proseguire per
la sua strada, a volte anche “scomoda” e rischiosa, credo però che la
vera leadership sia proprio
quella che permetta di trasferire la vision aziendale, unita anche ad una
parte di entusiasmo e di partecipazione emotiva nel fare il proprio lavoro,
ai collaboratori, creando così una membership proattiva che legittimi e
rafforzi la leadership stessa. In quest’ottica diventa fondamentale il
feedback, come strumento che arricchisce e rassicura la squadra oltre a
permette al leader di tarare al meglio la sua comunicazione.
Cesare Romiti in un
recente intervento in occasione della presentazione del libro di Francesco
Alberoni “L’arte del comando”, ha detto “un Capo si legittima solo
quando prende le decisioni.Il Capo quando prende le decisioni è solo. La
solitudine di un Capo si esprime proprio nel momento in cui decide”. Cosa
ne pensa?
Sono d’accordo con questa
affermazione; in base alla mia personale esperienza possono affermare,
infatti, che ci sono alcune decisioni in cui il capo è solo nel senso che,
nella gestione di un’azienda, ci sono delle decisioni che spettano a lui
solo in termini di responsabilità ed implicazioni. E’ però importante
che un capo, per essere un buon leader, sappia individuare le decisioni, con
la D maiuscola, che spettano a
lui, senza però invadere o vanificare la delega di responsabilità verso i
suoi collaboratori, elemento questo che è sempre necessario e su cui si
basa il funzionamento di un’azienda complessa ed in grado di operare su più
fronti.
Di norma la vision
comporta trasformazioni consistenti che richiedono la collaborazione di
tutti i dipendenti, non solo il management.
Come ottenere il supporto dei dipendenti quando sacrifici consistenti o
addirittura operazioni di ridimensionamento sono condizioni per realizzare
la vision?
Questo è un tema decisamente attuale e caldo per molte aziende competitive e attente
alla pressione dei mercati finanziari che spingono verso una maggiore
efficienza. Credo che un impegno/sacrificio sul piano di breve possa essere
collettivamente accettato e condiviso dall’insieme complessivo delle
risorse di un’azienda tanto meglio quanto sia stata ben impostata
condivisa la vision complessiva. Certo in casi particolarmente “critici”
a livello individuale ci possono essere motivate resistenze
all’accettazione incondizionata di una vision che implichi sacrifici
personali pesanti. In TILAB, nel nome dell’efficienza, siamo però
riusciti ad ottenere il supporto dei dipendenti e del management intermedio
nella razionalizzazione dei progetti di ricerca e nella focalizzazione delle
attività su aree prioritarie per il Gruppo, grazie proprio al
coinvolgimento dell’intero team su un grande progetto, in cui ciascuno ha
la consapevolezza di giocare un ruolo importante, e grazie ad una
comunicazione trasparente sugli obiettivi di sviluppo futuro.
Come sceglie il leader
i suoi più stretti collaboratori?
Le motivazioni che mi
portano a scegliere un manager come mio collaboratore sono di fatto un mix,
che vanno dalla valutazione oggettiva razionale
delle sue capacità/competenze necessarie per ricoprire quel dato ruolo, al
fatto che credo nello sviluppo delle sue capacità potenziali. Fra i criteri
che influiscono sulla scelta però per me sono molto importanti, oltre alla
flessibilità al cambiamento, anche il
saper correre qualche rischio, per individuare nuove opportunità di
business e nuove sfide tecnologiche, e la capacità di saper operare
efficientemente ed in modo efficace anche sotto stress. In quest’ottica
per me sono fondamentali i team player e non i battitori liberi che, per
eccesso di individualismo, possono anche essere dannosi per la creazione
dello spirito di squadra stesso.
Non di rado, quanto più
il leader è creativo, tanto più le persone dell’organizzazione tendono
ad essere esecutive. Qual è , da questa prospettiva, il profilo della sua
organizzazione?
