Andrea Granelli: Governare l'innovazione. Cosa è necessario perché lo
sviluppo tecnico si trasformi in crescita dell'economia e della qualità della
vita
L’invenzione è un fatto tecnico; l’innovazione è un fatto sociale ed economico.
Non è sufficiente aver inventato una tecnologia promettente per aver innovato.
Bisogna che questa tecnologia cambi effettivamente la vita della gente o il modo
di operare delle aziende.
Per questo motivo l’innovazione richiede un approccio collettivo. Innovare non è
responsabilità esclusiva dei ricercatori, ma è un processo diffuso, che deve
coinvolgere tutta l’organizzazione di un’azienda e – come i distretti hanno
dimostrato – addirittura di un territorio intero. Quest’attività corale non è
naturalmente casuale ed episodica, ma richiede un certo grado di pianificazione
e la predisposizione di occasioni di interazione e collaborazione. Devono
infatti interagire fra loro i centri di ricerca pubblici, le università, le
imprese, ma anche i clienti e la pubblica amministrazione che deve, tra l’altro,
assicurare che siano disponibili i servizi di base e le infrastrutture
necessarie.
Ci vuole un coordinamento – non nel senso di un dirigismo centralizzato che
pianifica e controlla – quanto piuttosto di una “cabina di regia” che crea
occasioni di confronto, aiuta a condividere dati, informazioni e punti di vista,
si fa carico di produrre scenari congiunturali. Ma deve anche garantire aspetti
più concreti: non solo le infrastrutture di cui parlavamo poc’anzi, ma anche
strumenti per facilitare la conservazione e condivisione di saperi ed
esperienze. Più specificamente, deve rendere disponibili piattaforme
tecnologiche che consentano la nascita delle cosiddette “comunità di pratica”,
elementi essenziali per il sano sviluppo economico di un distretto. Queste
comunità – veri e propri strumenti di "socializzazione" delle conoscenze – sono
parte integrante – insieme agli incubatori di impresa, al trasferimento
tecnologico e al finanziamento delle iniziative innovative – di ciò che potremmo
chiamare la ricerca e sviluppo condivisa di un distretto.
Vi sono altre funzioni che devono essere svolte da questa entità “coordinatrice”
super partes in modo da contenere il più possibile le criticità legate alle
carenze dimensionali del nostro tessuto produttivo, senza però rincorrere la
chimera della grande azienda, ma rispettando le specificità di tali aziende.
Inseguire il gigantismo aziendale è più una conseguenza della vecchia cultura
industriale, che vedeva nelle economie di scala, nella cultura “tayloristica”,
nella standardizzazione dei prodotti i principali fattori competitivi e male si
applica al nuovo contesto economico, caratterizzato da complessità, incertezza,
innovazione continua, aumentato potere del consumatore e che quindi premia
modelli a rete e aziende flessibili.
Una funzione fondamentale è per esempio la formazione avanzata, soprattutto
quella relativa alle nuove competenze, quelle cioè non ancora codificate dalle
aziende e dalle strutture formative tradizionali (e men che meno dai “cacciatori
di teste” – sempre ultimi ad allinearsi ai nuovi profili professionali). Si
pensi ad esempio al design dei servizi, evoluzione di quel design di prodotto
che ha fatto grande il made-in-Italy, ma applicato al contesto della nuova
economica post-industriale, pervasa dalle nuove tecnologie digitali, nuova anima
dei prodotti fisici. Queste figure sono sempre più importanti ma vi sono
pochissime scuole che li formano e la consapevolezza della loro importanza è
ancora meno diffusa.
Per questi motivi l’Assessorato regionale per l’innovazione è una grande
opportunità di sviluppo, che deve essere perseguita con la massima tempestività
ed efficacia. Non solo per quanto appena detto, ma anche perché un assessorato
dedicato ai temi dell’innovazione afferma con forza la rilevanza
dell’innovazione per lo sviluppo del territorio e ne ribadisce anche la
vocazione non solo nazionale. La grande enfasi sui distretti tecnologici e sui
centri di eccellenza dimostra che anche la ricerca e l’innovazione devono essere
localizzate e lo stesso Stato nazionale deve focalizzare maggiormente i suoi
sforzi concentrando le competenze in territori dalla specifica vocazione. Anche
questa tendenza – oramai consolidata in Europa – zittisce di fatto i cantori
della e-economy che avevano annunciato la “morte della distanza” e la perdita di
valore del territorio. Oggi il territorio – vero e proprio sistema cognitivo,
che “contiene” e alimenta in continuazione uno stock di conoscenze implicite,
rese disponibili agli attori che in esso sono “immersi – è più importante che
mai e può rappresentare una nuova fase del Made-in-Italy che potremmo chiamare “Experienced-in-Italy”,
per mettere l'accento sul fatto che l'elemento differenziante della nostra
offerta non è più il fatto che viene prodotta in Italia, ma che deve essere
“vissuta” e “consumata” in Italia. E questo non è solo il turismo, ma sono anche
i beni culturali, l’education, l’enogastronomia, l’artigianato e addirittura
l’entertainment (come i recenti casi di Matera con il film “The Passion” e Porto
Empedocle, che probabilmente cambierà nome in Vigata – il paese fittizio del
commissario Montalbano) hanno ampiamente dimostrato.
FILAS NEWSLETTER n.6, febbraio 2005