Sono d’accordo con il
concetto che debba esserci un giusto equilibrio tra la creatività del
leader e l’attenzione all’execution dei suoi collaboratori. Nel mio caso
reputo molto efficace, per il raggiungimento di un obiettivo sfidante, la
traduzione delle mie proposte innovative in azione concrete ed organizzate
da parte dei miei più stretti collaboratori. Innovatività e attenzione
all’execution sono richieste sia al leader che al manager in senso lato,
in un percorso dinamico bottom up e top down. In quest’ottica, in TILAB,
per stimolare la produzione di idee da parte di tutti i ricercatori, anche
non manager, abbiamo sperimentato il Creative Lab, un progetto strutturato e
basato su intranet, per valorizzare e valutare le idee innovative che
possono essere potenzialmente proposte da ogni singolo ricercatore, in modo
da arricchire la capacità di innovazione della nostra azienda.
P.M. Senge sostiene che
“l’indice d’intelligenza del gruppo può essere molto più alto
dell’indice di intelligenza dei singoli”. Nella logica delle learning
organizations, le organizzazioni del futuro, il team viene considerato come
il luogo organizzativo ideale ai fini dell’apprendimento e dello scambio
di know-how. Cosa ne pensa? Come si promuove un’organizzazione che
apprende?
Noi di TILAB puntiamo
all’effetto sinergia singolo/gruppo, ovvero alla creazione tramite
opportuni strumenti, quali ad
esempio il brainstorming ed il lavoro di gruppo, per esprimere una capacità
propositiva che sia maggiore della somma dei singoli apporti. Questo è
basilare quando si opera sulla ricerca in aree dei frontiera come Internet o
le comunicazioni mobili, dove le competenze di mercato, quelle tecnologiche
e di vision strategica devono essere messe insieme per un risultato
vincente.
Oscar Wilde sostiene
che “chi dice la verità prima o poi viene scoperto”. Cosa deve
comunicare un Capo? E cosa non deve comunicare?
Secondo me la trasparenza
nel comunicare è essenziale, anche perché premia nel medio termine; sono
convinto che si debbano comunicare sempre tutte le scelte, gli indirizzi
operativi/organizzativi che provengono dal vertice. E’ però basilare e
fondamentale saper scegliere “quando” e “come” comunicare le cose;
in quest’ottica credo che un vero leader si riconosca proprio da come sa
dare e gestire specialmente le “brutte notizie”. In TILAB seguiamo
questa norma: comunicare in maniera accorta e curata, ma comunque sempre.
Riesce a comunicare con
le sue seconde e terze linee di riporto? In che modo?
Premesso che in TILAB, la
comunicazione, a condizione che sia efficace, avviene anche in senso bottom
up e in maniera trasversale/orizzontale, al di là dei livelli gerarchici, o
via e-mail, il più frequente strumento di comunicazione, o per telefono, il
più immediato, vorrei sottolineare che in genere sulle emergenze o nelle
sviluppo di iniziative
specifiche di ricerca personalmente comunico sovente con il mio management
intermedio e con le singole risorse dedicate. Grazie anche all’aver
organizzato la struttura aziendale in progetti, in TILAB è possibile
comunicare senza difficoltà su più livelli, andando oltre i limiti ed i
vincoli normalmente imposti da una rigida struttura gerarchica.
In quali casi ricorre
al colloquio individuale per comunicare? Quando lo considera non
utilizzabile?
Ritengo che il colloquio
individuale sia necessario, quando si vuole sottolineare un passaggio
importante, come il conferimento di un incarico, l’avvio di una nuova
iniziativa e progetto, il raggiungimento di un risultato importante; ma
ritengo che il colloquio individuale sia anche basilare per affrontare criticità, capire i segnali “deboli” e i
momenti di crisi, in cui è necessario motivare la risorsa per re-inserirla
nella squadra.
Come reagisce ad un
insuccesso?
Credo che gli insuccessi siano presenti nella misura in cui ci si confronta con sfide
realmente impegnative; in alcune aree di business l’insuccesso è, quindi,
parte stessa del business e del rischio che si deve prendere. Personalmente
quello che faccio in caso di un insuccesso, oltre a separare l’errore
dalla cattiva fede, è quello di analizzare le motivazioni, cercando di
individuare i possibili interventi per limitare in futuro rischi simili. Bisogna cioè capire perché l’insuccesso è capitato, se
si può ripresentare e che effetti ha generato. Fra le azioni che consiglio
di non mettere in atto in caso di un insuccesso, citerei la ricerca a tutti
i costi di un capro espiatorio
o, peggio, il voler sdrammatizzare o negare la defaillance subita. Al
riguardo i principali investitori di Venture Capital mi hanno insegnato
proprio a saper valutare e prendere atto tempestivamente dell’errore, per
poterne uscire il più rapidamente possibile, dedicando subito la propria
attenzione ed i propri effort alle altre iniziative di business più
promettenti e valide.
Se i suoi collaboratori
dovessero caratterizzarLa in “due” parole, quali sceglierebbero, secondo
lei, tra quelle qui indicate? Creativo, competente, tenace, determinato,
efficiente, obiettivo, idealista, relazionale, pragmatico, coinvolgente.
Direi essenzialmente
creativo e coinvolgente.
In un contesto di
“organizzazione che apprende” (learning organization emerge sempre più
la figura del Manager “as a coach” e uno stile manageriale orientato
allo sviluppo delle persone che fanno parte della squadra; un Manager che
– come il coach, l’allenatore sportivo – affianchi i suoi
collaboratori e li aiuti a migliorare e crescere. Cosa pensa della figura
del Manager-coach?
Sono concorde con questa
visione, tanto che ben si adatta alle nostra figure di capo progetto e di
responsabile di struttura organizzativa. Per meglio chiarire, nella Ricerca
di TILAB le nostre attività sono state prevalentemente organizzate su base
progetto, portando il ruolo del leader/coach ad essere una figura di primo
piano che deve saper coordinare il team formato da varie risorse attinte
dalle singole funzioni di ricerca ed aventi competenze interdisciplinari e a
volte addirittura superiori a quelle dello stesso capo progetto. Reputo
quindi che il leader/coach debba attribuire ad ogni persona specifici
obiettivi di rendimento, sulla base di un programma di sviluppo predefinito,
nonché effettuare un costante monitoraggio e far sì che ogni singola
risorsa sia integrata all’interno del team di lavoro.
Fino a che punto può
spingersi un capo nell’approfondimento della sfera privata dei
collaboratori? Condivide l’affermazione che il capo migliore sia quello
che i francesi chiamano ainè, il fratello maggiore?
Ritengo che la sfera privata vada gestita con
cautela e la si debba tenere ben distinta da quella lavorativa; ovviamente
però, dal momento che siamo un popolo mediterraneo, per la nostra stessa
natura e matrice culturale siamo soliti partecipare alle aspettative ed
emozioni di chi ci è vicino nella vita lavorativa , ma sempre senza
dimenticare il rispetto della privacy. E’ peraltro chiaro che in un
contesto lavorativo se è il collaboratore a portare il discorso sulla sua
sfera privata, un leader, in questo caso, deve dimostrare sempre
disponibilità al dialogo e all’ascolto, evitare un coinvolgimento ma non
respingere il colloquio, anche perché, sovente, è da incontri/dialoghi di
questo tipo che possono nascere elementi per motivare la risorsa sul piano
professionale. Bisogna cioè saper usare il cosiddetto “sesto senso
psicologico”, non per psicoanalizzare le persone, ma per usare gli
insegnamenti della psicologia in maniera intelligente; questo per capire
meglio le persone, perché, conoscendone le debolezze, si possono mettere in
condizione di lavorare meglio. Fondamentalmente non sono però d’accordo
con l’identificare il ruolo
del leader con quello del fratello maggiore, perché la relazione tra
fratelli è più profonda e complessa di quella che è e deve essere la
relazione tra capo e collaboratore.
L’approccio
dell’ascolto attivo e dell’empatia è ritenuto uno strumento molto
efficace per la gestione del team (aspetti motivazionali,
integrazione/gestione dei conflitti etc…), ma è altrettanto vero che i
capi “meno attenti” e dirigisti riescono comunque ad ottenere risultati
apprezzabili. Quale è la sua opinione al riguardo?
E’ importante mediare, cioè
avere la sensibilità e saper gestire con molta attenzione le persone, saper
capire le difficoltà dei singoli, saper ascoltare, ma anche essere
orientati al raggiungimento degli obiettivi prefissati che non devono mai
essere persi di vista. Se quindi non sono d’accordo con i leader poco
attenti agli aspetti soft emozionali, al contempo non reputo vincente chi
prosegua dritto per la sua strada trascurando di coltivare e alimentare
l’empatia con gli altri membri del team. Sono infatti convinto che in generale le persone vogliono sia essere
ascoltate e rassicurate, ma al contempo anche guidate; l’obiettivo è
quindi il raggiungimenti di un giusto mix tra questi comportamenti.
Ha mai utilizzato eventi negativi o minacce
esterne come opportunità per cementare lo spirito di gruppo?
Più che eventi negativi,
direi che quello che ho utilizzato per ”far squadra” siano state forti
sfide su obiettivi realmente complessi e difficili da raggiungere, come nel
casi del Future Centre di Venezia, l’esibizione permanente sulle
telecomunicazioni voluta da Telecom Italia, che ha visto impegnate, oltre ai
ricercatori TILAB, anche altri professionisti esterni ed interni l mondo ICT;
in questo caso si è creato un vero e proprio gruppo di lavoro
multidisciplinare che, fortemente motivato nel raggiungimento di questo
obiettivo sfidante, ha lavorato per la prima volta insieme per mesi.
L’attenzione su una realizzazione così articolata e complessa, ha infatti
portato, anche attraverso momenti di tensione, a cementare lo spirito di
gruppo e la collaborazione tra i singoli.
Come gestisce i talenti?
In TILAB i talenti sono numerosi e rappresentati in
particolare da quei ricercatori e manager che sono in grado di dare un
contributo innovativo ed originale all’uso delle tecnologie nei sistemi e
servizi di telecomunicazione. Premesso questo, vorrei precisare che la
gestione dei “nostri” talenti avviene non solo tramite i canali
tradizionali, come la continua formazione, ma anche per vie diverse. In
TILAB siamo convinti che il favorire la visibilità interna ed esterna dei
“talenti”, consentendo loro di operare nel modo più rapido possibile,
sveltendo cioè i passi burocratici tipici di una struttura delle attività
per progetti, siano strumenti essenziali di gestione della risorsa preziosa,
che rimane tale, se viene messa nella condizione di poter procedere quanto
prima alla realizzazione della sua iniziativa/progetto di ricerca, il cui
time to market è per tutti noi strategico. In una grande azienda, infatti,
uno dei rischi più grossi in questo campo, è proprio quello di ingabbiare
i talenti in processi burocratici e in un macchina organizzativa che tende a
lasciare poco spazio all’iniziativa del singolo.
Come gestisce i trouble
makers?
Dobbiamo distinguere tra coloro che creano difficoltà in maniera gratuita e che non aderiscono agli obiettivi
dell’azienda e coloro che, in ottica costruttiva, assumono posizioni di
critica circostanziata. Se i primi rappresentano di fatto un problema
gestionale da affrontare con accortezza, nel senso che devono essere messi
in condizione di non rallentare l’attività dell’azienda impegnata in
positivo, ai secondi dedico molta attenzione nella misura in cui, con
spirito critico, ma non polemico o eccessivamente pessimistico, pongono
costruttivamente l’attenzione su aspetti/processi aziendali con la finalità
di migliorare l’operatività stessa. A tal riguardo vorrei ricordare che
Shakespeare sosteneva che quando un capo non ascolta più i “foul”, cioè
i buffoni che, proprio per il loro ruolo “fuori”, possono permettersi di
dire le grandi verità, scompare il senso critico ed è l’inizio delle
fine.
Come premia un successo e
come reagisce ad un insuccesso di un suo collaboratore?
Credo che il successo,
specie quello conseguito a valle di un raggiungimento di un obiettivo
importante o a seguito di una proposta di un’idea di ricerca innovativa,
vada sempre premiato, non solo riconoscendolo apertamente come tale, ma
anche utilizzando opportunamente i sistemi di incentivazione e con
opportunità di crescita professionale. Nel caso invece di un insuccesso
sono solito esaminare insieme ai miei collaboratori le motivazioni che
stanno dietro questo ed in molti casi sono pronto a concedere una seconda
opportunità, perché il collaboratore possa provare le sue capacità e
riprendere fiducia in se stesso.
L’azienda vincente è composta da fuoriclasse?
L’azienda vincente deve avere dei fuoriclasse, ma
deve anche saper valorizzare e trarre il meglio da tutta la squadra, nella
quale un ruolo fondamentale è svolto anche da chi ricopre ruoli più
operativi.
Chris Argyris, docente di management ad Harvard,
parla del management team come di un mito, rilevando come in realtà
“sotto pressione la maggior parte dei gruppi di dirigenti si sgretola”.
I team, per funzionare correttamente, richiederebbero una buona dose di
self-leadership, vale a dire la possibilità e capacità di un’effettiva
autogestione. Cosa pensa al riguardo?
Sono d’accordo sulla self
leadership, ovvero sulla capacità dei singoli e dei team di auto-gestirsi e
di reagire alle difficoltà e alla pressione, che spesso deriva
dall’operare in situazioni critiche per raggiungere obiettivi sfidanti.
Non sono però pienamente d’accordo sull’assunto che sotto pressione i
manager si sgretolino in maniera inequivocabile, perché credo che anzi la pressione faccia parte del nostro “modus operandi”,
ovvero del contesto altamente competitivo nel quale siamo chiamati a
svolgere la nostra attività professionale.
Considera il ruolo di
un manager più vicino a quello del direttore di un’orchestra sinfonica,
dello skipper di una barca da competizione o dell’allenatore di una
squadra di calcio?
Senza ombra di dubbio direi
che noi manager di TILAB siamo più simili allo skipper di una barca da
competizione. Mi piace essere
paragonati all’amico Giovanni Soldini, che da anni come TILAB supportiamo sul piano tecnologico nelle sue
prodigiose regate oltreoceano. Come un buono skipper deve saper guardare
sempre lontano, anche noi infatti siamo portati, nella previsione del futuro
tecnologico, alla creazione di sistemi e servizi di telecomunicazioni che
soddisfino non solo i bisogni di comunicazione dell’oggi ma anche quelli
del domani. Dobbiamo essere sempre flessibili e pronti per poter adattare
immediatamente la rotta della barca/azienda al variare delle condizioni
atmosferiche/di mercato; dobbiamo saper gestire, anche in situazioni
critiche, un team di persone competenti e che, spesso nelle singole
tematiche, potrebbero essere “dei battitori liberi” che però, in
un’ottica di business vincente, devono essere inseriti in una squadra con
un’unica meta…se così non fossimo non potremmo sviluppare
l’innovazione. E poi, per chiudere con una
battuta, noi skipper possiamo anche accettare qualche “stecca” da parte
dei membri dell’equipaggio, che credo difficilmente possa essere
sopportata da un direttore d’orchestra!
Uno degli autori di questo questionario-guida ha
osservato “il manager impegnato a fare coaching quando realizza i risultati”? Cosa risponde alla
provocazione?
Premesso che è indubbio che fare coaching aiuti a
raggiungere i risultati, e che è basilare il learning by doing, al
contrario non è invece certo che il conseguimento di un risultato implichi
necessariamente lo spirito di squadra. In altre parole credo che
l’attenzione esclusiva ai risultati, se non ben bilanciata con la
valorizzazione dell’apporto dato dalla squadra al risultato conseguito,
possa in qualche caso produrre anche un effetto negativo sul team stesso. Al
contrario il coaching aiuta nei risultati a breve e fa crescere le
individualità e la squadra per le sfide future.